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il primo rumore di guerra per allearsi col più fortunato, e riacquistare il perduto, od occupare l'altrui, senza badare che un'altra guerra od alleanza li avrebbe per avventura spogliati di ogni cosa.

Nel ducato di Milano il supremo potere era eser. citato a nome del giovane nipote Gian Galeazzo Maria da Ludovico Sforza detto il Moro. Di costui già narrammo i primi maneggi con Roberto Sanseverino, e le prime discordie colla duchessa Bona (1). Ora non gli era il trono distante più che di un passo. Allontanare sempre più l'imbelle nipote dalle faccende dello Stato, annullarne l'autorità, affrettarne il fine; impetrare dall'imperatore una occulta investitura del ducato, rendersi nelle cose d'Italia supremo oracolo, sopra la rovina della casa di Aragona fondare la propria grandezza, insomma di suddito farsi principe, di principe, arbitro supremo di ogni cosa, queste erano le brame di quell'animo vano ed ambizioso, facile nel cominciare, incerto nel proseguire, debole nel conchiudere.

Con ben altri auspizii reggeva Firenze sotto civil forma Lorenzo de' Medici, autore precipuo della lunga concordia d'Italia, e uomo alla cui felicità nulla mancò, nè anco, insieme con molta potenza, la libertà della patria. La sua morte fu come un segnale al- 7 aprile l'Italia di mortali sciagure. Pochi mesi dipoi l'esaltatazione di Alessandro vi alla sacra tiara servi di esca al funesto incendio: Ludovico Sforza vi appiccò le fiamme; nè per attizzarle dubitò di ricorrere allo straniero.

(1) V. sopra, parte IV. cap. VI.

1492

II.

Era rimasto erede delle viete ragioni degli Angioini sopra Napoli il re di Francia Carlo vIII, giovane debole d'animo, brutto di corpo, avvezzo nelle cose di momento a pigliar norma dalla sorella e dai cortigiani, in quelle che di per sè poteva comprendere, dal proprio appetito; del resto principe privo d'ingegno, di studio e di esperienza, ma per giovanile baldanza pieno la mente di eroiche idee, verso le quali vieppiù il soffio degli adulatori e la natura ardente dei Francesi lo sospingevano. Pretesseva diritti sopra il regno di Napoli: conquistato il quale, riputava agevole varcare il mar Ionio e l'Egeo, espellere gli infedeli dai luoghi santi, e piantare in Bisanzio l'orifiamma. Codesti diritti, codesti sogni Ludovico il Moro gli ricordò, e, profferendogli all'uopo la sua cooperazione, eccitollo a farli vivi colla spada. A tale effetto, per mezzo d'uomini fidati, gli fece vedere, come l'Italia per tanti anni di pace si trovasse disarmata, e divisa in tanti umori quante erano le sue città, i popoli insofferenti della nuova servitù; i principi non ancora avvezzi al comando; il regno di Napoli pieno di malcontento, epperciò aperto al primo aggressore. In sostanza gli conchiudeva, dover essere più faticoso l'andarvi che il conquistarlo: « oltre Napoli rimaner poi altre e veramente grandi intraprese, la sottomessione dell'Oriente, l'innalzamento della cattolica fede, il rinnuovamento dell'impero di Carlo Magno; queste gesta essere degne di un re di Francia ». Carlo vi non potè ascoltare freddamente le lusinghiere parole degli ambasciatori milanesi, alle quali

somministravano appoggio gli egregi doni da essi accortamente distribuiti fra i cortigiani. Tosto, benchè senza apparecchi, e contro il parere di tutti i più savii, fu risoluta e intrapresa una spedizione contro il regno di Napoli.

Appena saputo ciò, il papa e il nuovo re di Napoli Alfonso, che era in questo mezzo succeduto a Ferdinando, mandarono un esercito in Romagna affinchè si opponesse al passaggio dell'avanguardia francese. Era in questo esercito il fiore dell'italiana milizia; Ferdinando duca di Calabria col consiglio del marchese di Pescara n'era capitano generale: il conte da Pitigliano comandava alle genti della Chiesa : e vi militavano colle loro bande romagnole Naldo e Vincenzo da Brisighella rinnovatori della fanteria italiana, e colle loro compagnie d'uomini d'arme Annibale Bentivoglio e Bartolomeo d'Alviano, le cui azioni saranno materia di più lungo discorso. Ma sovra tutti per grandezza di fatti e di riputazione primeggiava Gian lacopo Triulzio. Era questi, come altrove dicemmo, stato uno dei principali guidatori della guerra mossa nel 1487 contro i Veneziani, e del trattato di pace concluso a Bagnolo. Quindi aveva aiutato il re di Napoli a sottomettere i baroni ribelli, racquistato al papa Osimo occupatagli da un Boccalino dei Guzzoni (1): alla fine la bassa gelosia di Ludovico il Moro l'aveva astretto ad abbandonare gli stipendii di Mi

(1) In premio di queste imprese aveva egli ottenuto dal papa il contado di Belcastro, e dal re il titolo di capitano generale delle sue armi, colla condotta di 500 cavalli e colla provvigione di 2000 ducati. Rosmini, Vita del Triulzio, I. IV. 148-188. 1. V. doc. 20.

lano: era allora passato ai servigi del re di Napoli, da cui era stato spedito con podestà viceregale nell' Abruzzo a reggervi le genti d'arme.

Del resto le forze dei Napoletani e Pontificii radupate in Romagna superavano di molto le francesi ; risoluta poi era l'opinione del Triulzio e del Pescara di venire a giornata primachè il re di Francia sopragiungesse col resto dell'esercito, e rendesse impossibile non solamente il vincere, ma il fermarsi. Ciò nulladimeno, sia perchè così suonassero gli ordini segreti dati dal papa Alessandro vi al conte da Pitigliano, sia per sua naturale lentezza e irresoluzione, stette questi immobile contro ogni consiglio un po' rischioso. Invano il Triulzio offerse per malleveria della prossima vittoria il capo del proprio figliuolo; invano fece distendere in carta solennemente il proprio parere, e tanto si affaticò, che trasse dalla sua eziandio il duca di Calabria. Allorchè il Pitigliano più non ebbe ragioni da opporre, e a suo malgrado fu deliberato di uscire a battaglia, chiese in grazia che essa venisse differita al giorno seguente. Conseguita la domanda, quella notte stessa tenne modo, che i Francesi passassero a man salva fra i suoi alloggiamenti e quelli dei Napoletani, e rendessero perciò vano qualsiasi tentativo di raggiungerli (1). Così l'occasione di combattere fu perduta e per sempre. Quindi il campo della lega senza aver nulla operato ritiravasi verso Roma, alla quale oramai soprastava l'esercito condotto in persona dal re di Francia.

(1) Rosmini cit. I. V. 213.— Giovio, Ist. l. I. p. 42. Guicciard. I. I. 208. Comines, Mémoires, J. VII. ch. 1-7.

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Erasi questi pel Monginevra e per l'Apennino di settemb. Pontremoli calato senza ostacoli dalla Francia in Lombardia, e dalla Lombardia in Toscana, con gran terrore dei popoli, i quali rimanevano smarriti al mirare le non più viste ordinanze a piedi degli Svizzeri e dei Guasconi, e il ricco seguito degli uomini d'arme e dei cavalleggieri, e l'immenso traino dei cannoni e delle colubrine, quale otto, quale dodici piedi lunga, quale impernata sopra due ruote, quale sopra quattro, e tutte trascinate con velocità incredibile dai cavalli (1). Si raddoppiò la tema e la meraviglia degli Italiani, allorchè seppero che Fivizzano, terra dei Fiorentini, la quale per que' tempi era riputata molto forte, era stata in un batter d'occhio presa d'assalto e sterminata di averi e di abitatori. Ciò non pertanto l'esercito francese, essendo come chiuso tra i monti ed il mare, coi forti di Sarzana e di Sarzanello alle spalle, con Firenze a fronte, gli Apennini e la flotta aragonese ai fianchi, ed avendo oltre a ciò contraria a sè non meno la natura della stagione che l'animo degli abitanti, sarebbe stato ridotto in pochi giorni a gravissimi partiti, se Piero de' Medici, padrone di Firenze, non avesse amato meglio di smembrare la patria di mezzo il dominio, affine di signoreggiare con quiete sopra l'altra metà. Questa falsa lusinga l'indusse a cedere al re di Francia, non che Sarzana e Sarzanello, ma Pietrasanta e Pisa e Livorno, e di giunta la somma di dugentomila ducati. Così il cammino di Napoli fu spalancate

(1) V. la descrizione della entrata del re in Roma nel Giovio (1. II. f. 59).

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