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coll'esempio non avesse riordinato e raffrenato le altre schiere. Rituffati gli Italiani nel Taro, il re si affrettò a raggiungere il suo antiguardo, dove Camillo Vitelli, e il Secco, e il Triulzio facevano caldissima istanza di proseguire la vittoria e compierla affatto col rivalicare il fiume, ed assalire il campo dei nemici sparsi e sbigottiti.

Passò di questa guisa la giornata al Taro, perduta dagli Italiani per la perizia militare di altri Italiani, per la rapacità e la indisciplina delle proprie soldatesche, per avere sminuzzato in troppe parti l'esercito, per non avere saputo servirsi con profitto delle artiglierie, e soprattutto (non vuolsi dissimularlo) per la contrarietà della fortuna; posciachè, se il fiume non avesse messo quegli ostacoli, che mise, al passaggio delle squadre di riserbo, o se Rodolfo Gonzaga avesse potuto chiamarle a tempo opportuno, è molto probabile che la battaglia avrebbe avuto un esito assai differente. Però la dissi perduta; ancorchè i Veneziani, allegando in contrario l'acquisto delle salmerie nemiche, se ne gloriassero come di vittoria, ed innalzassero per commemorazione di essa in quel luogo una cappella, e promuovessero il marchese dal grado di governatore a quello di capitano generale. Ma gli Italiani si erano uniti in lega ed erano venuti a battaglia per impedire il ritorno ai Francesi; ora essendosi ritirati non solo senza aver conseguito il loro intento, ma con molto maggior numero di morti e con molto maggiore paura, vinti furono a infamia di loro stessi, che avevano due o tre volte più gente del nemico.

Durò il fatto d'arme un'ora, cioè un quarto d'ora

nella mischia, e tre quarti nella ritirata; la quale fu resa sanguinosa dal furore dei Francesi, che gridando l'uno all'altro: Ricordatevi di Guinegate! (avevano églino perduto alcun anno innanzi nel luogo di tal nome una battaglia per la troppa smania di bottinare) non davano quartiere; anzi non così tosto un uomo d'arme italiano era caduto, che tre o quattro dei loro valletti gli si scagliavano addosso colle scuri a fracassargli maglie ed ossa. Cosi 3500 soldati della Lega vi restarono uccisi. Fu tra costoro Gian Iacopo, postumo rampollo dei Piccinini. A Bernardino da Montone, che ultimo e quasi morto fu portato via dalla zuffa, il Senato di Venezia accrebbe il grado e lo stipendio (1). Levossi il re Carlo l'alba seguente senza suono di 9 Sbre trombe, e, preceduto dal Triulzio che colle molte sue amicizie gli agevolava il cammino, non senza gravi stenti si condusse ad Alessandria, e quindi in Asti. Indi a poco, conclusa pace con Ludovico Sforza, e riscattatosi per mezzo milione dalla insolenza delle proprie bande svizzere, con ben altri pensieri rivalicava le Alpi.

Esaminando ora d'uno sguardo questa fatale spedizione, vedremo che l'imbecillità di Piero de' Medici, la rea politica di Ludovico il Moro, il mal animo dei sudditi, l'infedeltà o la codardia o la imperizia delle soldatesche, la stolta fretta medesima di Carlo vin,

A.

(1) Guicciard. II. 368. segg. Comines, VIII. 12. Navagero, p. 1205 (t. XXIII). — Giovio, II. 99. segg. - Rosmini, cit. VI. 247. segg. Corio, VII. 947.- Guill. de Villeneuve, Mémoires, p. 263 (ap. Petitot, Collection de mémoires, t. XVI). — Bembo, storie, l. II. p. 135 (Milano, 1809). — Benedetti, Il fatto d'arme al Taro.

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la superiorità delle sue artiglierie, infine la inaspettata clemenza della stagione, furono i veri mezzi che riuni Iddio per appianargli in modo straordinario la via dalle Alpi a Napoli. Dalla sua calata insino alla battaglia di Fornuovo sarebbe assurdo fare alcuna comparazione di valore fra Italiani e Francesi, non vi essendo stata di mezzo nè anco una scaramuccia ; a Fornuovo non tanto la individuale bravura, quanto la disciplina e la fortuna degli invasori riportarono vittoria della sfrenatezza degli Stradiotti e del mal indirizzo degli Italiani. Pur quella era l'ultima battaglia, che il corpo degli Stati di Italia, contro a uno straniero, ingaggiasse; la qual sorte due sole volte in tanti secoli le occorse. E per vero dire, come a Legnano trionfando dell'imperatore Federico Barbarossa aveva acquistato libertà e indipendenza, a Fornuovo non vincendo il re di Francia riperdeva l'una e l'altra, per adorare sette lustri appresso nell'imperatore Carlo v l'arbitro suo.

IV.

Non piccolo lievito a nuove discordie ed invasioni e sciagure aveva lasciato in Italia Carlo vin nel suo dipartirsene. Digià Firenze, deliberata a impiegarvi tutto il suo potere, aveva cominciato guerra contro ai Pisani, i quali, come dicemmo, le si erano ribellati sotto i francesi auspicii; guerra rovinosa agli uni ed agli altri, guerra per iscopo, per mezzi, per ogni altro accidente miserabile. Combattevano per Firenze Ranuccio da Marciano, Paolo e Vitellozzo Vitelli, e Francesco Secco; militavano per Pisa, insieme cogli aiuti mandati dal duca di Milano e dai Veneziani, e

con qualche nerbo di Tedeschi, Lucio Malvezzi, Ludovico Mirandola, Gianpaolo Manfrone e Soncino Benzoni, tutti condottieri fra gli Italiani di qualche nome e potenza. Però intanto che in oscure fazioni si consumavano le loro forze e si moltiplicavano gli sdegni con pregiudizio non meno dei vincitori che dei vinti, un fiero turbine si addensava nell'Umbria sopra Firenze.

Avevano preparato questo turbine gli Stati della Lega italiana per deprimere e punire in lei la soverchia affezione verso la Francia: Piero de' Medici, già signore, ora fuoruscito della patria sua, dirigeva la trama, e ne doveva essere strumento Virginio Orsini, che, fuggitosi anch'egli durante la battaglia di Fornuovo dal campo francese, aveva molto lietamente abbracciato l'occasione di raccogliersi attorno coll'altrui pecunia gli antichi suoi soldati e partigiani. Lusingavansi poi i congiurati, che Giovanni Bentivoglio da Bologna, Caterina Sforza da Imola e da Forlì, ed i Baglioni da Perugia avrebbero mosso guerra alla repubblica: al che, quando per avventura si fosse aggiunta, come credevasi, la sollevazione di Cortona, e quando Siena, giusta l'intesa, avesse pigliato le armi per riacquistare Montepulciano, e Pisa si fosse mostrata alquanto viva nella propria difesa, poca speranza di salute sarebbe rimasta ai Fiorentini. Con tutto ciò l'impresa ebbe il fine, che per solito arriva ai consigli troppo complicati. Virginio Orsini, dopo avere invano oppugnato la terra di Gualdo, e atteso nei territorii di Perugia e di Siena lo scoppio, di tutti i maneggi, con mille tra uomini d'arme e cavalleggeri si rivolse verso l'Abruzzo in servigio del re di

Francia; e tosto gli tennero dietro pel medesimo effetto colle loro genti Paolo e Camillo Vitelli (1).

Erano in questo mezzo le cose dei Francesi nel re▲, 1496 gno di Napoli precipitate a manifesta rovina. Partito Carlo VIII, il buon re Ferdinando era stato accolto a Napoli in trionfo, e incontanente aveva posto inano a sottomettere ad una ad una le provincie perdute. Nė fu piccolo augumento alla sua causa il ritorno di Prospero e di Fabrizio Colonna. Costoro erano stati dei primi ad entrare nel servigio dei Francesi: i soverchi premii impartiti loro dal re Carlo ví, furono a quel che parve, incentivo ad abbandonarlo, sia che eglino non sapessero più qual guiderdone aspettarne, sia che coll'unirsi al vincitore credesser di conservare meglio i doni ricevuti dal vinto. Ravvivò alquanto le cose dei Francesi l'arrivo di Virginio Orsini e dei Vitelli nella Puglia; dove entrambi gli eserciti accorsero per riscuotere la gabella dei pascoli, sicchè in pochi giorni tra una parte e l'altra distrussero con leggerissimo vantaggio proprio seicentomila capi di bestiame minuto e duecentomila di grosso. Del resto la guerra continuò senza venire segnalata da altro che dalle miserie dei popoli. Bensì stimiamo degno di particolare menzione il generoso eccidio di 700 fanti tedeschi.

Conducevali un capitano Eberlino dalla città di Troia a quella di Lucera; quand'ecco a mezza via affacciarsi la schiera di Camillo Vitelli, trascorsa innanzi all'esercito francese. I Tedeschi, non potendo retrocedere, anzichè arrendersi, si ordinarono in cerchio colle picche e cogli archibusi, e si avanzarono

(1) Guicciard. 1. III. p. 16-25. — Giovio, Ist., IV. 165.

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