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aveva trovato il riparo contro alle armi dei nemici, avesse trovato un bastevole schermo contro alla viltà ed al tradimento dei suoi ministri. Infatti, non si erano ancora i due fratelli da Sanseverino accozzati insieme (e dissesi che indugiassero a farlo per causa del conte di Caiazzo, il quale non voleva a niun patto sottostare nel governo delle armi al fratello minore di sè per età e per esperienza), non avevano ancora i Francesi messo l'assedio ad Alessandria, che Galeazzo occultamente se ne fuggiva. Subito la città venne occupata dagli invasori; dell'esercito milanese parte fu svaligiata, parte si disperse, parte passò al nemico. Bentosto la presa di Mortara e di Pavia, le scorrerie dei Veneziani, e il tumultuare della plebe di Milano, persuasero il duca a porre in salvo, non che lo Stato, la vita propria. Quasi solo, lagrimando, maladetto uscì dalla città, che gli era costata infiniti travagli e delitti. Scontrollo presso le porte il conte da Caiazzo, già da lui ricolmato di onori e di ricchezze ; esclamando, che ad un principe fuggitivo nessuna fede era più dovuta, gli innalberò in faccia le insegne di 67bre Francia. Così senza trarre colpo di spada, il ducato di Milano cadde in potere degli stranieri (1). Luigi xi rimunerò il Triulzio elevandolo al grado di maresciallo, e donandogli la città di Vigevano per compensarlo delle artiglierie trovate in Milano, che a lui, come a generale supremo, sarebbero di diritto appartenute (2).

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(2) Valutossi il loro prezzo in 150 mila scudi. V. Rosmini, Vita del Triulzio, VIII. 332.

Ma quelle medesime cagioni, che avevano rimosso A. 1500 il re Carlo vi da Napoli, non tardarono a manifestarsi in Milano contro Luigi xn, ed a generarvi un odio ineffabile delle presenti condizioni, ed un desiderio ardente delle passate. Nè somministravano leggiero fomento al mal umore dei Milanesi gli aspri e parziali modi del Triulzio, luogotenente del re, solito a usare nelle cose civili la crudezza delle guerresche, e per sopraggiunta concittadino; sopportando sempre mal volentieri gli uomini l'altrui supremazia, ma troppo più quella d'uomo già tenuto per uguale, già conculcato ed irriso. Accrebbero il malcontento alcuni dazii rimessi in piedi dal re contro il parere del Triulzio: dal malcontento nacque un tumulto: nel tumulto lo stesso Triulzio, sopraffatto dallo sdegno, uccise di sua mano, chi dice uno, chi parecchi uomini della minuta plebe. Allora quello che era nascosto desiderio di pochi, diventò generale e quasi pubblico intento: aprironsi trattative coll'antico signore Ludovico il Moro, il quale scese le Alpi con 8000 Svizzeri e 500 Borgognoni assoldati privatamente, e senza impedimento occupò Como, entrò in Milano, e ottenne a patti Novara. Gian Iacopo Triulzio raccolse a Mortara tutte le soldatesche regie, più disposto a ricuperare il ducato colle nuove genti aspettate di Francia, che a difenderlo colle poche che gli rimanevano.

Queste cose avvenivano nel febbraio del 1500: il mese dopo il maresciallo coi freschi soccorsi venutigli dalla Francia chiudeva Ludovico il Moro dentro Novara, e ve lo assediava. Era il costui nerbo, come dicemmo, di Svizzeri. Ma la tardanza dei pagamenti, e l'avere loro dinegato il sacco delle terre ricupe

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rate, li avevano molto male disposti verso il duca. Lo seppe il Triulzio, e per mezzo dei capitani della stessa nazione, che aveva nel suo campo, li fece tentare con denari promesse. In conclusione, sia affatto per seducimento altrui, sia, come corse fama, per obbedienza ad un messaggio dei cantoni, in cui si proibiva alle soldatesche dell'uno e dell'altro esercito di venire alle mani, gli Svizzeri del duca di Milano risolsero di abbandonarlo alla sua ventura, e ritornare alle proprie case. Invano impiegò egli per dissuaderli ogni argomento di lagrime, di promesse e di doni; invano profferse ai Francesi umilissime condizioni di pace. Il Triulzio trovò modo di mandarle a monte. Da ultimo, posciachè senza gli Svizzeri nė fuggire, nè far battaglia, nè resistere poteva, Ludovico Sforza supplicolli in grazia, di venire accolto tra le loro file per stare alla fortuna, se non fosse riconosciuto, di salvarsi. A tanto di miseria era precipitato un principe, uso ad abbracciare col desiderio tutta l'Italia, dopo inaspettate vittorie, non vinto, anzi non pur tentata la prova delle armi !

Passavano gli Svizzeri a due a due per mezzo il 10 aprile campo francese schierato sopra due fronti; e in abito soldatesco, colla picca in mano marciava tra loro Ludovico il Moro; quand'ecco pei cenni d'un traditore viene scoperto, e tosto insieme coi ́ fratelli da Sanseverino condotto al cospetto del nemico. In questo punto nel Triulzio la rabbia d'esule e la superbia di vincitore prevalsero alla grandezza ordinaria della sua fama e dei suoi propositi. Non solo tollerò di mirarsi davanti in miserabile aspetto l'antico suo signore, ma non ebbe vergogna di ricordargli con

amari sarcasmi i torti da lui ricevuti. Sciagurato! che non prevedeva di quanta ingratitudine fossero per rimeritarlo quei medesimi padroni, ai cui interessi allora immolava la sua vera gloria! Chè se Ludovico Sforza si mostrò nel resto della sua carriera vano, insolente, crudele, dalla prima sua cacciata all'infortunio di Novara s'acquistò abbondante lode di prudenza, di alacrità, di valore, e di ogni altro pregio conveniente a principe ed a privato: anzi queste ultime sue opere, e le perverse di chi gli successe, e la perfidia colla quale fu trattato, ne dovrebbero disacerbare quasi la memoria appresso i posteri, se la sventura bastasse a cancellare i delitti.

Del resto tutti sanno, come i Francesi ricuperassero senza contrasto la Lombardia, come Ludovico Sforza languisse dieci anni in Francia nel castello di Loches, e quel Turmann svizzero, che l'aveva tradito al prezzo di cinquecento scudi, venisse in patria dopo severi esami decapitato per pubblica sentenza (1).

II.

La pace di Soriano testè conclusa coi Vitelli e co- A. 1501 gli Orsini aveva non ispento, ma consolidato nel papa Alessandro vi e in Cesare Borgia duca Valentino suo figliuolo il vivo desiderio di sbarbicare affatto dalle città soggette tutta la turba dei tirannelli, e sopra i loro cadaveri ergere un solo e terribile

(1) Rosmini, cit. 1. VIII. doc. 12. 13. - De Zur-Lauben, Hist. milit. des Suisses, t. IV. 108. — Guicciard. IV. 288. - Sismondi, Hist. des Franç. t. XV. 317. — Prato, Storia di Mil. p. (Archivio Stor. t. III).

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La nota XXIV contiene il sunto degli esami e delle sentenze.

principato. Vasto disegno, che avrebbe riunito in un bel corpo città e provincie senza utile nè splendore divise e malmenate; se da una parte inaspettati eventi non avessero rotto le fila della gran tela, e dall'altra i mezzi impiegati a tesserla fossero stați (anche tenuta ragione dell'indole di quei tempi) meno crudi e criminosi. Il primo pensiero del Valentino fu quello di dividere e imperare. Ora per dividere mille strade gli erano apparecchiate, come mutue gelosie, inveterati sdegni, mal represse ambizioni: aggiungi che le spoglie del primo signore potevano proporsi in premio ad un secondo, e quelle del secondo ad un terzo; e così abbattere l'uno col braccio dell'altro. Le vie poi d'imperare, se gli fossero note, vedrà il lettore.

Cominciò dall'unirsi strettamente col re di Francia, e impetronne un aiuto di 300 lancie e di 2000 fanti: quindi fece lega cogli Orsini, con Vitellozzo Vitelli, e con Giampaolo Baglioni signore di Perugia, avendo ad essi fissato per guiderdone le sostanze dei Colonnesi e dei Savelli. Ma già prima aveva egli assoldato 700 uomini d'arme tra Spagnuoli e Italiani, 6000 fanti, e le ordinanze a piedi oramai famose di Naldo e di Vincenzo da Brisighella. Con queste forze discacciò da Imola da Forli Caterina Sforza, prese Rimini e Pesaro, occupò Val di Lamone, e mediante un accordo da lui giurato, ma non adempito, entrò nella città di Faenza (1). Di colà col medesimo impeto proruppe nella Toscana, sforzò i Fiorentini a stabilirgli una condotta di 500 lancie, e spinse il

(1) Guicciard. V. 304. 313.-Machiav. Il principe, c. VII.

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