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sia alla volontà del senato, sia alle necessità delle provincie.

In pace, i soldati stavano alla guardia delle città e delle fortezze, e venivano coi tributi locali pagati a mese a mese. Al governo di ogni città era preposto un podestà ed un capitano. Quegli, coll'assistenza di alquanti giurisperiti, giudicava le cause civili e criminali: questi aveva la cura di tutte le soldatesche, delle mura, delle castella, delle porte, dei dazii e delle pubbliche entrate non meno della città che della provincia. Dipendeva da lui il camerlengo, il quale era particolarmente preposto a riscuotere i tributi e a dare le paghe ai soldati, e il castellano, il quale teneva sotto la sua speciale vigilanza il castello, e le armi, le munizioni e le artiglierie che vi erano dentro. Nelle minori terre il podestà suppliva a tutto con comando civile e militare (1).

Tali erano gli ordini militari della terraferma veneta, imperfetti nella essenza, imperfetti nel modo; conciossiachè nè tutti i sudditi erano sottoposti ugualmente ad essere chiamati alle armi, nè i chiamati avevano sufficiente esperienza, o stimolo da buon guerriero. Aggiungi che la nobiltà veneziana, nella quale risedeva l'anima e la testa dello Stato, era per legge rimossa da ogni servigio guerresco in terraferma; sicchè la repubblica non poteva essere bastantemente difesa nè dalle forze dei suoi sudditi, nè da quelle della metropoli. Bentosto una fatale contesa, somma

(1) Contareno, La repubblica e i magistrati di Vinegia, 1. III. f. 35, e l. IV. f. 61. 63 (Venezia 1548). — Marcaldi, Relaz. della repubblica venez. (ms, della Biblioteca Saluzziana).

mente rovinosa non meno a Venezia che a tutta l'Italia era per far toccare con mano, che la prima condizione della durata di uno Stato è il pieno sviluppo di tutte le sue forze materiali e morali; nè pieno si può esso riputare giammai, finchè in caso di pericolo non possa il governo valersi delle braccia di tutti insieme per sua salvezza. Perduto in una zuffa di tre ore il retroguardo di un fiorito esercito, ben avrebbe la repubblica, mediante l'affezione dei suoi sudditi, potuto contrastare a palmo a palmo il dominio terrestre, se pari alla affezione avessero eglino avuto uso d'armi, alti sensi di onore e di bravura, e proprii e sufficienti capi. Al contrario quella parziale sconfitta bastò a ridurre la repubblica alle antiche lagune, e metterne a repentaglio la esistenza. Grande lezione pei principi che volessero sceverare la loro causa da quella dei popoli!

II.

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Non mai aveva l'Europa mirato una più vasta e 10 xbre compatta lega di quella, che contro ai Veneziani stringevano a Cambrai Luigi XII re di Francia, Massimiliano I re de'Romani, il papa Giulio 1, e Ferdinando il Cattolico re di Aragona; ai quali poco stante si aggiungevano ancora Carlo duca di Savoia, Alfonso d'Este duca di Ferrara e Francesco Gonzaga marchese di Mantova. Comune stimolo di tutti era l'ambizione; ma ognuno di essi aveva il proprio suo fine. Giulio il faceva per ricuperare Cervia, Ravenna e le altre terre che la Repubblica aveva usurpato alla Chiesa subit dopo la morte di Alessandro vi; Massimiliano per vendicare le vergogne ricevute nella passata guerra;

il re di Francia per distendere il dominio milanese agli antichi confini; Ferdinando, pronto sempre a partecipare nei guadagni, non mai nei pericoli, anelava all'acquisto delle città marittime della Puglia. Il duca di Savoia era piuttosto trascinato dall'esempio e dall'autorità della Francia, dal cui dominio si trovava allora tutto circondato. Quanto all'Estense e al Gonzaga, non mancavano loro antichi rancori e desiderii da soddisfare.

Accolse Venezia con grandezza di animo veramente italiana l'inaspettata disfida, e, quantunque sola, e privata del braccio di Renzo e di Giulio Orsini (li aveva essa assoldati con 500 lancie e 5000 fanti, ma il Papa li soprattenne a forza), si apparecchiò a resistere agli sforzi combinati di mezzo l'Europa. Riuni un esercito di 2000 uomini d'arme, 3000 tra cavalleggieri e Stradiotti, 15,000 cerne, e altrettanti soldati a piedi delle migliori fanterie d'Italia. Prepose a comandarlo Niccolò Orsini conte da Pitigliano, e Bartolomeo d'Alviano, quello col grado di capitano generale, questo di governatore. Però non mai erano state costrette a cooperare insieme due nature tanto fra loro contrarie, quanto quelle di questi due condottieri. Vecchio di età, lento, impassibile, ostinato, era il Pitigliano uno di coloro, che reputano vincere il non perdere, nè il vantaggio di una vittoria così grande da superare il pericolo di una sconfitta. Minore di età e di esperienza, tutto ira, tutto impeto, l'Alviano non aveva di comune con lui che il nome del casato, e il vessillo sotto il quale combattevano; del resto pronto a pugnare.sempre ed a marciare sempre innanzi; insomma di quelli

che, vincitori, tutto conculcano nella prima foga, vinti, non sanno rimettersi che assaltando.

Consigliava il Pitigliano di raccogliere le soldatesche in un forte sito tra l'Oglio ed il Serio, e, abbandonata al nemico la Ghiaradadda, da quell' inaccessibile ricovero assecurare senz'altra fatica tutta la terraferma; partito prudente, che posto accortamente in esecuzione avrebbe salvato lo Stato. Proponeva l'Alviano di passare l'Adda, assalire inopinatamente i Francesi dentro il proprio loro confine, vincerli, e vinti che fossero ritornare addietro per respingere con uguale prontezza i Tedeschi; partito audace, ma non disperato, nè privo di molti vantaggi. La signoria non ebbe coraggio di appigliarsi affatto all'una od all'altra di queste due opinioni; ma dando con infelice consiglio di mezzo ad entrambe, deliberò che l'esercito si accostasse bensì all'Adda per difendere tutto quel tratto di paese e impedirne l'entrata al nemico, ma si guardasse assolutamente di venire alle mani.

Con questa risoluzione i Veneziani si approssimarono all'Adda, ed espugnarono Treviglio: ma mentre sono intesi a metterla a ferro ed a sacco, il re Luigi xit getta tre ponti a Cassano, e traghetta senza ostacoli sull'altra sponda. Ciò fatto, il Triulzio gli gridava: Sire, oggi abbiamo vinto i nemici! (1) Nulladimeno il re, veggendo che i Veneziani non si muovevano punto dai trincieramenti presso Treviglio, avviò l'esercito verso Pandino e Vailà, affine di recidere loro le comunicazioni colle città di Crema e di Cremona, e quindi

(1) Guicciard. VIII. 324. - Bembo, VII. 82.

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o snidarli dal forte sito, o trascinarli nella necessità di venire ad un fatto d'arme.

Due strade mettevano da Cassano, a Vailà: l'una 14mag più bassa e lunga serpeggiava accanto al fiume, l'altra superiore e più breve passava in mezzo a collinette coperte di macchie e di vigneti, e faceva alla prima come la corda all'arco. Per quella s'incamminarono i Francesi, per questa i Veneziani risoluti a prevenirli, e coll'accamparsi in luogo opportuno impedirne i divisamenti. Marciava innanzi coll'antiguardia e colla battaglia il Pitigliano; tenevagli dietro a certa distanza in forma di retroguardo con 800 lancie e col fiore della fanteria Bartolomeo d'Alviano.

Giunto al crocicchio ove le due vie si univano, l'Alviano scoperse i Francesi al di là di un torrentello, che allora si trovava secco di acque: e, fosse necessità, fosse furore, non si potè tenere si, che piantati sei pezzi d'artiglieria sopra l'argine di quello, e mandato in fretta a pregare il Pitigliano di ritornare addietro, col solito empito non desse dentro. Piegarono al primo scontro i Francesi: riordinolli la presenza del re; finchè, essendo sopraggiunte al rumore le altre schiere, tutto il loro esercito si riversò addosso ai Veneziani. Questi tuttavia, fidando nel prossimo arrivo del Pitigliano, stettero gagliardamente al contrasto. Vana lusinga, che distrusse senza pro il fiore della italiana fanteria! Infatti il Pitigliano, sia che riputasse quella cosa di lieve momento, sia che la giudicasse impossibile a ripararsi, senza badare ad altro, attendeva a camminare innanzi. Alla fine, dopo tre ore di calda mischia, l'Alviano, mentrechè tutto

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