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tostamente i Veneziani al possesso di Brescia, se Bartolomeo d'Alviano dal grave travaglio sostenuto in quella battaglia sopra le forze dell'esile suo corpo non si fosse infermato di un'ernia, che prestamente 7 8bre il tolse dal mondo.

Era egli di piccola statura, di stentata favèlla e d'i gnobile aspetto, insomma da parere quasi generato per dispregio della umana schiatta; se i neri e vivissimi occhi non avessero in lui svelata quell'anima potentissima, secondo la quale soleva abbracciare di tutti i consigli il primo o il più pericoloso, senza indugio intraprenderlo, senza riguardo seguitarlo, con furia pari all'audacia proseguirlo sino al fine, e, vincitore, estendere la vittoria all'estremo, vinto, con più terribili intenti ritornare sul nemico, offenderlo sempre, ad ogni colpo serbare l'animo invitto, anzi crescerlo nella sventura, anzi moltiplicarlo. Niuno fu di lui più diverso dal Pitigliano, datogli sovente per correttivo: entrambi per opposti difetti autori della disfatta di Vailà. Niuno fu in cui le forze dell'animo pugnassero tanto con quelle del corpo, delle quali troppo piccol conto suolsi tenere nell'estimazione degli uomini illustri. Aggiungasi che sotto quell'orrida scorza si nascondeva bontà, schiettezza, semplicità di cuore, e integrità di vita non comuni. Nè all'arrischiato guerriero un certo amore e studio di lettere mancò; se vero fu, come sembra, che vivesse in istretta amicizia, e dimestichezza con Andrea Navagero, con Girolamo Fracastoro, con Giovanni Cotta e con Girolamo Borgia, e stabilisse per così dire un'accademia a Pordenone, città a lui donata dalla repubblica; e stando prigio

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niero in Francia, con una cannuccia e con polvere di carbone intrisa nel vino scrivesse i commentarii della propria vita, che altri vide ed esaminò (1).

Serbarono le meste soldatesche del campo veneto Per alquanti giorni la salma imbalsamata di Bartolomeo d'Alviano, facendole l'usato padiglione, e con perpetuo lume di doppieri e guardia armata rendendole, come a vivo, i supremi onori. Quando poi trattossi di trasportarla a Venezia, non comportarono che se ne chiedesse il salvocondotto ai nemici che erano in Verona; ma sclamando, che chi vivo non li aveva temuti mai, morto non doveva nemmeno far segno di temerli, a viva forza lo condussero in salvo. Solenni esequie, funebre orazione per bocca di Andrea Navagero, magnifico monumento nella chiesa di santo Stefano, annue provvigioni e comodi assegni alla vedova ed ai figliuoli rimasti in povertà, onorarono quindi per parte della repubblica la memoria di Bartolomeo d'Alviano, della cui morte tutta Venezia fu dolentissima, quantunque, stante gli ordini suoi di aristocrazia ricca ed immutabile, anzichè un animo bollente e rischioso, le sarebbe convenuto un freddo capitano, che sapesse temporeggiare la guerra, e temporeggiando vincere (2).

Alle calde istanze dei Veneziani sottentrò nelle A. 1546 veci del morto Alviano Gian lacopo Triulzio; e tosto,

(1) Tiraboschi, Storia della letter. ital. t. VII. p. I. l. I. c. IV. §. 23.-P. Jovii, Elogia, I. IV. 348.-Nardi, Storie, 1.

III. 91.

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(2) Paruta, Ist. Venez. 1. IH. p. 134. Giovio, Storie, XV. 437. Guicciard. XII. 209. - A. Mocenici, VI. y. - Mém. de M. du Bellay, 271 (t. XVII).

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raccostate le squadre a Brescia, colle artiglierie e colle mine si diede a travagliarla molto gagliardamente. Nè essa avrebbe mancato di arrendersegli, se la trascuraggine degli alleati, e la calata di Massimiliano re dei Romani, non lo avessero costretto ad allargare l'assedio. Ciò l'indispetti di maniera, che, rifiutando gli onori, le preghiere ed i denari propostigli dal senato, si licenziò dal comando, e si ridusse in Milano. Quivi venne molto a proposito l'opera sua per mantenere i cittadini in fede del re di Francia contro gl'interni mali umori e gli assalti dei Tedeschi condotti fino sotto le mura da Massimiliano. Quivi pure stavano in breve per colpirlo non attese sciagure.

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Quanto al corso della guerra, diremo che Massimiliano non tardò a partire dall'Italia a guisa di fuggitivo, senza avere nemmanco assicurato Brescia dagli insulti ostili. Così tutti gli sforzi uniți dei Fran- 34magg cesi e dei Veneziani si raccolsero attorno Verona, dentro la quale si erano chiusi 1800 fanti Spagnuoli, 4000 Tedeschi sotto un Giorgio Frundsperg, che da cinque anni militava in Italia e vi era per crescere a terribile fama, 500 Svizzeri accogliticci, alcune bande venturiere di cavalleggeri italiani, spagnuoli e tedeschi, e qualche centinaio di Greci, che, abbandonate le lunghe e curve targhe, sotto alle quali già erano soliti a combattere disarmati, avevano appreso a munirsi di elmo, di usbergo e di mazza d'arme, e, trascorrendo velocemente nelle file degli uomini d'arme, ferire e fuggire insieme (1).

(1) Mém. de Fleuranges, ch. LXXIII, — Giovio, Storie, XVIII.

Presiedeva alla difesa di Verona Marcantonio Colonna, guerriero per doti di animo e di corpo salito a fama non volgare. Perciò durò essa a lungo; e invano gli assediatori vi avevano di già consumato attorno ventimila palle di ferro, quando la pace conclusa a Noyon, dapprima tra la Francia e la Spagna, e poscia confermata dagli Svizzeri e dal re dei Romani, ne aperse felicemente le porte ai Veneziani. Le soldatesche, che per cagione di questa pace furono licenziate dall'una e dall'altra parte, unironsi insieme, e, come fra breve narreremo, si voltarono a guisa đi venturieri alla guerra di Urbino. Venezia, rimasta scema di poco territorio, ma di molta riputazione, dalla lunga e pericolosissima lotta, come Dio volle, posò. Riandando allora il passato, trovò di avere speso in tutta la guerra cinque milioni di ducati ; conciossiachè tale fosse tuttavia in quei tempi la milizia, che l'onore ed il sangue si computassero a denari (1).

544. In questa difesa Marcantonio Colonna caricò con molto vantaggio i cannoni a scheggia. «< In un punto di tempo si fece <«< tanta uccisione d'uomini, che pochi ne camparono di quella << moltitudine, la quale s'era fatta innanzi. Perciò che essi « avevano ripieno le artiglierie non solamente di palle, colle «< quali l'ordinanza folta con certa e miserabil rovina era <«< stracciata; ma ancora di dadi di ferro, e di diversi pezzetti di « metallo fino alla cima della bocca, i quali cacciati dalla furia << della fiamma e della palla a guisa di gragnuola con mortal << violenza si venivano a spargere in tutte le parti, di maniera << che le corazze non reggevano punto ai colpi di quelle cose ». Giovio, Storie, XVIII. 552.

(1) A. Mocenici, l. VI. &. ii.

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- Guicciard. XII. 253.

DOCUMENTI E ILLUSTRAZIONI

AL 5° VOLUME.

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