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tare con tanta celerità il rimedio, con quanta era venuta la ferita. Era notte buia, e per neve e per freddo sopra il corso ordinario delle stagioni terribilissima. Congrega nondimeno le schiere, e parte coi preghi, parte colle minaccie le persuade ad accompagnarlo. Giunse così prestamente alle Chiuse, passo angusto quanto il fronte di due cavalli. Era stato questo passo dato in custodia a un Giacomo Marancio; il quale sapendo che la propria famiglia era caduta in potere de'nemici, acciocchè l'amore del proprio sangue non lo inducesse per caso a prevaricare, aveva consegnato il sito in guardia ai paesani amantissimi della repubblica; sicchè il conte non vi rinvenne ostacoli (1). Nulla era frattanto in quella notturna marcia il travaglio della via a monta e scendi per borri e dirupi, appetto all'orribile freddo e al folto nevazio, pel quale chi perdeva la mano od il piede, chi n'aveva guasta la vista: nondimeno stimolati dall'esempio del proprio capitano, e dal desiderio di ricuperare le bagaglie e vendicarsi, proseguivano di voglia, sinchè arrivavano sotto Verona tre notti dopo di averla perduta.

Tenevansi ancora per s. Marco la porta di Brajda, il Castel Vecchio, e la rocca di S. Felice. Per questa Francesco Sforza entrò colle sue genti, per questa sorti ad assaltare i nemici sparsi per le vie a far bottino. In breve costoro rotti e incalzati da ogni parte cominciarono a ritirarsi pel ponte detto della pietra: ma il ponte sotto al grave peso de' fuggiaschi preci

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p.

(1) Sabellici, Hist. Venet. dec. III. 1. IV. 618. di, Repubbl. Ital. c. LXIX.

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pitò, e la via a chi inseguiva, ed a chi fuggiva nel tempo stesso fu tronca. Sforza rientrò in città con 2000 prigioni. Quanto al Piccinino, se disacerbava il proprio dispetto colla certezza d'avere intanto impedito ai Veneziani di soccorrere Brescia, per l'altra parte lo accresceva a più doppi, considerando che la massima cagione del recente disastro era stata l'inobbedienza di Taliano da Forlì, il quale per quante istanze ne ricevesse non aveva mai voluto entrare in Verona colle sue squadre ad assicurarne il possesso, e che Taliano aveva disobbedito forse per comando del duca Filippo Maria; il quale sembrava volersi valere di lui per tenere in bilancia i due emuli condottieri (1).

VI.

Giunse tra questi travagli al suo termine l'anno 1459; e Niccolò Piccinino, bramoso di appropriarsi quel dominio, che Braccio suo congiunto e maestro coll'opera di lui aveva posseduto, sollecitava il duca di Milano a spedirlo coll'esercito nell'Umbria. I vantaggi, ch' egli proponeva in cotesta impresa, erano di spaventare il papa e i Fiorentini, ferirli nelle viscere loro col fomento dei fuorusciti, e allontanare mediante la diversione Francesco Sforza da Brescia, il cui assedio era come un mortifero stecco piantato nel cuore dei Veneziani. Deliberata la impresa, passò febbraio adunque il Piccinino con 6000 cavalli il Po, scese per val di Lamone nel Mugello, scorse tutto quel

(1) Joh. Simonett. 283. Crist. da Soldo, 815. - Sanuto, 1081.Navagero, 1106. Sabellic. cit. p. 620 (Venezia, 1718).

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piano sino a tre miglia sotto Firenze; ma poscia, vinto dalle calde istanze del conte di Poppi suo amico, consumò i più bei mesi dell'anno nelle sterili balze del Casentino. Levossene alla fine, gridando e bestemmiando che i suoi cavalli non mangiavano sassi, e indirizzò le squadre a Borgo S. Sepolcro. Ma egli, presi seco 400 armati, si mosse verso Perugia.

Traevanlo a visitarla affetto di cittadino e ambizione di tiranno insieme mescolati; desiderando gli uomini, non so se più sovente per grandezza o per parvità d'animo, di signoreggiare là dove sono nati. Nè mancavano in Perugia parecchi amici e adoratori ciechi del nome di Niccolò, che stimolati chi da vanità di splendore esterno, chi da privata affezione, vivamente bramavano e si studiavano di assoggettargli la patria. Nulladimeno questa volta, sia caso, sia memoria della ancor recente tirannide bracciesca, sia interessato consiglio di qualche altro ambizioso, il vantaggio dei molti sopravanzò al volere de' pochi. I Perugini conclusero, essere meglio onorare Niccolò Piccinino come cittadino, che odiarlo come principe; perciò riceveronlo bensì con molte feste; ma dopo le feste lo accommiatarono pulitamente col dono di 8000 fiorini.

Partito da Perugia, Niccolò rivolse subito i pensieri alla Toscana. Da alcune lettere intercette gli risultava, essere i capitani di Firenze e del papa alieni dal venire a battaglia; ne argomentò dover essere facile di riportarne vittoria: risolse pertanto di assaltarli, e poscia col favore della vittoria accorrere in Lombardia contro Francesco Sforza, che vi faceva alti progressi. Del resto i disordini del campo nemico, il

quale per impedirgli l'entrata nella Toscana s'era soffermato sotto Anghiari, gli facevano ben augurare del suo tentativo (1).

È posta la terra di Anghiari alle radici dell'Apennino sopra un colle inclinato con facile pendio verso Borgo S. Sepolcro che ne è discosto quattro miglia. Ai piedi del colle scorre il fiume di ripe alte e malagevoli, e sopra il fiume si ergeva un ponte di pietra detto delle forche. Per esso avevano a passare i ducali, ogniqualvolta avessero voluto azzuffarsi colle genti della lega. Ma queste confidando sia nella lontananza del nemico, sia nella difesa del fiume, non si immaginavano punto di venire almeno per quel giorno assalite. Stavansi anzi in gran sicurezza dopo 29 ggno il pranzo chi quà chi là disarmati nei padiglioni, o coricati sotto le ombre della campagna; quand' ecco a Michele Attendolo nel rivolgere per caso lo sguardo verso Borgo S. Sepolcro venne veduta una sottile nebbia di polvere, che a poco a poco crescendo e facendosi più densa e vicina lo avverti dell'avvicinarsi del Piccinino. Dato perciò all'arme, in fretta e furia si allestirono a respingerlo, quei della Chiesa a destra del ponte, i Fiorentini a sinistra del medesimo, Michele coi più bravi sopra di esso, i balestrieri lungo la riva a vietarne il varco.

Il primo, che mescolasse le mani, fu Michele: sopravvennegli addosso dalla banda opposta Francesco Piccinino, e lo respinse oltre il ponte fino all'erta che sale ad Anghiari. Ma tosto le fanterie della lega,

(1) Joh. Simonett. 292. - P. Bracciol. VIII. 413. - Boninc. Ann. Min. 150. — Ammirato, XX. 28.

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serrandosi attorno ai Braccieschi, li ributtavano alla loro volta; quindi spingendosi e respingendosi gli uni gli altri stettero due ore al contrasto del passo. In quella fitta tempesta di colpi, non voce, non suono alcuno risuonava per l'aere: ma, rotte le lancie e le spade, avresti mirato i guerrieri combattersi a corpo a corpo coi pugni e coi guanti di ferro (1). Giovava aglialleati l'avere antecedentemente spianato il terreno alle proprie spalle, per cui senza perder mai tempo gli uni agli altri sottentravano a rinfrescare la zuffa : nuoceva ai ducali l'impedimento dei campi e dei fossi, per cui non che ricevere soccorso dal retroguardo, ma incontravano grande pena a tener ferma la propria ordinanza. S'aggiungeva l'essere entrati nel combattimento quando già erano stanchi del viaggio, e l'avere trovato una opposizione non preveduta, oltre ad una molesta polvere, che soffiata dal vento contrario negli occhi e nelle bocche impediva gravemente la vista ed il respiro. Perlochè, avendo alla fine i nemici superato con smisurato sforzo il ponte, fu uopo di cedere.

Rimasero in potere della lega 22 capi di squadra, 400 conestabili, 1440 uomini da taglia, e 3000 cavalli. Ma che? appena terminata la battaglia, i vinti prigionieri venivano rilasciati in farsetto, i vincitori sbandavansi per mettere in salvo il ricco bottino: sicchè in pochi giorni, mediante un poco di denaro speso dal Piccinino nella compera delle armature, parevano mutate le sorti, e quelli avere trionfato, e questi perduto. Tali erano coteste guerre, nelle quali la vittoria

(1) Decembrio, Vita di N. Piccinino, 1082 (t. XX).

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