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accettasse condotta da Francesco Sforza, e sotto il costui nome servisse la causa del re (1).

Stabilito codesto accordo, Sforza spese tutta la sta- A. 1442 gione dell'inverno nella Marca a mettere in ordine le soldatesche per la nuova guerra: all'aprirsi della primavera mandò innanzi con alcune elette squadre il fratello Giovanni, e ratto gli tenne dietro col resto dell'esercito. Ma non era egli ancora pervenuto alle rive del Tronto, che lo richiamavano suo malgrado in Romagna i soliti intrighi del duca di Milano. Per la qual cosa di là dal Tronto non incontravano più verun freno le armi del re d'Aragona, sussidiate da Giacomo secondogenito di Niccolò Piccinino: sicchè Napoli veniva sorpresa, il re Renato costretto a fuggire, e Giovanni Sforza e Antonio Caldora dopo ostinato combattimento rimanevano sconfitti nella pia- 28 ggno nura di Sessano.

Fu tra i prigioni il Caldora. Il re Alfonso veggendolo di lontano, mentre smontato a terra si avanzava per baciargli il piede, accennògli di risalire a cavallo; poi: Conte, gli disse, voi m'avete fatto sudar molto quest'oggi; andiamo a casa vostra, e fatemi carezze; chè io sono stanco». Era di là non molto discosto il castello di Carpenone, antica sede di casa Caldora. Arrivati ad ora tarda, cenarono alla meglio. Dopo cena il re, stando in mezzo a folta corona di signori e di capitani, invitò il Caldora a mostrargli le ricche suppellettili e le altre rarità del castello, che oramai per cagione della vittoria poteva chiamare sue proprie.

(1) Barth. Facii, Rer. gest. Alph. (ap. Burmann. t. IX. p. 111). — A. di Costanzo, 1. XVII.

Recaronsi preziosissimi arnesi, tappezzerie, argenti, armi, gioie, vasi, denari, infine il fiore delle ricchezze ammassate da Iacopo Caldora. Stupefatta la Corte contemplò lunga pezza la ricca materia, e lo squisito artificio di tanto tesoro; e vieppiù meravigliava comparando l'alta potenza e bravura del padre, che lo aveva acquistato, colla miseria e viltà del figliuolo che lo aveva perduto. Al fine il re Alfonso, rivolgendo- / segli in tuono benigno: «Conte, sclamò, la virtù dei padri è cosa tanto bella, che debbonsene rispettare le memorie; io non solo ho determinato di donarvi tutte queste cose, tranne un vaso che mi garba tenere, ma colla libertà voglio donarvi altresì l'antico stato dei vostri genitori: i nuovi acquisti paterni non già, perchè ho in pensiero di restituirli a chi mi ha fedelmente servito; e nè anche le squadre, perchè, finita la guerra, intendo che il regno respiri dagli alloggiamenti, e bastano per la pubblica sicurezza quelle che ordinariamente tiene il gran conestabile. Del resto a voi ed a tutti i vostri consorti condono ogni offesa; e siate, come valorosi, così fedeli e ricordevoli dei nuovi beneficii »,

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A queste parole del re, il Caldora inginocchiossegli ai piedi, e dopo averglieli baciati gli rese quelle grazie che a voce poteva; e perchè sull'ultimo gli pareva essere stato da lui notato d'infedeltà, cominciò a scusarsi, e rivolgere la colpa sopra parecchi del Consiglio, da cui asseriva essere stato ammonito delle sinistre intenzioni del re contro di sè e della sua schiatta, e fecesi ap-portare una cassetta piena di carte, che, secondo lui, ne contenevano le prove. Ma Alfonso, fattele

abbruciare in sua presenza, impose termine all' ignobile spettacolo. Restò il Caldora coi contadi di Palena, Piacentro, Monteriso, Archi, Aversa, Valva e Triventi; pur gli sembrava di essere precipitato dal cielo in terra, non tanto per la perdita delle molte città e provincie, quanto per quella delle squadre, che rendevano il nome del suo casato per tutta l'Italia illustre e potentissimo (4).

Quindi il re spogliava a suo bell'agio Francesco Sforza di Troia, di Manfredonia e delle altre possessioni della Puglia.

II.

Già accennammo, come questo condottiero dapprima fosse inviato verso Napoli dal duca di Milano a soccorrervi la fazione di Angiò, quindi richiamato indietro per gli intrighi del medesimo duca: il quale, vinto dalla solita gelosia e dalle accorte supplicazioni del re Alfonso, non aveva tardato a convertire in altrettanto odio l'affezione ultimamente concepita verso Sforza. Perciò riputando d'aver fatto troppo col dichiararlo suo genero e dargli tante terre, senza neanco staccarlo dall'amicizia di Venezia e Firenze, e forse anche temendo della sua ambizione, quando ritornasse da Napoli vittorioso, aveva avvisato un nuovo espediente per compiacere al re Alfonso, e disfarsi nel medesimo tempo non solamente di Sforza, ma anche del Piccinino. L'espediente adoperato fu questo che il duca Filippo Maria offerse in servigio

(1) A. di Costanzo, St. di Napoli, 1. XVII-XVIII. 414-435. Barth. Facii, cit. p. 93-107.

del papa Eugenio IV la persona e le schiere di questo ultimo condottiero pagate a sue proprie spese, purchè il papa se ne valesse a ricuperare la Marca, che da otto anni era posseduta da Sforza. Non è a dire se il partito proposto incontrasse aggradimento. Senza indugio venne conclusa una potentissima lega fra Eugenio, il re Alfonso e il duca di Milano, il fine della quale in palese era di spogliare Francesco Sforza di tutte le terre che asserivansi usurpate da lui, ed in segreto era anche di abbattere i Veneziani ed i Fiorentini che lo spalleggiavano. Fu primo segno di quella confederazione un severissimo bando di papa Eugenio; nel quale dopo avere incolpato Sforza di usurpazione, di mancamento di fede e di congiura, il privava dell'ufficio di gonfaloniere della Chiesa, lo proclamava ribelle, e gli intimava la guerra. Ad amministrarla si mosse tosto il Piccinino; ma una tregua di otto mesi concertata per opera degli oratori di Venezia e di Firenze sopravvenne a frenare il primo scoppio delle armi.

Sembrava eterno quell'accordo, con tanto fervore i due capitani baciaronsi ed abbracciaronsi tra loro! Ciò non di meno pochi giorni appresso Niccolò occupava a Sforza la città di Tolentino. Rifacevasi la pace; ed alla sua volta Sforza saccheggiava al Piccinino Ri30 9bre patransona. Allora questi occupava all'altro Gualdo ed Assisi; ed una nuova lega si stringeva tra il papa, il re Alfonso ed il duca di Milano ai danni di Sforza, di Firenze e dei Veneziani (1). Era già il conte arrivato nei confini dell'Abruzzo, quando gliene giunse certo

1442

(1) Joh. Simonett. VI. 318. segg. — Ammirato, XXII. 40. In questa occasione Niccolò Piccinino veniva dal Papa creato gonfaloniere della Chiesa, e dal re Alfonso fregiato del sopran

avviso. Voltossi perciò addietro piucchè di fretta, e, siccome era già principiata la stagione d'inverno, distribui le soldatesche tra Fermo, Ascoli, Cingoli, Fabriano, lesi, Osimo e Rocca-Contratta. Ciò fatto, considerando alla incorrotta fede di esse ed alla fortezza dei siti, si persuase di poter temporeggiare con onore sino all'arrivo delle genti promessegli dalle Repubbliche amiche.

Ma (e lo seppero molti principi!) le soldatesche sole non fanno la forza degli Stati: perchè, vinte le soldatesche, che resta egli allora? Vuolsi che la milizia sia parte dello Stato, e dallo Stato emerga, affinchè una prima sconfitta non sia irremediabile, nè lo Stato si perda o si vinca quasi a giuoco di zara. Aveva lo Sforza introdotto nella Marca un governo militare fondato sopra imposte forzate e rapine: ciò aveva generato negli animi naturalmente molto mutabili della popolazione un grave dispetto delle nuove ed un incredibile desiderio delle antiche condizioni. Aggiungevasi, che pel conte non militava nè la riverenza che si concilia una lunga e regolata signoria di padre in figlio, nè l'affezione che il principe si acquista mediante la prosperità delle pubbliche cose e i buoni costumi e la continua presenza. Per la qual A. 1433 cosa non cosi tosto il re Alfonso e Niccolò Piccinino entrarono nella Marca con un esercito di trenta mila armati, che Matelica, Tolentino e Macerata inalberarono la bandiera della Chiesa, Manno Barile il più antico servitore di casa Sforza ne abbandonò i servigi, e

nome di Aragona, come già dal duca di Milano era stato ornato di quello di Visconti.

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