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zioso Fiore, e non si curò d'essere troncato da quelle radici, che gli davano la sostanza della vita, nè d'essere trafitto con un aghetto il gambo; perchè in quel principio tutto gli parve felicità, e si rallegrava di veder gli altri fioretti gittati dalla signora sul terreno ; e senza più ricordarsi punto ne della Geva sua, che l'avea cosi cordialmente amato, ně di quella terra, che nudricato l'avea, se n' uscì trionfando fuori del Giardino. Ma non andò molto tempo, che gli convenne, prima a suo dispetto trovarsi con altri fiori mescolato, e finalmente fù, per ordine della signora, come una cosa fràcida, gittato fuori per la finestra, dando loco ad un bocciuol di rosa nuovamente venuto, ed accolto.

LO STESSO.

Il Granciporro, e la Seppia.

TROVAVASI per caso, sopra picciola barchetta, alle spiaggie del mare divertendosi un appassionato naturalista. Dove il sole rendeva più chiara l'acqua, vide un granciporro dei più voluminosi, e attempati, che si faceva incontro ad una di quelle vecchie seppie, che tanto sono accarrezzate da' Greci ne' lor digiuni. La curiosità lo spinse a quietamente fermarsi, onde non si ritirassero per l'urto de' remi, e perciò fece egli in modo, che potè vedere, ed ascoltare a suo bell' agio.

Avvicinatisi dunque fra loro senza salutarsi, o far parola alcuna, dopo essersi ben considerati l'un l'altro, e sembrando alla seppia di potersi fidare, curiosa com' cra, dopo d'essersi rimarsa alquanto ritta,allungò una delle sue treccie, e palpeggiando con quelle le branche dell' altro, mentre crèdeva di trovar qualche cosa di molle, con maraviglia allor disse : « Quante son dure le treccie tuc ! »

Niente rispondendo il granciporro, allunga ancor egli una delle sue zampe, nel suppor, dal canto suo, di toccare qualche cosa di crostaceo, e di resistente, sentendo quel floscio, le rispose tosto : « Quanto flessibili son le tue branche! »>

Alla seppia tutto è treccia, al granciporro tutto è zampa.

CARLO LODOLI.

I due Matti.

DUE matti imbacuccati ne' loro mantelli, tremando di freddo, entrarono in certa osteria, e pregarono l'oste ad accendere una fascina, e così ristorargli. L'oste pronto al focolare li mena, ed attizza un gran fuoco, poi se ne và. In tanto uno di quelli s'acconcia presso al fuoco per modo, che se fosse stato di paglia, e' ci sarebbe incenerito allora, allora. L'altro si ferma in capo della gran stanza e tratte fuora del ferrajuolo le mani, sta colle braccia tese al focolare per riscaldarsi. Ivi a poco, quegli ch' era in sulla brage, esclama : « Maledetto fuoco! ei mi brucia. »> Questi ch' era lontano soggiunse. Oh, oh, io son freddo, freddo, come prima; e chiamano l'oste : « Vien egli2 ? » ed il domandano tutti due, che fuoco, che legna fossero quelle ? Perchè l'uno dicea d'abbruciarsi, e l'altro di non sentirvi punto di core. Rispose l'uomo, accòrtosi che non istavano ben in cervello : « Il male non è nel fuoco, è in voj. Tù accostati al fuoco quattro passi, e ti riscalderai; e tù due tanti3 riti

Involti sino alla testa ne' tabarri.

2 Venez-vous? Manière d'appeler, en Toscane, les garcons d'un café ou d'une auberge, etc.

3 Altrettanti.

rati, che non ti brucerà di certo. » Com' egli disse, fecero: quindi preso un poco di conforto se ne partirono, lodando il fuoco, le legna, e l'avviso dell' oste.

Questi due Pazzi sono il ritratto di quelli, che non sapendo usare le cose, come richiede la loro natura, le credono male, tutto che buonissime, e se ne lamentano. Non basta il bene a chi non sa farne buon uso. Son lodevoli le ricchezze, ma diventano biasimo nelle mani di chi, o prodigo le gitta in istravizj, e gozzoviglie1; od avaro le tiene in uno scrigno di ferro.

P. GIUSEPPE MANSONI.

It Sorcio viaggiatore.

UN sorcio fece un viaggio. Tornato che si fu a casa, li sorci parenti ed amici gli furono intorno a rallegrarsi della sua buona venuta, e della sua bona cera, ed ognuno volea saper novità speziamente di quelle, che poteano interessare la lor nazione, ed il loro corpo. Egli, dopo aver raccontati molti avvenimenti in cui entravano li presciutti, e li formaggi, asseri a tutto quel concilio, che avea vedutto de' topi colle ali, li quali veracemente volavano per l'aria. Tutta l'assemblea restò attonita, e ciascuno augurava a sè, ed agli altri quelle ali; perchè con tal presidio non avrebbero avuto più paura del gatto. Ma chè? Li sorci alati veduti da colui erano li pippistrelli.

I viaggiatori non di rado traveggono per la negligenza di osservare, e fanno travedere per l'ambizione di far maravigliare.

Conviti.

Il conte ROBEerti.

La Zanzara, e la Lucciola.

« Io non credo, diceva una notte la zanzara alla lùcciola, che ci sia cosa al mondo viva, la quale sia più utile, ed ad un tempo più nobile di mè. Se l'uomo non fosse un ingrato, egli dovrebbe essermi obbligato grandemente. Certo non credo, che' egli potesse avere miglior maestra di morale di mè; imperciocchè io m'ingegno quanto posso, con le mie acute punture, d'esercitarlo nella pazienza. Lo fo anche diligentissimo in tutte le sue faccende, perchè la notte, o il giorno, quando si còrica per dormire, essendo io nemica mortale della trascuraggine, non lascio mai di punzecchiarlo ora in un mano, ora sulla fronte, o in altro luogo della faccia, acciochè si desti. Questo è quanto all' utilità, Quanto è poi alla dignità mia, ho una tromba alla bocca, con la quale a guisa di guerriero vo suonando le mie vit<torie, e non meno di qualsivoglia uccello, vo con l'ali aggirandomi in qualunque luogo dell' aria. Ma tu, o infingarda lùcciola, qual bene fai tu nel mondo? Amica mia, rispose la luccioletta, tutto quello, che tu credi di fare a benefizio altrui, lo fai per te medesima; la quale da tanti benefizj, che fai agli uomini, ne rittraggi il tuo ventre pieno di sangue, che cavi loro dalle vene, e suonando con la tua tromba, o disfidi altrui per pungere, o ti rallegri dell' aver punto. Io non ho altra qualità che questo picciolo lumicino, che m'arde addosso. Con esso procuro di rischiarare il cammino nelle tenebre della notte agli uomini, quant' io posso, e vorrei potere di più; ma nol comporta la mia natura; nè vo strombazzando quel poco, ch'io fò, ma tacitamente procuro di far giovamento. »>

Il conte GASPARO Gozzi.

I Garofani, ta Rosa, e la Viola Mammola.

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GRANDEGGIAVANO in un giardino sopra tutt' i fiori i rofani, e certe rose incarnatine, e schernivano certe mammolette viole, che stavansi sotto l'erba, sicchè appena erano vedute. « Noi siamo, dicevano i primi, di cosi lieto e vario colore, ch' ogni uomo ed ogni donna, venendo in questo luogo a passeggiare, ci pongono gli occhi addosso, e pare che non siano mai sazj di rimirarci. E noi, dicevano le seconde, non solamente siamo ammirate, e colte con grandissima affezione dalle giovani, le quali se ne adornano il seno; ma le nostre foglie spicciolate gittano fuori un' acqua, che col suo gratissimo odore riempie tutta l'aria d'intorno. Io non so di che si possa vantare la viola, che a pena ha tanta grazia d'odore, che si senta al fiuto, e non ha colore nè vistoso, nè vivo, come il nostro. » « O nobilissimi fiori, rispose la violetta gentile, ognuno ha sua qualità da natura. Voi siete fatti per essere ornamento più manifesto, e più mirabile agli occhi delle genti; e io per fornire quest' ùmile, e minuta erbetta, che ho qui d'intorno, e per dar grazia, e varietà a questo verde, che da ogni lato mi circonda. »Ogni cosa in natura è buona. Alcuna è più mirabile, ma non perciò le picciole debbono essere disprezzate. LO STESSO.

L'Aquila, e la Biscia.

L'AQUILA, dopo aver lunga pezza contemplato il sole, rivolse l'occhio alla vasta estension della terra a lei sottoposta, e stava librata sull' ale, pascendosi di quel vario, e pomposo spettacolo. Poco lungi di là, nella spaccatura d'un

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