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DORALICE.

Lo voglio, se credessi, che me ne andasse la testa. Sono impuntata, lo voglio.

Vi dico, che lo avrete.

GIACINTO.

DORALICE.

E presto lo voglio, presto.

GIACINTO.

Or ora vado per il Mercante. (Bisogna in qualche maniera acquietarla.)

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M'immagino vi sarà dell' oro, o dell' argento.

GIACINTO.

E se fosse di seta schietta, non sarebbe a proposito?

DORALICE.

Mi pare, che ventimila scudi di dote possano meritare un abito con un poco d'oro.

GIACINTO.

Via, vi sarà dell' oro.

DORALICE.

Mandatemi la cameriera, che le voglio ordinare una

cuffia.

GIACINTO.

Sentite anche con Colombina siate tollerante : È cameriera antica di casa; mia madre le vuol bene, e può mettere qualche buona parola.

DORALICE.

Che? dovrò aver soggezione anche della cameriera ? Mandatela, mandatela, che ne ho bisogno.

GIACINTO.

La mando subito. (Sto fresco Madre collerica, Moglie puntigliosa; due venti contrarj. Voglia il Cielo, che non facciano naufragare la casa.) (Parte.)

LO STESSO. Att. I, sc. VII.

Ulisse, e Zeto.

ULISSE.

QUEST' Ombra è più di tutte l'altre importuna. Sta ferma. Qui non si bee fino a tanto che non ci viene Tiresia, Tebano.

ZETO.

Tiresia, Tebano? Poco può indugiare ancora; io l'ho lasciato poco fa, e fui seco a ragionamento. Son anch'io di Tebe.

ULISSE.

Tu lo dei dunque conoscere, dappoichè sei d'una stessa patria.

ZETO.

Fa tuo conto, ch'egli è qui l'Ombra, di ch'io fo più conto, che di tutte l'altre.

ULISSE.

Qualche ragione ci dee essere, dappoichè l'ami cotanto. Avrei caro d'intenderla.

ZETO.

Egli è il migliore, il più saggio, ed il più prudente indovino, che fosse mai. Eccoti la cagione dell' affetto mio.

ULISSE.

E hai tu bisogno d'Indovini anche in questa seconda vita?

ZETO.

Ben sai che si. E non credere ch'io facessi mai un passo, nè dicessi parola, quando non avessi preso consiglio da lui. Noi siamo ciechi al mondo, e di quà ancora quando non ci vagliamo delle avvertenze di chi sa l'avvenire, e prevede quello che dee essere. Ogni altra prudenza è vana.

ULISSE.

(Costui dee essere stato un bell' umore nel mondo.) Sicchè tu avrai passata tutta la vita tua fra gl'Indovini, ed avrai avuto ogni felicità. Io avrei caro di sapere, come t'è riuscito il consigliarti con gli strologhi; e come potesti fare ad averne sempre a' fianchi.

ZETO.

Che credi tu, che non ci sieno altri Indovini, che quelli che favellano? a molte cose, fuorchè agli uomini, hanno conceduta gli Dei la facoltà d'avvisare altrui di quello, che

dee avvenire. Basta l'intendere. Io m'era così assottigliato in questa intelligenza, che in tutte le cose ch'erano intorno a mè, leggeva quello che mi dovea accadere, come se già fosse avvenuto. Egli è il vero ch'io v'usava una grande applicazione, e non mi lasciava sfuggir dagli occhi, nè dal pensiero il più menomo segnaluzzo, che mi fosse dato dagli Dei per avvertimento.

ULISSE.

Io ti prego, o cortese Ombra, non mi negare quelle cognizioni, delle quali arrichisti la tua mente con tanta fatica.

ZETO.

Volentieri, anzi ti sono obbligato, che tu me le domandi. Perchè tu dei sapere, che alcuno era nella patria mia, il quale mi teneva per matto spacciato, e si faceva beffe de' fatti miei, chiamandomi chi cavallo adombrato, chi fantastico, chi tralunato. Ma io volli far sempre a modo mio, e non mi curai punto delle dicerie degli altri. In primo luogo, io non mi lasciai sfuggire dalla mente ed invano alcuno de' sogni miei; tanto che mi ricorda benissimo, che m'occupaya tutta un'intera giornata a studiare quello, di che m'cra sognato la passata notte; e non ti vo' dire quante volte ritrassi da un sogno, che dovea trattenermi in casa una settimana intiera; e tale altra volta, ch'io non avea a ragionare quel giorno con maschi, ed un altra con femmine; ch'io doveva star a sedere un altro giorno fino al tramontar del Sole. Ma non erano i soli sogni i maestri della mia vita. Mi faceano scuola i gufi, le civette, il sale sparso, lo scoppiettare del fuoco, il fungo della mia lucerna. Sapeva molto bene quello che significa il riscontrare all' uscir di casa piuttosto un uomo, che un altro ; il mettere fuori dell' cio

il piede sinistro piuttosto, che il destro; e mille altre cose d'importanza, che da tutti gli uomini sono tenute per bagatelluzze, e forse per nulla.

ULISSE.

Sicchè in fine tu non avrai errato giammai nell' opere tue, e sarai stato il più avveduto, ed il più sapiente uomo di Tebe.

ZETO.

Ben sai che fu cosi E quando si seppe infine la mia perizia, avea un concorso a casa mia, che parea una Fiera. Io era il consigliere di tutti gl'innamorati, e delle innamorate del Paese, di tutti i giuocatori, di qualunque uomo che intraprendeva un viaggio. E comechè alcuni proseguissero a dir male del fatto mio, ed a chiamarmi pazzo, avea tanti che mi lodavano, che questo compensava benissimo i biasimi. Tanto ch' era divenuto ricco, e mi godeva molto bene il frutto degli studj miei, e delle mie osservazioni.

ULISSE.

E quando venne il punto del morire, lo prevedesti tu prima?

ZETO.

Quella fu la sola volta, ch'io m'ingannai, perchè avendo fatto un lietissimo sogno, e pronosticando da quello, che avessi a fare un felicissimo giorno, mi abbattei ad un uomo, il quale, per essere caduto in una calamità, dopo d'essere stato assicurato da me d'una gran fortuna, chiamandomi rubaldo, e truffatore, mi diede tale d'un legno sopra il capo, che m'uccise.

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