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giudicare le ignude Dee, che dinanzi gli stavano, nonl'` avea potuto ancora del tutto fornire. Ma quel, che non men sottile a pensare, che dilettevole a vedere, era lo accorgimento del discreto pintore, il quale avendo fatta Giunone, e Minerva di tanto estrema bellezza, che ad avanzarle sarebbe stato impossibile, e diffidandosi di fare Venere si bella, come bisognava, la dipinse volta di spalle, scusando il difetto con l'astuzia e molte altre cose leggiadre e bellissime a riguardare, delle quali io ora mal mi ricordo, vi vidi per diversi luoghi dipinte.

SANNAZARO. Arcadia, proza terza.

Sala dei Giganti dipinta da Giulio Romano, net Palazzo di T, presso di Mantova.

AL primo affacciarsi sull' ingresso di questa sala, al primo scontro di tanti oggetti, la maraviglia occupa il cuore. In quel punto l'occhio senza distinto esame resta sorpreso al presentarsi quelli smisurati corpi di Giganti, i quali superbi della loro grave corporatura pare che signoreggino le pianure e i monti. Il veder quelle carni dipinte di un colore di bragia; quelle gran teste che spalancano in fronte occhi, che sembrano occhi di un bue, quelle muscolose braccia colle partite dita che pajono tanti fusti d'alberi diramati in tronchi, quelle smisurate gambe, che sembrano tante travi, quelle gran fronti rugose, quasi arate come solchi di un campo, quella maravigliosa e ben intesa confusione d'immani membra attraversate l'une con l'altre, quelli attegiamenti di si grandi ossature e di corpi, altri in piedi, altri incurvati, altri prostesi, altri abbattuti e schiacciati; al veder, dico, tutto ciò al primo scontro, abbandonasi la facoltà pensante all' ammirazione,

all' incanto. Poi quando la mente, stanca del primo ingombro, lascia luogo alla ragione di richiamare le idee alle giuste sue riflessioni, allora placidamente considera a parte a parte gli effetti della sua maraviglia. Vedesi Giove dall' alto cielo della sala con benda di porpora attraversata, quasi spiccatosi dal suo trono, discendere minaccioso, e a canto a lui Minerva, e a qualche distanza per isfumate tinte di color degradanti, Diana, Marte ed Apollo. Alza Giove la destra armata di fulmini ardenti, che l'aquila ministra col rostro presentagli e cogli unghioni, Poco lungi dentro lo speco sudano i Ciclopi a preparar sull' incudine nuove tempre di folgori e di saette. Dai quattro lati dall' imperioso cenno di Giove miransi suscitati a battaglia i quattro elementi per abbatere dei Giganti il temerario orgoglio, l'aria, l'acqua, la terra, il fuoco. L'aria d'ira commossa, d'atre nubi il cielo orridamente ingombrando, dal suo seno sprigiona i venti guerrieri, che schiantano rami, e gli alberi divelgono dall' imo fondo; dalle rupi spiccano grossi massi, e in turbinoso vortice gli aggirano misti con pietre e sassi montani, spingendoli innanzi al loro furore. L'acqua anch'essa sdegnosa dalle nubi rovescia un nembo di pioggia, che in procellosa grandine si condensa, che pesta, percuote, schiaccia e sfracella. L'ondosa piena ingrossa i torrenti, che soverchiano gli opposti ripari, congiurati anch'essi a travolvere ed inghiottire i ribelli con micidiale vendetta. La terra pare che traballi d'orrende scosse, e dove squarciasi in profonde voragini, e dove colle aperte gole ingoja i cadaveri dei vinti. Qui scoscendono petrose montagne, e là precipizi spalancansi ai fuggitivi. Il fuoco fiammeggia, come notturna aurora che di Borea i campi rosseggiando divampa; e misto si scorge fra globi erranti il lento fumo, il cui nero seno fendono con

ignea striscia i fulmini volanti, presti a dirigere l'ardente lingua contro i fuggiaschi, che al fiero colpo stramazzano, ingombrando i vasti cadaveri la campagna e il monte. Bello è il vedere l'ordinato scompiglio di chi trabocca e sorge, di chi urta e precipita, di chi palpita e di chi spira. Altri di questi Giganti percosso si appiatta sotterra: altri dà di`piglio a un masso di monte, e svelle arbori per armarsi. Tifeo fulminato ritiene compresso il corpo sotto di un monte, e nel divincolarsi lo sconquassa, rovesciando torri e castelli. Anteo declinando sul petto l'orrida testa, da più ferite vomita il sangue coll' anima che pare che fugga fra l'ombre, lasciando il corpo nell' erba spettacolo di orrore e scheletro di spavento. Altri rimettonsi sul campo flegreo a far l'ultime prove del loro ardimento, minacciano cogli occhi biechi, coll' irte spalle e colle alzate braccia in alto a ritrarne altrettanti carnefici, che spirano odio e gigantesca ferocità. Altri caduti adoprano gli estremi sforzi per rilevarsi, ma vinti dalla ripulsa, nell' alto del ricadere pare tuttavia che non cedano alla forza, veggendosi raccesa loro nel truce aspetto la ria baldanza. In fine gli oggetti hanno del grande, o spieghino essi vittoria o sconfitta, abattimento od orgoglio, confusione o spavento, o vita, o morte; tutti imprimono un' immagine, che doppia l'orrore del micidiale conflitto.

LUIGI CAMPI. Lettere piacevoli ed erudite.

Adone ferito del Cignate.

QUANDO voleste sapere l'inclinazione mia, l'Adone e la Venere mi pare un componimento di due più bei corpi che possiate fare ancora che sia cosa fatta. E, risolvendovi a questo, arebbe del buono che imitaste, più che fosse pos

J

sibile, la descrizione di Teocrito. Ma perchè tutt' insieme farebbe il gruppo troppo intricato, farei solamente l'Adone abbracciato, e mirato da Venere con quello affetto che si veggono morire le cose più care, posto sopra una veste di porpora, con una ferita nella coscia: con certe righe di sangue per la persona: : con gli arnesi di cacciatori per terra, e (se non pigliasse troppo luogo ) con qualche bel cane. E lascerei le Ninfe, le Parche, e le Grazie, che egli fa che lo piangano, e quegli Amori che gli ministrano intorno, lavandolo e facendogli ombra con l'ali. Accomodando solamente quegli altri Amori di lontano, che tirano il porco fuor della selva, de' quali uno il batte con l'arco, l'altro lo punge con uno strale, e'l terzo lo strascica con una corda per condurlo a Venere. Ed accennerei, se si potesse, che del sangue nascono le rose, e delle lagrime i papaveri. Questa, o simile invenzione, mi va per la fantasia : perchè, oltre alla vaghezza, ci vorrei dell' affetto, senza il quale le figure non hanno spirito.

ANNIBAL CARO. Lettera al Vasari,
Dipintore.

La Congiura di Catilina.

POICHÈ voi vi trovate in Firenze, e vi dilettate di Pittura, 'osservate in casa Martelli un quadro di Salvator Rosa, che rappresenta la Congiura di Catilina in mezze figure al naturale, circostanza che lo rende altrettanto stimabile, avendo Salvadore dipinto pochissimo in quella proporzione. Si trova in questo quadro tutto quello, che può bisognare a una cabala di congiurati, che miri ad opprimere una repubblica, per poi vedere quello, che ne saprà nascere. Quivi apparisce quanto ha potuto immaginare il profondo giudizio, e la tre

menda fantasia del pittore. Nell' elezione del sito, voi raffigurate subito un ripostiglio, un nascondiglio, o, come suol dirsi, uno scannatojo lasciato tra quattro mura in fondo a una torre, o nel più intimo d'una casa per riporvi tesori, per rimpiattarvi gente facinorosa, per commettervi impunemente qualche gran cosa. Dall' aria poi de' visi, dall' armatura, dall' armi, dall' attitudine, e dal contegno de' congiurati, che tutti in un mucchio, in piedi si vedono en◄ trarvi per l'appunto, e starvi, per così dire, murati, anche a non sapere quel che rappresenta il quadro, v'accorgete subito, che il negozio per cui vi sono, è della maggior importanza, pieno di pericolo, eseguibile per mano del furore, e di sua natura sommamente atroce. Chi poi sa di Catilina, e del suo attentato, non ha di bisogno di domandare, che istoria è quella. Ritrova subito nelle fattezze, e sopratutto negli occhi del principale, e de' complici tutti que' segni, che essendo in un viso, v'ha necessariamente a essere ancora, o prima, o poi, v'ha a venire il pensiero di tramare una congiura, o la disposizione a darvi di mano; e intendo assai meglio dal pennello di Salvadore, che non avea inteso dalla penna di Salustio, che, dato che si fussero abbattuti a trovarsi novi soggetti fatti a quel modo in Roma, Roma non era sicura ; poichè una volta che si fossero arrivati a conoscere, avevano di necessità, siccome a convenir nelle massime, così a trovarsi d'accordo in porle ad effetto; e in ruminare, e in contemplare con sommo piacere quella pittura, e il fatto medesimo, ammiro il pittore, che seppe mettere in nove mostacci tutto quello, che M. Tullio mise in un solo, dicendo di non so chi: Spumans ex ore scelus, anhelans ex intimo pectore crudelitatem.

MAGALOTTI. Lettera a Ottavio Falconieri.

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