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PREFAZIONE

I.

Nella tornata de' 14 d'agosto 1856 io diceva a' miei colleghi Accademici della Crusca:

-

Fra i rimproveri che si sono fatti alla nostra Accademia, uno de'meno ingiusti è quello sicuramente, d'essere stata troppo parca nel raccogliere e dichiarare i vocaboli che (per dirlo col Benvoglienti) importano storia. << Parliamo chiaro: (scriveva quell'erudito Senese, a proposito del Vocabolario ristampato dagli Accademici di Firenze per la terza volta) se i nostri maggiori << avessero più dato d'occhio a' nomi che ragguardano istoria, sarebbe questa < opera arrivata presso che all'ultimo pregio.... Ma (soggiugneva) tal difetto << deve esser loro facilmente perdonato, perchè in tal torno la bassa erudizione << appresso di noi non aveva dove posare il piede » (1). Non vorremo essere noi più severi del Benvoglienti, scartando la ragione ch'egli addusse a discolpa de' nostri antecessori: ma dacchè il Davanzati, con quella penna che aveva pur elogiato il Duca Cosimo, sulle margini d'un Tacito postillava: << A noi la campana del Consiglio fu levata, acciò che non potessimo sentir più il dolce suono della libertà! » (2) saremo noi troppo arditi pensando, che ai

(1) L'Aminta di Torquato Tasso, difeso e illustrato da Giusto Fontanini; con alcune Osservazioni d'un Accademico Fiorentino (Uberto Benvoglienti di Siena). In Venezia, 1730. Cap. XI, pag. 218.

(2) Bindi, Della vita e delle opere di Bernardo Davanzati; discorso premesso all'edizione dell'Opere di quell'autore. Firenze, 1852. Vol. I, pag. xix.

nuovi Signori dessero noia non meno delle campane le istorie? Egli è certo, che fino agli ultimi anni della signoria Medicea le narrazioni dell'età repubblicana rincrebbero (1). Cosa poi comune; che abolite le istituzioni, se ne desiderino spenti anche i nomi: nè manca allora la voce de'retori a lodare di coraggio i tremanti, e a chiamare insolenti o fatui coloro, che alle memorie s'abbracciano come a persona che viva, e i nomi serbano quasi immagini di cosa amata che non è più. Ma i Cruscanti contemporanei e colleghi di Anton Lodovico Muratori non potevano rimanere negli angusti confini segnati dal sospetto alla Lingua: e, difatti, nella quarta impressione vediamo allargata la citazione dei libri storici. Altro era però l'allegare i libri, e altro il portarne le autorità, che è quanto dire le sentenze e in questo furono scarsi: intanto che (per ricordare un esempio), se vediamo nella Tavola delle abbreviature << Lettere e Mandati ad Ambasciadori e Ministri, scritti da Bonaventura Monaci e da Niccolò suo figliuolo », dal 1344 al 55, come cancellieri che furono della Repubblica fiorentina; non però vediamo che, quantunque compresi in << molti volumi », dessero più d'un esempio, a una delle ultime voci dell' ultima lettera, per una voce tutt'altro che storica (2); da pensare, che que' valenti Accademici lo facessero così per burla. A noi peraltro non sarebbe menato buono lo scherzo, e nemmeno perdonata la trascuraggine. La scusa del Benvoglienti non vale per noi: chè noi viviamo in un secolo, il quale ha cominciato col vagheggiare il medioevo, di là cavando un nuovo genere di letteratura e d'arte: poi, lasciando le illusioni proprie della giovinezza, dai facili amori è passato agli studi severi; cercando la storia nei documenti, i documenti negli archivi e nelle biblioteche ; trascrivendo e pubblicando con quella smania, che non bada troppo nella scelta, ma pur sempre giova agli studiosi, pe' quali un documento non è mai inutile, se da ogni libro (come pareva al Salvini) si può cavare costrutto (3). Ora, mentre alcuni co'monumenti della storia appurano i fatti,

(1) La stessa Storia di Benedetto Varchi, sebbene scritta per commissione di Cosimo I, non fu potuta stampare mai in Firenze finchè regnarono i Medici.

(2) Alla voce Zipolare è un esempio del Monac. Lett. (Monaci, Lettere). Niuno esempio poi trassero dalle « Lettere originali di mano di Coluccio Salutati, segretario della Repubblica Fiorentina, << scritte l'anno 1379 », sebbene le ponessero fra i Testi, con l'abbreviatura Lett. Salut. (V. Tavola delle abbreviature nella quinta impressione del Vocabolario degli Accademici della Crusca; I, LXXXIV.) (3) Lettera allo scultore Antonio Montauti, de' 18 novembre 1713; nelle Prose Fiorentine. Il Salvini non faceva che ripetere un detto di Plinio il vecchio, secondo che vien riferito da Plinio il giovane.

altri correggono giudizi avventati o maligni, e con fare comecchessia giustizia al passato, da una parte assolvendo e dall'altra condannando, intendono a restaurare il senso morale nella rivendicazione del vero; anche noi possiamo e dobbiamo avvantaggiarne gli studi della parola, in quanto che i documenti attengono non meno alle lettere che alla storia, e il segno che suggella il pensiero, conserva la memoria dei fatti. Veggo pertanto con piacere, che la Crusca preparando la quinta impressione del suo Vocabolario, fa più larga ragione a quelli che scrissero delle pubbliche faccende, agli Statuti de' liberi Comuni, a' Brevi delle Arti e delle Compagnie popolane, a' carteggi della Repubblica Fiorentina, a quelle scritture insomma, che si sogliono comprendere sotto l'appellativo di diplomatiche. Fra le quali non vorrei che andasse anc'oggi dimenticata la ricca e bella raccolta di documenti che concernono alle molte Commissioni affidate dal nostro Comune a Rinaldo di Maso degli Albizzi nella prima metà del secolo decimoquinto. E dico anc' oggi; poichè se agli Avvertimenti della Lingua sopra 'l Decamerone se ne stettero i primi Accademici anche nella scelta dei Testi più autorevoli, com'è che non fecero conto nessuno di « MESSER RINALDO DEGLI ALBIZI, «Giornale de suoi publici fatti, ricordato ed encomiato dal cavaliere Lionardo?

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Qui entravo a parlare delle Commissioni dell'Albizzi; e mi doleva che, per citarle fra' Testi di lingua, si dovesse ricorrere a una copia del secolo decimosesto, nè bella nè buona, non avendo più notizia del Codice originale. Gli Accademici, accogliendo volentieri la mia proposta, con lo spoglio di alquante voci e maniere, incominciarono ad allegarne gli esempi sulla copia suddetta, che ora si trova nel R. Archivio centrale di Stato; ma quando si fu a stampare la Tavola delle abbreviature, che sta in fronte al primo volume del Vocabolario, venimmo opportunamente a sapere, che il Codice proprio di Rinaldo, quello stesso che il Salviati citò ne' suoi Avvertimenti della Lingua, si custodiva nella privata biblioteca del signor Alberto Ricasoli Firidolfi. Questo nobil uomo, che serba religiosamente la doviziosa collezione di libri a penna ed in stampa adunata dall'Avo, concesse il Codice agli studi accademici; e quando il Marchese Gino Capponi, Presidente della nostra Deputazione, gli ebbe domandata la facoltà di mettere in luce le Commissioni dell'Albizzi, si tenne lieto di contribuire alla divulgazione di un libro, che se arricchisce il tesoro della lingua, serve anche più ad illustrare un importante periodo della storia italiana.

II.

Il nome stesso di Rinaldo degli Albizzi (nacque egli nel 1370 (1), e

cominciò a servire la patria negli uffici col 1399) ci riporta agli anni in

cui la Repubblica di Firenze, affaticata dagl' interni agitamenti e dalle

guerre col Conte di Virtù, cercava di riordinarsi dentro e d'assicurarsi al

di fuori, allargando il dominio. Ebbe Pisa, e s' aprì la via all'acquisto di

Livorno poi, morto re Ladislao, visse dieci anni di pace. Ma se quelli

ch'erano stati battuti dal 1381 al 1400 vivevano lontani o ammoniti, in

molti cittadini restava « una memoria delle ingiurie ricevute, e un desiderio

« di vendicarle » (2): nè gli esterni nemici posavano; chè Filippo Visconti,

assicuratosi in Lombardia, afforzatosi con Genova da un lato e con Brescia

dall'altro, anche ripigliava le tradizioni domestiche, a danno specialmente del

nostro Comune. Troviamo quindi l'Albizzi adoperarsi nelle pubbliche faccende

fino a quell'impresa contro Lucca, che fu da lui mal consigliata, e amministrata

infelicemente. Nè valse a scemargli l'odio, che i partigiani de' Medici l'avessero

al
par
di lui consentita; mentre a questi giovò ricordarla al Popolo, quando si

volle richiamare Cosimo de' Medici, già confinato a istigazione dell'Albizzi.

Il quale nel 1434 prendeva la via dell'esilio, per non tornare mai più in

patria: dove neppur sarebbe venuto a riposare con gli avi ne' sepolcri di

San Piero maggiore, una volta che il bando colpiva i figliuoli e i nepoti, e il

governo della Repubblica si riduceva in mano de' Medici. L'Albizzi chiuse i

suoi giorni in Ancona, « nel meno infelice giorno del suo esilio » (come
dice il Machiavelli ), essendo morto mentre si celebravano le nozze di una
sua figliuola (3). Nella chiesa dei Domenicani di quella città si pose
una pietra con questa epigrafe (4):

ANNO MCCCCLII

SEPVLTVRA DI MESSERE RINALDO DELLI ALBIZI DA FIRENZE
E MORÌ A DÌ II DI FEBRAIO MCCCCLII.

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