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Quale è colui che sogniando vede,

E dopo 'l sogno la passione impressa Rimane, e l'altro3 alla mente non riede; Cotal son io; chè quasi tutta cessa

Mia visione, ed ancor mi distilla

Nel cuore il dolce che nacque da essa. Così la neve al sol si disigilla 5;

Così al vento nelle foglie lievi Si perdea la sentenza di Sibilla. O somma luce che tanto ti lievi

Da' concetti mortali, alla mia mente Ripresta un poco di quel che parevi', E fa la lingua mia tanto possente

Ch'una favilla sol della tua gloria
Possa lasciare alla futura gente;
Chè, per tornare alquanto a mia memoria
E per sonare un poco in questi versi,
Più si conceperà 9 di tua vittoria,
Io credo, per l'acume 10 ch' io soffersi

Del vivo raggio, ch'io sarei smarrito,
Se gli occhi miei da lui fossero aversi 11:

E mi ricorda 12 ch'io fui più ardito

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Per questo a sostener, tanto ch'io giunsi | Perocchè 'l ben 22 ch'è del volere obbietto,

1 sognando leggono alcuni e tolgono al verso una sillaba.

2 la passione impressa, cioè l'affanno o l'allegrezza cagionata dal sogno.

3 l'altro, il sogno che fu causa della passione. 4 Nel cuor lo dolce, forse meglio, leggono molti. 5 si disigilla, cioè perde, sciogliendosi, la forma datale dai corpi.

6 Così al vento ecc. Narra Virgilio che la sibilla cumea scriveva i suoi oracoli nelle foglie, le quali tosto erano disperse dal vento.

7 di quel che parevi, di quello che apparivi quando io ti rimirai.

8 lasciare, mostrare. Mostrare legge il cod. gaet. 9 Più si conceperà ecc., cioè più si conoscerà quanto la tua grandezza vinca tutto ciò che vi è di grande in terra e in cielo e tutto ciò che si può concepire da umano intelletto.

10 Io credo, per l'acume ecc. Intendi: io credo che per l'acume del vivo raggio divino io sarei smarrito, se gli occhi miei si fossero rivolti altrove; sottintendi: perciocchè la luce divina, all'opposito della luce de' corpi materiali, ha virtù di rinfrancare le forze di chi la rimira.

11 aversi dal verbo avertere, che è tratto dal latino avertere. Nella prima ediz. bolognese fu scritto avversi per errore di chi assisteva alla correzione di quella malaugurata stampa, le note della quale furono, per diverse cagioni, compilate in tutta fretta. Ciò a mia discolpa: E questo fia suggel ch' ogn' uomo sganui.

12 E mi ricorda, e mi ricordo che fui ardito a sostenere esso lume, tanto che ecc.

13 Tanto che la veduta ecc., tanto che adoperai tutta la forza visiva !

14 si squaderna, è sparso qua e là. È metafora relativa alla parola volume.

15 Sustanzia, tutto ciò che per se sussiste; accidente, tutto ciò che ha, tiene sua sussistenza da altra cosa che potrebbe essere o non essere. Sustanze et accidenze legge il Viviani. Accidenzia può essere buona voce scolastica. E lor costume, e loro proprietà o modi di agire. 16 conflati, cioè uniti. Quasi conflati leggono moltissimi testi; mi par bella lezione.

17 La forma universal ecc. Intendi: l'essenza divina che produce ed annoda le dette cose.

18 perchè più di largo ecc. Perchè, dicendo queste cose, rammemorandole, sento che più largamente, maggiormente godo, che il cuore mi si allarga per somma letizia.

19 Un punto solo ecc. Un punto solo del tempo scorso dopo la mia beata visione mi cagiona (rispetto a ciò che io vidi in Dio) dimenticanza maggiore che non fu l'oblivione apportata venticinque secoli addietro alle particolarità dell'impresa di coloro che vennero a Colco pel vello d'oro sopra la nave d'Argo, che, essendo la prima a far ombra sulla superficie del mare, cagionò maraviglia a Nettuno.

20 di mirar. Così legge il Lomb. Nel mirar erroneamente leggono altri.

21 per altro aspetto, per mirare altro obbietto. 22 Perocchè 'l ben, ecc. La volontà umana sempre

Tutto s'accoglie in lei; e fuor di quella
È difettivo ciò che lì è perfetto.
Omai sarà più corta1 mia favella,

Pure a quel ch'io ricordo, che d'un fante2

Che bagni ancor la lingua alla mammella.
Non perchè più ch'un semplice sembiante
Fosse nel vivo lume ch' io mirava,
Chè tal è sempre qual era davante;
Ma per la vista, che s'avvalorava

In me, guardando una sola parvenza,
Mutandom' io, a me si travagliava 5.
Nella profonda e chiara sussistenza

Dell' alto lume parvemi 6 tre giri Di tre colori e d'una contenenza: E l'un dall' altro, come iri da iri,

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rivolta al bene; ogni nostro desiderio è pel bene; e in Dio sono tutti i beni desiderabili: perciò il P. disse altrove che in Dio si acqueta ogni desio. Queste cose ricordo qui perchè si conosca che volere è la vera lezione, e non vedere, come altri vorrebbe.

1 Omai sarà più corta ecc. Intendi: omai il mio parlare, per essere scarsa la ricordanza dell' altre cose che io vidi, sarà più tronco, più conciso che quello del fanciullino lattante che comincia a parlare.

2 d'un fante. D'infante leggono tutti, in fuori del Viviani, che tolse la sua lezione da molti codd. e dalla stampa di Vindelino. E come mai si potrà credere che d'infante sia lezione buona, se questa voce vale non parlante e se qui si fa menzione di uno che parla? La voce fante fu usata dal P. nel c. XXV del Purg.¦ v.: Ma come d'animal divenga fante. 3 Non perchè più ecc. Intendi : non perchè nel vivo lume, cioè in Dio, fosse varietà di aspetti, essendo egli immutabile, ma perchè la mia vista, avvalorandosi nel mirare in lui la parvenza sua, cioè la sua sembianza, si travagliava, cioè si cangiava in meglio al mutarsi della mia virtù visiva.

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4 qual era. Qual s'era in luogo di qual era legge la Cr. colle ediz. sue seguaci.

5 travagliava, secondo il Lami, val quanto trasvallava, andava oltre vallo, cioè passava ad altro

modo e forma.

6 parvemi, mi si fecero vedere di una contenenza, cioè tutti tre di una misura. Tre giri: questa è figura della Trinità divina. Parvermi legge il Viviani, e parvonmi il cod. chig.

7 Parea reflesso, pareva proveniente; el terzo ecc., lo Spirito Santo. Dice che parea fuoco per esprimere un attributo del divino amore.

8 Che quinci e quindi ecc. Intendi: che spirava dall' uno e dall' altro dei due giri, che procede

Al mio concetto! e questo a quel ch'io vidi
È tanto che non basta a dicer poco.
O luce eterna che sola in te sidi 10 "
Sola t' intendi e, da te intelletta 11

Ed intendente te, ami ed arridi 12!
Quella circulazion 13 che sì concetta
Pareva in te, come lume reflesso,
Dagli occhi miei alquanto circonspetta,
Dentro da sè del suo colore istesso

Mi parve pința della nostra effige;
Perchè 'l mio viso in lei tutto era messo.
Qual è il geométra che tutto s'affige 14

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va dalla prima e dalla seconda persona del Verbo divino.

9 È tanto che ecc. Intendi: è si scarso che la paroJa poco non basta ad esprimere con proprietà questa

scarsezza.

10 sidi, riposi; dal lat. sido, dis.

11 da te intelletta ecc., cioè: ami e gioisci di essere da te intesa e sola essere intendente te stessa.

12 ami ed arridi. A me arridi erroneamente leggeva la Cr., e lei seguivano molti altri.

13 Quella circulazion ecc., quello dei tuoi giri che pareva procedere da te, come il raggio riflesso procede dal raggio diretto, alquanto dagli occhi miei guardata intorno, parevami in sè stessa col proprio colore dipinta dell'umana effigie; laonde (perchè) la mia vista tutta era intesa alla detta circulazione.

14 affige, ferma la mente a considerare.

15 Per misurar lo cerchio ecc. Intendi: per cercare la quadratura del circolo, cioè per cercare se vi sia un quadrato la cui area sia perfettamente eguale a quella di un dato circolo.

16 quel principio ecc., quella verità, quel fondamento | ond' egli indige, abbisogna; cioè la proporzione esatta fra il diametro del circolo e la sua circonferenza.

17 Veder voleva ecc. Intendi: io voleva comprendere come al detto secondo giro si conviene l'effigie umana, cioè come alla seconda persona, al Verbo divino, si conviene la natura umana. Convenne in luogo di conviene, e ciò per enallage di tempo.

18 e come vi s'indova, cioè: come essa natura umana accomodatamente, quasi nel proprio suo dove, suo luogo, vi si riponga. Indovarsi è verbo simile agli altri verbi usati dal P. nostro, illuiarsi, immiarsi, intuar

si ecc.

19 Ma non eran da ciò ecc., ma l'intendimento mio non aveva tanto valore.

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CANTO I, pag. 1, n. 15, 16. Ripresi via per la pinggia diserta;

ALLE NOTE.

INFERNO

Si che 'l piè fermo sempre era 'l più basso.

Presso

resso che tutti i commentatori della Divina Commedia hanno creduto che il P. con questo verso abbia voluto significare il modo che si tiene andando in su per luogo acclive. Solamente il Magalotti mostrò esser falsa la costoro opinione, ma non giunse poi a spiegare il vero concetto di Dante. Io dichiarerò brevemente come l'avere il piè fermo sempre il più basso dell' altro che procede nel passo sia proprio di chi va per pianura; indi aprirò l'oscuro senso del verso sopradetto.

Dico primieramente che il piè fermo debba intendersi esser quello che sta sull'orma sua per quel tempo che l'altro procede a formare il passo. Ciò posto, suppongasi un piano A, dal quale si possa salire per duc gradini B e C: si ponga l'uomo co' piè pari in A, indi si faccia montare col destro piede in B. Allora esso piè destro fermo in B sarà il più alto sintantochè il sinistro saliente in C non avrà trapassato il gradino B; dopo il quale trapassamento esso piè destro fermo in B diventerà il più basso. Così accaderà poscia del piè sinistro che si ferma in C, se il destro avanzerà pel quarto gradino della scala. Laonde, volendosi esprimere il modo con che l'uom sale per quella scala, converrà dire che il suo piede fermo ora è il più basso ed ora è il più alto.

Suppongasi che il detto uomo, volendo camminare per un piano orizontale, segnato degli intervalli A B C, sia fermo co'piè pari in A e che poscia mova il piè destro in B: il pie sinistro fermo in A sarà in questo frattempo il più basso; e quando esso sinistro si leverà per procedere in C, lascerà più basso il destro piede fermo in B. Così or l'uno or l'altro de' piedi d'intervallo in intervallo resterà fermo e sempre più basso; dunque il modo di chi va per la pianura si è l'avere il piede fermo sempre più basso di quello che è in moto.

Dichiarati questi modi diversi del camminare per la salita e per la pianura, non sarà difficile il far vedere qual sia il concetto chiuso nei sopracitati versi di Dante. Dante camminava per piaggia, cioè per salita di monte poco repente (v. il Voc.), ed aveva sempre il piè fermo sensibilmente, se non matematicamente, più basso di quello che si moveva. Questo è quanto dire che egli saliva tenendo il modo di chi va per la pianura. Ciò accade appunto qualvolta la piaggia per la quale si cammina sia dolcissima; perciocchè il piede che si pone in moto non è appena alzato dal suolo che già è fatto più alto di quello che riposa sulla propria orma. S'interpreti dunque il mentovato verso così: ripresi via per

(1) Inf., c. VII, 18. DANTE, Div. Comm.

la diserta piaggia, si che non vi era bisogno di tener modo diverso da quello che si tiene quando si va per la pianura. Tanto era dolce quella piaggia che io camminava per essa come per luogo non acclive si suol camminare. Per sì dolce salir che par pianura, disse il Martelli; e prima di lui Dante più ingegnosamente, se non molto poeticamente, avea significata la medesima cosa con questi versi:

Ripresi via per la piaggia diserta;

Si che 'l piè fermo sempre era 'l più basso.
CANTO XII, pag. 27, n. 13.

Che alcuna via darebbe a chi su fosse.

Dice il Lombardi che la parola alcuna « non può qui avere altro senso che di niuna, troppo essendo evidente che lo scoscendimento di un monte non dà, ma toglie a chi vi è sopra la via di scendere, »

A queste parole del ch. espositore si vuol rispondere che il P., assomigliando il luogo dove egli era alla parte ruinata di Monte Barco, vorrà certamente che il lettore comprenda essere parità tra le due cose paragonate. Ciò posto, dico che il burrato al quale i poeti erano giunti era discosceso ed aspro, ma non tale però che di colà non si potesse venire al basso; poichè al verso 28 è detto: Così prendemmo via giù per lo scarco Di quelle pietre. In questo burrato era dunque alcuna via per la quale discendere si poteva; e perciò è forza inferire il medesimo ancora della parte di Moute Barco ed interpretare il verso col Vellutello che darebbe alcuna via (una qualche via), per discenderla, a cui su fosse.

CANTO XIV, pag. 34, n. 11.

Dentro dal monte sta dritto un gran veglio
Che tien volte le spalle invér Damiata
E Roma guarda sì come suo speglio.

Nella nota a questo passo si è seguitata l'opinione che cogli altri chiosatori tiene il Lombardi, le cui parole sono queste.

« Per far avverare sempre più che l'inferno il mal dell' universo tutto insacca (1), vuole Dante nell'acque stesse infernali simboleggiata la scolatura dei vizj dell'uman genere in ogni tempo. In una statua adunque di un gran veglio, composta da capo a piedi di varie materie gradatamente peggiori, come quella che nelle Scritture sacre dicesi veduta da Nabuccodonosor (2), figura egli il tempo e il peggioramento de' costumi entrato e cresciuto col tempo stesso nell'uman genere; e dal corrompimento delle materie componenti cotale statua, ch'è quanto a dire dai vizj di tutti i tempi, derivano le fecciose infernali acque. Ripone Dante questa | (2) Ban. II.

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