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statua in Creta, perchè in Creta (chiosa il Venturi col Landino) fingono i poeti che col regno di Saturno cominciasse del tempo la prima età. Non ponela in vista, ma nascosta dentro del monte, acciò l'esperienza non tolga fede alla finzione. L'altre circostanze in seguito. .... tien volte le spalle invér Damiata E Roma guarda ecc. «O per Damiata accennasi l'oriente, e per Roma l'occidente, e vuole indicarsi che il tempo non sia altro che un riguardo al moto degli astri che da oriente in occidente fassi; o vuole significarsi che il tempo è fatto per la beata eternità, e però guardi Roma, cioè la vera religione, che alla beata eternità sola conduce, e volti le spalle a Damiata città d'Egitto, inteso per l'idolatria ed ogni erronea setta. »

da credere quando considero che l'interpretazione del profeta si confà, più che alcun'altra, alla ragione poetica della Divina Commedia. La testa d'oro, dice Daniele, sei tu stesso, o buon re; dopo di te verrà un regno minore del tuo e sarà come argento; poscia un terzo e sarà come rame, e un quarto come ferro; e per ultimo il reame sarà diviso, e di ciò dan segno il ferro e la terra di che i piè della statua sono formati, Per queste parole chiaramente si vede che la statua simboleggia la monarchia, la quale nel suo cominciamento è ottima e col volger degli anni, come avviene di tutte le cose del mondo, si trasmuta e si guasta. E qual altra interpretazione può meglio di questa essere secondo l'idea del poeta ghibellino, il quale, indignato dai mali caNe'metalli di cui è compostagionati dalle corrotte monarchie de' tempi suoi, continua.

La sua testa ecc. " la statua, si riconoscono le diverse qualità de' costumi, secondo i diversi tempi ed età del mondo. V. Ovidio lib. 1 delle Trasform.: Aurea prima sata est ætas etc. 11 piè di creta su cui si posa è l'età che corre presentemente: vedi Giovenale nella sat. 13, che dà la ragione perchè questa parte ancora non sia di metallo, come le altre (cioè perchè appellinsi dai poeti tutte le precedenti età col nome di qualche metallo, fuorchè l'età corrente ) :

Nona ætas agitur (1) pejoraque sæcula ferri

Temporibus, quorum sceleri non invenit ipsa Nomen et a nullo posuit natura metallo. » A me pare che molto oscuramente avrebbe il P. simboleggiato lo scorrere degli anni col descriverci un vecchio che dentro una montagna sta fermo e tien volte le spalle a Damiata e guarda Roma. E più oscuramente ancora avrebbe espresso l'altro concetto che il Lombardi trova in quella immagine, cioè che il tempo è fatto per la beata eternità. E posto che il veglio fosse simbolo del tempo, che significherebbe egli il guardar Roma siccome suo speglio, che vale quanto mirare in essa l'immagine propria? Non sarebbe strana cosa il pensare che il tempo vegga la propria immagine in quella di Roma? Di questa stranezza si accorsero per avventura i chiosatori, e perciò dello speglio non fecero parola. Vero è che il tempo è rappresentato dai poeti sotto le sembianze di un vecchio alato e velocissimo, il qual fugge e mai non si arresta un'ora ; ma nel veglio posto entro il monte cretese non si può riconoscere il tempo se non ai metalli diversi co' quali gli antichi poeti significavano le quattro prime età del mondo, e non ad alcuna altra qualità che al fuggire degli anni ben si confaccia. Gl'interpreti di questi versi di Dante, lasciate da parte le favole de' poeti, dovevano por mente al luogo della sacra Scrittura dal quale è tolta l'immagine del gran veglio. Il che facendo io di presente, ho speranza che tutte le parti di questa allegoria si facciano chiare.

Essendo l'immagine del gran veglio presa dal sogno di Nabuccodonosor, non è da credere che Dante abbia in essa voluto simboleggiare cose diverse da quelle che il detto sogno interpretato dal profeta Daniele rappresentava. E più asseverantemente io dico ciò non essere

mente si adoperava acciò gli uomini d'Italia si volgessero a considerare come erano venuti dal buon oro antico al ferro ed alla creta? Che questa sia stata la mente dell'Alighieri apparirà più manifesto da quello che sono per dire nella dichiarazione di alcuni altri di questi versi.

E tien volte le spalle invér Damiata. In Creta, isola famosa per la felicità dell'antica età dell' oro e sede del buon re Saturno, è collocato questo gigante, a significare che la monarchia (secondo l'opinione di Dante ) si è quel governo nel quale gli uomini possono più beatamente vivere che in alcun altro. Il gran veglio tiene volte le spalle a Damiata e guarda Roma; perciocchè l'isola è posta in mezzo alle dette città in una medesima linea retta, di maniera che non si può di colà dirizzare gli occhi a Roma senza volgere le spalle a Damiata. Io mi penso poi che questo volgere delle spalle a Damiata non sia senza alcun perchè, ma voglia significare che l'Egitto fu antichissima stanza delle scienze e delle arti, e perciò la più splendida fra le antiche monarchie ; che le sue glorie e i suoi pregi erano già passati, e che Roma in sua vece era divenuta quell'alta monarchia che a sè traeva gli sguardi di tutte le genti, comeche ella fosse omai volta in basso.

E Roma guarda sì come suo speglio. Roma riflette da sè l'immagine del gran veglio: che è quanto dire che questa nobilissima città (la quale, secondo le dottrine di Dante, da lui dichiarate nel libro De monarchia, meritava di rimanere in perpetuo capo del mondo ) mostrava di essere venuta a termine tale per diversi gradi di corrompimento da non poter più durare; la qual misera condizione di lei significata dal fragil piede di terra cotta sul quale il gigante sta eretto più che sull' altro. E questi velati concetti si accordano con quegli altri apertamente espressi nel sesto canto del Purgatorio con quelle veementi parole che Dante move al potentissimo Alberto:

Vieni a veder la tua Roma che piagne
Vedova, sola, e di e notte chiama:
Cesare mio, perchè non m'accompagne ?
Vieni a veder la gente quanto s'ama;
E, se nulla di noi pietà ti move,

A vergognar ti vien della tua fama.

(1) Nona igitur ætas agitur (chiosa il riferito passo | Latini, sed octo: auream, argenteam, electream, aeream, di Giovenale il Jouvency), quia Græci non tantum cupream, stanneam, plumbeam, ferream.

quatuor ætates (jam exactas intendi) numerabant, ut

Desiderava il P. (e questo desiderio si manifesta in tutte le opere sue) che un solo capo reggesse l'Italia, ond'ella fosse ridotta in concordia e purgata dagli infiniti vizj che signoreggiavano allora ogni condizione di persone; perciocchè sapeva che dai pessimi ordini delle città tutti i mali e tutte le miserie derivano. E questo egli significò immaginando che da tutti i metalli, fuor che dall' oro, cioè da tutti i civili ordini corrotti, fuor che dalla monarchia frenata dai buoni ordini, goccino infinite lacrime che discendono nell'inferno ed ivi empiono gli orridi fiumi.

Ciascuna parte, fuor che l'oro, è rotta
D'una fessura che lagrime goccia,
Le quali accolte foran quella grotta.
Lor corso in questa valle si diroccia;

Fanno Acheronte, Stige e Flegetonta,
Poi sen van giù per questa stretta doccia.

CANTO XV, pag. 36, n. 11.

La seguente nota mi fu data dal sig. conte Antonio Papadopoli amico nostro. Spero che non gli sarà discara la libertà ch'io mi prendo di pubblicarla.

I

menti pare che si debba prestare credenza a quel commentatore che per ragione di tempo e per diligenza di commento è in maggior pregio dei litterati. Posto ciò, egli è certo che Benvenuto è assai più credibile e pel tempo in che visse e pelle verità del suo commento; ma nulladimeno ho giudicato che troverebbe la sua opinione più fede, se fosse confermata con autorità e ragioni (5). Per la qual cosa cominceremo dall' allegare l'autorità del Villani; il quale, dopochè narrò l'arte con che Totila (6) prese Fiorenza, che non potè avere ne per forza nè per assedio, così dà fine al suo racconto: -I Fiorentini malavveduti, e però furono sempre in proverbio chiamati ciechi, credettero alle sue false lusinghe e vane promissioni: apersongli le porte e misonlo nella città. Ne solo il Villani, ma lo stesso ser Giovanni Fiorentino, facendo ordinata menzione del distruggimen→ to di Fiorenza, al fine delle sue parole soggiunse: Fiorentini, mal consigliati, credettero alle sue false lusinghe (d'Attila), e però furono sempre detti Fiorentini ciechi (7). Le quali testimonianze non accade dire quan to aggiungano peso all'opinione di Benvenuto, dappoichè tutti sono in accordo nel riverire come notabili scrit « Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; tori e il Villani e ser Giovanni Fiorentino. Ma qui rieGente avara, invidiosa e superba : sce di gran conto osservare come il Malespini (8) e il Da' lor costumi fa che tu ti forbi. Villani e ser Giovanni contuttochè ricordino il fatto delPer diversi modi s'interpretò questo passo di Dante le colonne, taciano nondimeno che per ciò i Fiorentini dai commentatori (1); ma la più parte dicono che il si chiamassero orbi; il che è valevole a fare più persopranome di orbi si desse ai Fiorentini per la credu- suadibile l'opinione di Benvenuto. Sebbene le dette aulità con che presero dai Pisani quelle colonne che ora torità aiutino molto l'opinione di Benvenuto, nondimesono alla porta del battistero in s. Giovanni. Il quale no, perchè essa paia più credibile appresso coloro che inganno si noto è che qui non si vuole minutamente questa mia nota leggeranno, produrrò anche questa osraccontare. Il primo che nel suo commento citasse que- servazione che mi cade in taglio di fare. L'inganno sto fatto a chiosa di quel verso di Dante fu il Boccac- delle colonne seguì nel 1110, tempo non molto lungi cio; poscia consentirono in questa opinione molti sto- da quello di Dante; il fatto di Attila è del 440. Or non rici e commentatori (2). Ma sebbene il Boccaccio alle-è ella cosa chiara e manifesta che Dante colla parola gasse la sopra citata interpretazione, non rimane però vecchia fama volle significare una lunghezza di tempo ch'egli non ne dubitasse; e vagliano a dichiararlo que- assai remota da lui? Pare perciò verisimile eh'egli non ste sue stesse parole: Ma quanto è a me, non va al-parlasse del fatto de' Pisani, ma di quello d'Attila. Sol'animo questa essere stata la cagione, nè quale altra pra la qual cosa ho fino qui detto a sufficienza; se non si sia potuta essere non so (3). Nè solamente il Boc- che entro in un dubbio che alquanti non ci fossero i caccio di ciò dubitava, ma anche Benvenuto: e che ciò quali pensassero gittare a terra le ragioni, avvegnache sia, bene il si mostra pel suo commento, che ora dai antiche, dell' opinione di Benvenuto, negando col Borletterati si presenta a gran credito; nel quale, posciachè ghini l'andata di Attila a Fiorenza (9). La quale loro manifestò non andargli a genio l'opinione che correva presunzione sarebbe vuota di effetto. E invero che mondelle colonne, così conchiude: Sed mihi videtur quod ta che Attila distruggesse Firenze o no, se era opinione maxima cæcitas Florentinorum fuit quando crediderunt invecchiata appresso tutti e per molto tempo radicata Attila, si verum est quod iam scripsi supra cant. XII (4). che quel fatto fosse avvenuto, come chiaramente si ricaIn tanta dubbiezza dei commentatori e diversità di com- va per le parole di Dante là nel XIII dell'Inferno (10),

(1) Bocc. de fluminibus. Buti ms. fol. 66; Maglia- | Fiorenza; perchè, oltre che quelle storie sono piene bec. Iacopo della Lana, Commento; Vindelino da di queste intelligenze, abbiamo il Bocc., il quale dice Spira 1477. Biondo, Storie. Lami, vol. XI, p. 1. che coloro che Attila dicono, Totila non dicono bene. Benvenuto, Comm. al v. 67. Vol. 2. nov. 20.

(2) Scip. Ammirato, l. 1. Marchionne Coppo Stefani. Ant. Pucci, Centiloquio. Volpi, Venturi, Lombardi. (3) Bocc., Com. vol. 2.

(4) Murat. Antiquit. ital. tom. II. Benv. imol. comment. in Dant. Comæd.

(5) Gio. Vill. lib. 2, c. 1.

(6) É buono avvertire che non meraviglino i lettori se altri Totila, altri Attila chiamino il distruggitore di

(7) Il Pecorone di ser Giovanni Fiorentino, tom. I,

ΠΟΥ. 11.

(8) Malespini, cap. LXXI. Villani, p. 95 ediz. Giunti. Ser Giovanni, giorn. XII, nov. 11.

(9) Borghini, disc. 11, 251. Firenze 1555. (10) Dittamondo XIII, 7, 13. Boccaccio, Vit. Dante 1722, 4. Ninfale d'Ameto 135. Commento 248. Malespini, cap. 20.

Quella che con le selle teste nacque
E dalle diece corna ebbe argomento,
Fin che virtute al suo marito piacque.

di Fazio, del Boccaccio e di quanti dettarono a quei tempi? Dico dunque riepilogando le cose discorse: che il sopranome di orbi fu imposto a' Fiorentini per la credenza che essi posero in Attila e non pel fatto delle colonue; e a tenere questa sentenza m'induce l'autorità di Benvenuto, che, grave essendo da per sè stessa, viene rafforzata da quella del Villani e di ser Giovanni Fiorentino e confermata dalla ragione, la quale non vuole che si riferiscano ad un fatto recente le parole di Dante che un fatto antico ricordano. »

CANTO XVIII, pag. 44, n. 13.

Ma chi ti mena a sì pungenti salse?

Il sig. cav. Dionigi Strocchi fu il primo fra i novelli commentatori della Divina Commedia a farci noto che le Salse erano un luogo situato a poca distanza da Bologna; e ciò disse egli di avere saputo già da Luigi Palcani Caccianemici chiarissimo letterato bolognese. Poscia avendo esso sig. cavaliere fatto di quel luogo più minute ricerche, seppe che di esso faceva menzione un codice della biblioteca riccardiana ed il commento di Benvenuto da Imola. Della qual cosa essendo io stato avvertito, osservai il ms. del detto commento che in questa pubblica libreria si conserva e da esso trascrissi la seguente nota. A sì pungenti salse. Nota quod quidam locus concavus et cavernosus est supra Bononiam apud S. Mariam in Monte, quem Bononienses vocant Salsas. Huc solebant adduci et proiici corpora desperatorum et excommunicatorum. Hinc inolevit consuetudo per quam pueri bononienses, sibi invicem contumeliantes ob iram, dicant: Tace; tuus pater ad Salsas tractus fuit. Simile facit auctor Venedico. Il luogo qui accennato si trova un terzo di miglio circa sopra la casa di villa del signor conte Antonio Aldini, la quale fu già convento de' frati minori osservanti riformati. Il detto luogo è un' angusta valle assai profonda, circondata da grigie coste senza alberi, e qua e la coperta da sterili erbe; orrido sito e veramente acconcio sepolcro de corpi infami, che i nostri antenati sdegnavano di ricevere ne' sacri recinti e ne' luoghi colti ed abitati. La via che conduce a sì trista valle oggi è chiamata la strada de' tre portoni, ma non ha perduto l'antico nome; che i vecchi contadini con pronuncia corrotta la dicono le Sarse. Salsa anticamente forse fu chiamata dalla qualità della terra salsa di che sono formate le sterili coste che circondano la detta valle. È ancora fama fra gli abitanti di quelle contrade che al capo della via, ove sono tre portoni, dai quali ba il nome novello, fosse un rustico edificio e che presso a quello si conducessero al supplizio i malfattori e si frustassero i lenoni ed altra simile genia.

CANTO XIX, pag. 48, n. 21.
Di voi pastor s'accorse il vangelista
Quando colei che siede sovra l'acque
Puttaneggiar co'regi a lui fu vista:

(1) Sia qui detto una sola volta, per non ripetere altrove la cosa medesima, che io interpreto i versi di Dante secondo il falso principio da lui stabilito nel li

Tutti gli espositori opinano che le sette teste e le dieci corna sieno qui poste come qualità della donna e che si fatta donna significhi la Chiesa; e quindi concludono che non si può ammettere che esse teste cornute sieno figura de' sette peccati capitali, quando non si voglia accagionare d'empietà il P., il quale avrebbe attribuito il peccare all' infallibile chiesa di Dio. Ma è egli poi vero che Dante abbia, com'essi vogliono, in quella femmina simboleggiata la Chiesa? È egli poi vero che sul collo di quella abbia posto le sette teste cornute, imbrogliando, secondo che dicono, il sacro testo dell' Apocalisse? E si dovrà dunque credere che quel dotto teologo prendesse le teste e le corna della malnata bestia per simboleggiare cose santissime? Si dovrà credere che quell'acuto ingegno ricordi al lettore la visione di s. Giovanni e poi gliela ponga dinanzi al pensiero trasmulata e guasta? Che quel sommo poeta, che sempre inventa con nobiltà e grazia, anche allorquando i mostri descrive, abbia qui dipinto una donna il cui aspetto farebbe non maravigliare, non ispaventare, ma ridere le genti? Che diremmo noi di un pittore cui venisse talento di rappresentare la santa Chiesa armata de' sette sacramenti e de' dieci comandamenti divini e fingesse una donna cui sorgessero dal collo sette teste bizzarramente cornute? Somigliante dipintura, che ben converrebbesi alla officina di Buffalmacco, mal si confà colle sublimi cose del sacro poema Al quale ha posto mano e cielo e terra. Dante non può avere finta immagine tanto sconveniente ne da quel gran poeta nè da quel gran teologo che egli era; e che ciò non abbia finto, apparirà chiaro per quello che ora dirò.

Si consideri primieramente che, la sacra Scrittura ai tempi antichi essendo letta più che oggidì, bastava a Dante il fare cenno di quella visione di s. Giovanni per rappresentare subitamente al pensiero de' suoi lettori la femmina distinta dalla bestia delle sette teste per la qual cosa egli avvisò che due pronomi diversi fossero sufficienti a contrassegnarle e a distinguerle, e significò la donna col pronome colei e la bestia col pronome quella. Se egli avesse avuto in animo di fare della donna e della bestia una cosa medesima, avrebbe replicato il pronome colei. Dunque io dico che nel primo terzetto si parla della donna, nel secondo della bestia, e che il senso loro è il seguente: di voi, o pastori, che, dovendo, secondo le teoriche del libro De monarchia (1), attendere alle cose spirituali, attendete alle temporali ; ovvero di voi, o uomini della romana curia, intese l'evangelista quando ci descrisse femmina che dominava sopra molte acque, cioè sopra molte genti, e fornicava coi re della terra. Quella che nacque colle sette teste, bestia da dieci corna (il peccato), ebbe argomento (2), cioè ebbe freno fintanto che al marito della dozna

| bro De monarchia e che sono lontano dall' approvare le opinioni de' ghibellini.

(2) La parola argumentum ne'bassi tempi significò

(cioè al pontefice, che come principe secolare è congiunto alla detta curia) piacque la virtù.

Per rendere certa questa nuova spiegazione, resta solo da toglier via una difficoltà che potrebbe sorgere nelle scrupolose coscienze dei grammatici, ed è questa. Che il pronome suo non si può riferire al pronome colei, cioè alla donna, ma che esso dee starsi col pronome quella, il qual regge la proposizione che immediatamente antecede. A questa difficoltà si risponde: che nessuno sarà di si grossa mente che voglia darsi a credere che della bestia e non della donna sia il marito di cui si parla. Alla parola marito il pensiero corre tosto alla donna. Ma soggiugneranno: posto anche ciò che tu di', resta sempre che il costrutto non è secondo le regole. Nol sia; Dante abbia peccato: ma per salvargli l'onore di buon grammatico vorremo averlo per malaccorto poeta, per malaccorto e profano teologo? Crederemo che egli abbia imbrogliata e guasta l'immagine di s. Giovanni e rappresentati i sette sacramenti e i dieci comandamenti divini cogli attributi infernali della bestia dell' Apocalisse? Credat hæc iudæus Apella.

Resta a vedere se sia più ragionevole e più conforme al contesto la sentenza da me dichiarata o quella che gli espositori trassero dalle parole del P. Pongo qui l'una presso all'altra, acciocchè il lettore possa agevolmente farne il confronto.

Spiegazione nuova. Di te, o romana curia, intese l'evangelista descrivendoci la donna che dominava sopra l'acque e fornicava coi re della terra. Quella che nacque colle sette teste, bestia da dieci corna (il peccato), ebbe freno fiutanto che i pontefici, ora congiunti con quella curia, furono virtuosi; ma ora, rotto questo freno, hai fatto tuo Dio l'oro e l'argento e ti sei mostrata simile agli idolatri.

Spiegazione degli espositori. Di voi, o pastori, intese l'evangelista descrivendoci la donna che dominava sull'acque e fornicava coi re della terra. Quella donna che nacque con sette teste ebbe dalle sue dieci corna (cioè dai dieci comandamenti divini) segno, riprova che la pontificale diguità è istituita da Gesù Cristo; ma ora vi siete fatto Iddio l'oro e l'argento e vi mostrate simili agl'idolatri.

Ognun vede che queste proposizioni non han legame fra loro; e ciò basterebbe a rifiutare si fatta spiegazione: ma sono in essa difetti anche più gravi. Gli espositori dicono che la parola argomento vale segno che la pontificale dignità fu istituita da Gesù Cristo. E tante cose dunque si ponno mirabilmente racchiudere

in un solo nome sostantivo? Oltre di ciò affermano cosa non ammissibile in teologia quando dicono che i comandamenti divini furono segno che la pontificale dignità è istituita da G. C. sin a tanto che ai pontefici piacque la virtù. Ciò che è riprova della legittimità della sede apostolica potrà egli per avventura cessare di esser tale? Le profezie, i miracoli, le testimonianze degli uomini santi e de' martiri, la non mai interrotta successione de' romani pontefici, l'unità della dottrina, la santità de' sacramenti, la maestà de' riti e la purità della legge sono riprove e motivi per cui l'uomo, secondo il detto di s. Paolo, fa ragionevole l'ossequio suo verso le cose della fede; e queste riprove saranno sempre quali ora sono, nè punto perderanno della natura loro per lo trapassare de'secoli, per lo deviare degli uomini, di qualsivoglia condizione ellí sieno. Se questo è vero, non è a dubitare, Dante teologo non può aver nascosto sotto il velo delle sue parole la sentenza de' suoi espo sitori. Teniamo dunque per fermo che nei predetti versi la mala femmina è simbolo della curia romana, la bestia delle sette teste simbolo del peccato.

CANTO XXVIII, pag. 77, n. 9.

come

Sappi ch' io son Bertram dal Bornio, quelli Che al re giovane diedi i ma' conforti. Bertram dal Bornio fu uomo inglese, secondo alcuni, guascone, secondo altri. Alla corte di Francia fu aio di Enrico figliuolo d'Arrigo II re d'Inghilterra, consigliò il suo alunno a movere guerra al fratello Riccardo. Dice il Ginguené che la lezione al re Giovanni o è errore del poeta o de'copisti. Alcuni cercarono di difendere la detta lezione; ma pare che il torto loro sia manifesto. Imperocchè il Millot nella storia dei trovatori racconta che Bertramo dal Bornio si affezionasse ad Enrico re

giovane, così chiamandolo per essere stato eletto re d'Inghilterra in tenera età, e che lo eccitasse a movere guerra al proprio fratello Riccardo; e non fa mai menzione alcuna del supposto re Giovanni. L'affermazione del Millot è autorevole, essendochè egli trasse la materia della citata istoria da Saint-Palaie, il quale raccolse nella libreria del Vaticano e da molte d'Italia i documenti di ciò che narra. Aggiungi che l'antico novelliere, parlando della liberalità di questo Enrico, invece del re Giovanni, legge del re giovane. Se questa è istorica verità, non è verisimile che fosse ignorata da Dante perciò abbiamo stimato di preferire a tutte le altre lezioni quella del cod. Florio,

ceppo, legame, catena o simile, come dichiara il Du- | pi, e giovandosi Dante più volte di voci somiglianti, è "cange, Vocab. med. lat.: Argumentum in examinatione ragionevole il supporre che da quel latino egli abbia ant supplicio reorum sunt vincula, compedes et alia id | potuto prendere la voce argomento in significato di cepgenus. Vita s. Niceti episc. lugdun. (t. 5, Apit. pag. po o freno. Parmi poi certo che abbia fatto ciò, quan101 B): Argumenta quibus constringebantur adstricti do considero che, dando noi alla voce argomento la sicum suo baculo tetigisset, vigor ferri confractus. Aven- gnificazione di freno, esce da que’versi, già oscuri, un do l'idioma italico in sè molte voci latine de' bassi tem- senso chiarissimo e conveniente al contesto.

PURGATORIO

CANTO IV, pag. 106, п. 1. Udendo quello spirto ed ammirando ecc. Il Vellutello chiosa questo luogo nel modo seguente: «E di questo dice (il P.) avere avuta esperienza udendo Maufredi ed ammirando delle cose che diceva, perche il sole era salito cinquanta gradi sopra l'orizonte che egli non si era avveduto. » A me pare che l'ammirazione in Dante debba nascere dal vedere il sole salito a cinquanta gradi in poco d'ora (non sapendo egli che fossero trascorse tre ore) e non già dalle parole di Manfredi. E perciò interpreto così: Io ebbi esperienza che, quando alcuna cosa tiene fortemente a sè volta l'anima nostra, il tempo fugge senza che ce ne avvediamo, udendo quello spirito e maravigliandomi che, durante il discorso di lui (il quale a me parve brevissimo), il sole fosse salito ben cinquanta gradi. Scelga l'accorto lettore quello dei due significati che gli sembrerà più naturale. CANTO VI, pag. 113, n. 8.

Poi che ponesti mano alla predella.

Il Tassoni nelle sue annotazioni al Vocab. della Crusca, dopo aver detto che l'opinione di coloro i quali | credono che predella venga da prædium e vaglia villa o campo non gli pare nè vera nè verisimile, così la discorre: «Mentovandosi metaforicamente fiera, cioè cavallo indomito, freno, sproni, sella e arcioni, mostra pure che predella si confaccia loro e che per freno si voglia prendere. Guarda come questa bestia, per non avere chi con gli sproni la corregga, è divenuta malvagia, dappoichè tu, o gente devota, mettesti la mano al freno, non lasciando salirvi su cavalcatore imperiale. E Benvenuto da Imola espone: postquam assumsisti | regimen istius feræ belluæ et frænum; stimando egli però che ciò si debba intendere piuttosto d'Alberto che del papa. E se predella si vuol prendere per una parte della briglia, io non la intenderei già per quella dove si tien la mano quando si cavalca, che sono le redini, come la intende il Buti e dietro a lui il Landino e il Vellutello; ma la prenderei per quella estremità che va alla guancia del cavallo sopra il morso e per la quale esso si suol pigliare bene spesso da chi nol cavalca, o per fermarlo o per farlo andare soavemente, come si suol fare cavalcando gran signori e gran dame. Ciò mi pare che apertamente si comprenda nel seguente luogo, Tratt. 2, Dott. comperar. cav. (il quale libro io reputo ben più antico che non è il commento del Buti ):

E quando l' hai così procurato dalle sopradette cose, e tu lo piglia per la predella del freno e ragguardalo negli occhi, prima l'uno e poi l'altro ecc.; ed a volere ben guardare il cavallo negli occhi, meglio che per altra parte, e' si piglia per la sguancia. Tanto ho voluto dire di questo vocabolo e del luogo di Dante; e giudichi ciascuno quello che più gliene cape nell' animo. Fin qui il Tassoni. Il Menagio, investigando l'etimologia della parola predella nel significato di briglia

(1) Inf., c. 1, v. 32.

o parte della briglia, dice così. « Viene sicuro dall'inusitato latino brida; onde lo spagnuolo brida, il francese bride e l'italiano briglia. E formossi in questa maniera: brida, bridella, bredella, predella. Disse l'inusitato latino brida dal greco rhyo, cioè traho, come redine da retineo rhyo, rhytòs, rhytè, rhytà, rhyta, brida. Da brida bridula, onde briglia.

CANTO VII, pag. 117, n. 5.

D'ogni valor portò cinta la corda.

Il Lomb. crede che questo modo di dire abbia allu-
sione alle parole di Salomone accinxit fortitudine lum-
bos meos ed alla corda de' frati minori, di che alcuni
credettero che Dante si cingesse. Il dotto commentatore
è indotto in questa credenza dalla interpretazione che ci
fece ai versi seguenti del c. XVI dell' Inferno:
Io aveva una corda intorno cinta

E con essa pensai alcuna volta
Prender la lonza alla pelle dipinta.

I quali versi egli chiosa così: Questo pare a me che esser debba l'intendimento del P., ch' egli cioè, per cingersi del francescano cordone, pensasse alcuna volta (ch'è quanto a dire una volta) di prendere, cioè di frenare il sensuale appetito, già di sopra (1) per la lonza indicato, e che il cordone medesimo portando egli tuttavia, come "terziario dell' ordine stesso, facesselo quivi servire ad ingannare e far venir sopra Gerione.

Il Landino, il Vellutello e il Daniello pensarono che questa corda fosse allegorica, ma dissero che per essa si deve intendere la frode colla quale Dante alcuna volta tentò di giugnere a lascivi fini. Ma come si potrà egli tenere per vera cotale spiegazione se di quella corda si serve Virgilio per obbligare Gerione à venire a riva? È egli credibile che Virgilio si giovi della fraude di Dante per far obbediente al suo volere Gerione, bestia che è simbolo della frode? S'interpreti piuttosto : deve essere simbolo della virtù contraria al detto vizio, cioè di quella fortezza, di quella magnanimità per la quale l'uomo non è timido amico del vero e colla quale Dante pensò di pigliare la lonza ecc., cioè d'indurre Firenze a distogliersi dalle male opere. Questa spiegazione sembrerà assai verisimile a chi porrà mente che nello stesso canto XVI Dante garrisce Firenze in questo modo:

La gente nova e i subiti guadagni

Orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni. Così gridai con la faccia levata.

Cioè: gridai con fronte alta ed ardita, come sogliono i magnanimi.

Se questa allegoria non ha allusione colla corda de' frati minori, conséguita che non ebbe allusione con essa nè anche la metafora colla quale in questo luogo è significata la virtù di Pier d'Aragona. Della interpretazione sopra esposta io sono debitore all'egregio e dotto conte Gio. Marchetti.

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