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trovare noia e fastidio. Dicesi che nel decimo anno dell' età sua innamorasse di una fanciulla di rara bellezza, figliuola di Folco Portinari, chiamata Beatrice (1); e che tanto poi moltiplicasse in lui l'amorosa passione che solo costei gli facesse cara la vita e per lo spazio di quindici anni spirito gli desse a comporre elegantissime prose e dolcissime rime d'amore. Questa donna e viva e morta egli ebbe nel pensiero, sì che lei tolse poi a guida nel suo allegorico viaggio al Paradiso. Ma comechè lungo tempo dalle cure d'amore fosse travagliato, non tralasciò mai di attendere agli studj e di conversare cogli uomini. Avendo perduto il padre in sul fiorire della sua puerizia, si volse con amore di figliuolo a Brunetto Latini, uomo versato in ogni liberale disciplina, e sotto la costui piacevole educazione passò alcuni anni in apprendere la dialettica, la retorica e la poetica; e tanto profittò che in breve de' più nobili poeti latini divenne familiarissimo. Secondo che il Buti racconta, entrò nell' ordine de' frati minori in sua giovinezza; ma non avendo professato fra loro, l'abito ne svesti. Gli altri scrittori non ci fanno parola di questo, ma dicono che in Firenze si diede sotto diversi dottori a diverse discipline. Secondo Benvenuto da Imola, andò per istudiare a Bologna; secondo Mario Filelfo, a Cremona ed a Napoli. Checchè ne sia, certo egli è che nell'anno 1289 dimorava in Firenze; poichè si trovò a combattere in Campaldino contro i ghibellini e nell'anno seguente contro i Pisani. Per varj casi della battaglia di Campaldino, secondo ch' egli racconta in una epistola, ebbe molta allegrezza; ma questa ben tosto in infinito dolore si rivolse, perciocchè nel 1290 l'amata sua donna nel più bel fior della giovinezza morì. Gli amici e i congiunti di lui, per tornarlo nella primiera allegrezza, avvisarono di dargli moglie. Si oppose egli dapprima al loro consiglio; poi, vinto

(1) Quelli che scrissero la vita di Dante hanno creduto che la figliuola di Folco Portinari si chiamasse Beatrice; ma è da dubitare che tale non fosse il nome di lei, perciocchè Dante così si esprime nella Vita Nuova: «La gloriosa donna della mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapevano che sì chiamare.» Se molti, e non tutti, così la chiamarono, è da credere che tale non fosse il nome suo. E forse Dante stesso, per riverenza all' onestà dell' amata donna, ne ascose il vero nome e, chiamandola Beatrice, avvisò di significare la bellezza del corpo e dell'animo di quella gentilissima che faceva beati coloro che la riguardavano.

dalle preghiere, s'ammogliò disavventuratamente con una della chiarissima stirpe de' Donati chiamata Gemma, femmina riottosa e caparbia, che le dogliose cure dell' animo gli fece più gravi. Alla costei indole oppose il filosofo per alcuni anni la virtù sua; ma veggendo poi disperata la concordia, si partì da lei e, comechè più figliuoli ne avesse avuti, non volle mai più rivederla. Nel tempo che egli visse in compagnia di lei fu molto sollecito delle cose domestiche e tenero de' suoi figliuoli, alla educazione de' quali attese ferventemente; ma i privati negozj tanto nol tennero che anche per la repubblica moltissimo non operasse. Due volte fu inviato a Carlo II re di Napoli, nel trentesimo anno dell' età sua, poco prima del suo sbandimento. Per molt' altre ambasciate importanti fu eletto; fra le quali orrevolissima fu quella a papa Bonifacio VIII per offerire la concordia de' Fiorentini. Negli altri pubblici ufficj ebbe tanta parte che, al dire del Boccaccio, niuna importante deliberazione si prendeva se Dante non dava la sua sentenza. La molta virtù, come accade ne' governi liberi, gli aprì la via degli onori e sì gli procacciò la pubblica fede che dai suffragi de' suoi concittadini nell'anno 1300 fu creato de' priori. A questo tempo si eccitarono dai Cerchi e dai Donati i tumulti de' quali è detto di sopra, e per consiglio di Dante fu confinato m. Corso Donati con quelli che si erano mostrati nemici del viver libero. Ma essendo esso m. Corso sicuro del favore di Carlo di Valois e di quello del popolo, rientrò in Firenze con molti di sua parte, abbassò i bianchi e, per vendicarsi dell'esilio sofferto, tolse a pretesto una congiura, per la quale, secondo che si diceva, i bianchi praticavano di essere rimessi al governo della repubblica, e cacciò in bando i principi della setta loro. Dante era in Roma nell'anno 1302 ad offerire la concordia, nulla temendo di sè; ma in Roma, secondochè si ricava dal XVII canto del Paradiso (1),

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Qual si parti Ippolito d'Atene

Per la spietata e perfida noverca,
Tal di Fiorenza partir ti conviene.
Questo si vuole e questo già si cerca;
E tosto verrà fatto a chi ciò pensa
Là dove Cristo tuttodi si merca.

DANTE, Div. Comm.

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a lui si ordivano trame insidiose: e non ancora erasi egli partito di e diede il guasto

colà che il popolazzo fiorentino gli corse a casa alle robe sue; e Cante de' Gabrielli d' Agobbio, uomo crudele di parte guelfa, fatto allora podestà di Firenze, lo citò e in contumacia lo condannò alla multa di lire 8000 e a due anni d'esilio. Dicesi che l'essersi Dante opposto a coloro che consigliavano di dare sussidio e provvisione a Carlo fosse la vera ed occulta cagione di questa condanna. Non avendo Cante de' Gabrielli con sì malvagia opera saziato l'odio de' guelfi, d'indi a pochi mesi con un' altra sentenza crudelissima condannò Dante e Petracco padre di Francesco Petrarca, con altri tredici Fiorentini, venendo eglino alle mani del comune, ad esser bruciati vivi, come rei di estorsioni e baratterie. Brutta calunnia e crudele vendetta che non avrebbero avuto luogo fra un popolo che libero si chiamava, se due freni fossero stati in quella repubblica, uno alla licenza ed uno alla tirannide. Ma era nome vanissimo in Firenze la libertà; imperciocchè quelli che alla pubblica forza imperavano tenevan congiunta a tanta potenza anche l'autorità d'intromettersi ne' giudizj, di riformare e di abrogare le leggi, le quali essi ordinavano sovente a pro loro e a depressione della setta contraria. Questo fece che i rancori e le discordie e i tumulti moltiplicassero e non avessero fine se non quando il popolo, sotto la balìa di una ricca famiglia, venne alla quieta servitù che prese l'onesto nome di pace. Da Roma si recò Dante alla Toscana, e in Siena fu reso certo della sua disgrazia e seppe come Corso Donati sformava la giustizia e per vana gloria si faceva chiamare barone; come si uccidevano uomini, si sfacevano e si ardevano case, ed altre male opere a danno de' bianchi si commettevano. Ponendo egli allora la speranza del suo ritorno nelle facili permutazioni della fortuna passò ad Arezzo, dov'erano convenuti quelli di sua parte; che, collegatisi con alcune potenti famiglie di Pistoja e di Bologna e creato loro capo Alessandro di Romena, pensarono di far impeto contro Firenze. Secondo questa deliberazione, nell' anno 1304, con intelligenza del legato del papa, vennero gli usciti a Firenze, ed entrati per le mura corsero la città fino alla piazza di s. Giovanni; ma il popolo, che dianzi aveano amico, irritato da quella violenza, li cacciò

fuori. Allora venne meno a Dante la speranza del suo ritorno; perchè, abbandonata la Toscana, si riparò in casa di Bartolomeo della Scala signore di Verona, che, essendo in somma felicità di ricchezze e di onori, dava cortesemente rifugio agli uomini prestanti per qualche virtù che da' guelfi erano perseguitati. Per le cortesie e pei beneficj del magnifico signore non sentì Dante diminuire il desiderio di ritornare alla patria; anzi, tenendo per incomportabile cosa l'esilio, scrisse ad autorevoli uomini ed al popolo fiorentino, pregando istantemente il suo ritorno: ma veggendo poi ogni priego tornargli vano, andò qua e là peregrinando e per mitigare il suo cordoglio e per vaghezza di conoscere i costumi degli uomini. In Padova, nel Casentino, nella Lunigiana alcun tempo dimorò: a Serezzana nel 1306 fu procuratore della concordia tra la casa Malespini ed il vescovo Antonio: anche presso ai signori della Faggiola si fermò ne' monti di Urbino. Andò a Bologna ed a Padova: fu ospite di Bosone Rafaeli in Agobbio e de' monaci d'Avellana nel territorio di quella città; dove conobbe frate Ilario priore di quel convento, al quale fece preghiera acciocchè volesse far sì che Uguccione della Faggiola gradisse intitolata a lui la prima cantica della Divina Commedia. Dall' Avellana incamminatosi alla volta di Francia, recossi a Parigi e di colà, secondo che il Boccaccio in un carme latino racconta, dopo alcun tempo, passò in Inghilterra. Essendo in Parigi, molto studiò in divinità; sicchè poi tenne dispute sottili e fu chiamato teologo, che a quei tempi era quanto dire sapientissimo. Occorse nel 1313 che Arrigo, l'anno innanzi coronato imperatore di Roma, deliberò di restituire i ghibellini alle patrie loro e di sottoporre Firenze al suo dominio. Dante allora sentì rinascere la morta speranza e l'animo talmente infiammò che si spinse a scrivere ai perversi nemici suoi una lettera piena di acerbissimi detti; tanto è difficile, quando la fortuna ci mostra il volto benigno, l'usare moderazione. Poichè Arrigo ebbe consumati quaranta giorni sotto le mura di Firenze in vani combattimenti, lasciò quell'assedio e mosse campo contro il regno di Napoli; ma infermatosi a Bonconvento, ivi a picciol tempo morì: ondechè a' ghibellini falli di nuovo la speranza del ritorno. Non andò poi guari che la fortuna dell' armi

il

ghibelline prosperò alquanto perchè l'Alighieri, ripreso animo, fermò la sua dimora in Lucca, dove si accese dell' amore di colei della quale si fa menzione nel canto XXIV del Purgatorio.

Nel 1315 essendosi rinnovata da Zaccaria d' Orvieto, vicario in Firenze del re Roberto di Napoli, la crudele sentenza di Cante de' Gabrielli, l'esule infelice si riparò novellamente in Verona in casa di Can Grande, ove dimorò quasi tre anni in compagnia di molti uomini letterati che da quel magnifico giovanetto onorati erano. Dalla Lombardia passò poi nella Romagna, indi a Gubbio, e da Gubbio a Udine, dove stette fino alla morte di Uguccione della Faggiola. Nell' anno 1320, trascorsa la marca trevigiana, venne a cercare tranquillo e riposato vivere nella Romagna. Guido Novello de' Polentani, signore di Ravenna, che il rimeritare e l'onorare`i sapienti stimava principal parte di giustizia, a lui mandò lettere e messi, offerendogli ospizio ed amicizia. Mosso da questa rara benignità, venne Dante alla detta città ed ivi, sciolto da' pubblici negozj pose tutto l'animo alla filosofia ed alle lettere e diede ammaestramento a molti i quali poi ebbero lode di non vulgari poeti; tra i quali fu Pietro Giardino, il cui nome solo ci è rimasto. Avea Dante passati in questo dolce riposo diciotto mesi, quando nel 1321 da Guido fu mandato oratore a' Veneziani per chiedere la pace. Non avendo egli potuto vincere gli ostinati animi di quell'ambizioso senato, lasciata la via del mare, che per cagione della guerra era piena di pericoli, ritornò indietro per le disabitate ed incomode vie de' boschi. La tristezza che gli avea messa nel cuore il superbo contegno de' Veneziani e i disagi dell' aspro cammino poteron tanto nel poteron tanto nel corpo suo travagliato ed indebolito dalle lunghe fatiche e dall' esilio che infermò per istrada. Giunto a Ravenna, aggravò e il giorno 14 settembre del detto anno, con sommo dolore di Guido e di tutta la città, rese lo spirito. Il liberale cavaliere fece con pomposi funerali onorare il glorioso poeta ed egli stesso parlò della sapienza, della virtù, degl' infortunj del perduto amico, ed il morto corpo in un'arca di marmo fece porre; e di più egregia sepoltura l'avrebbe onorato, se non gli fossero venuti manco lo stato e la vita. Quello che il magnifico signore non potè fece poi nel secolo decimosesto Bernardo Bembo e nel finire del decimottavo il cardinal

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