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Luigi Valenti, che, secondo il disegno di Camillo Morigia illustre architetto ravignano, edificò quell' adorno monumento che oggi si vede.

Poichè s'è detto de' casi di Dante Alighieri, ora delle qualità e dell' opere sue resta a dire alcuna cosa. Delle sembianze di lui ci serba memoria l'effigie in molti luoghi dipinta e in molti rami intagliata, tolta da quella che Giotto fece nella cappella del podestà di Firenze. Dell' altezza dell'ingegno suo farà testimonio eterno la Divina Commedia. De' suoi costumi parlano più scrittori, ed io le cose per loro narrate ricorderò. Egli fu sino dalla sua giovinezza assiduo negli studj e dedito alla solitudine; di cantare, sonare e disegnare molto si dilettò; amò gli uomini letterati, i pittori e cantori. Ebbe tra gl'illustri amici suoi Guido Cavalcanti filosofo e poeta, Giotto restitutore della dipintura, Oderigi d'Agobbio miniatore, Casella dolcissimo cantore, Dante da Majano, Cino da Pistoja poeti, Bosone Rafaeli, Carlo Martello figliuolo di Carlo II re di Napoli, Uguccione della Faggiola famoso guerriero ed alta speranza de' ghibellini (1), gli Scaligeri, i Polentani, i Malespini, i Malatesta ed altri potenti signori. Molti nemici gli fece il parteggiare, alcuni l'invidia; e fra questi fu Cecco d'Ascoli filosofo ed autore d'incolte rime. Fu vaghissimo di gloria e d'onore, ardentissimo nel procurare il pubblico bene, e negli odj di parte animoso e pertinace; non timido amico del vero e dalla viltà si lontano che elesse di stare in perpetuo bando anzichè tornare alla patria per quelle vie che convengono agli uomini rei. Alcuni gli danno biasimo di essere stato guelfo e poi ghibellino; ma è da por mente che in sua giovinezza seguitò la parte de' suoi maggiori, in età provetta quella che onesta gli parve. Altri dicono ch' ei fosse uomo per suo sapere alquanto presuntuoso, schifo e sdegnoso. Il Petrarca racconta che, avendo Cane

(1) Il dottissimo signor Carlo Troya, amico mio, nel suo libro che ha per titolo Del veltro allegorico di Dante ha dimostrato che Uguccione della Faggiola, come colui che succedette ad Arrigo VII nel comando dell' armi de'ghibellini in Italia, fu la più grande speranza di quelli e ch' esso è l'eroe di cui parla il poeta (nel canto I dell'Inferno) sotto l'immagine del veltro nemico alla dupa e (nel Purgatorio, canto XIII) là dove dice a modo di profezia che un capitano avrebbe ucciso la meretrice seduta col gigante suo drudo nell'usurpato carro. Molte altre cose ci discoprirà nell'opera a cui ora ha posto mano. L'Italia gli avrà grande obbligo delle sue molte cure e fatiche e del suo nobile lavoro.

della Scala detto a Dante: « Io mi meraviglio che tu, essendo savio, non abbi caro questo mio giullare, amato da tutta la corte », egli rispondesse: «Non meraviglieresti, se ponessi mente che da parità di costumi e da somiglianza d'animo si generano le amicizie. » Narra similmente il Boccaccio che quando Dante fu eletto ambasciatore a papa Bonifacio, dicesse: «Se io vo, chi rimane? se rimango, chi va? » Questo detto pare a molti segno di grande superbia ma se si riguardi allo stato di quella repubblica, all'importanza del negozio di che si trattava, all' alto ingegno di chi proferiva quelle parole, si vorrà piuttosto credere ch'elle provenissero da grande animo e da grande amore verso la patria anzichè da superbia. Checchè sia di tali opinioni, certo è che in lui furono ardentissimi gli affetti, ma, per quanto è conceduto alla natura umana, rattemperati sotto l'impero della ragione. Da questi affetti, sempre riaccesi nelle discordie civili, presero qualità le sue parole e i suoi versi. Non ultima fra le passioni sue fu quella d'amore; la quale per lui prese abito sì gentile che le amorose canzoni e le prose del Convito e della Vita Nuova gli animi giovanili stogliendo dall'appetito sensuale, li accendono d'amore casto e purissimo. Il libro intitolato De monarchia, per lui composto nella passata di Arrigo VII in Italia, fu specchio di mirabile dottrina in que' dì. È diviso in tre parti. Nella prima si vuol provare che al bene degli uomini è necessaria la monarchia; nella seconda, che Roma ebbe di ragione il principato del mondo; nella terza, che l'autorità civile da Dio procede senza alcun mediatore. In cotale opera volle forse mostrare da quali ragioni fosse condotto a seguitare la parte ghibellina. Alcuni anni dopo la morte sua, essendo nata quistione dell'autorità di Lodovico duca di Baviera, creato creato re de' Romani dagli elettori di Lamagna, molti si valsero della filosofia di Dante a difesa del duca per la qual cosa il libro ebbe assai lodi e assai vituperj; e coloro che l'autorità imperatoria volevano depressa lo dannarono al fuoco; e le ossa del glorioso poeta con infamia d'Italia sarebbero state diseppellite ed arse se la virtù di Pino della Tosa alla bestialità di Bertrando del Poggetto non si opponeva. Gli odj crudeli che quest'opera generò all'autor suo dimostrano come da molti ella fosse cercata e letta a

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que'dì; ma nella luce di questo secolo si legge solamente da coloro che bramano di sapere qual fosse nel risorgimento delle lettere la scienza del pubblico diritto. Non così avviene del libro De vulgari eloquentia; perciocchè gli uomini letterati molto vi apprendono circa la natura dell' italico idioma. Scrisse ancora, durante la sua dimora nel Friuli, alcuni libri, oggi perduti, dell' istoria de' guelfi e de'ghibellini. Le prelodate opere sarebbero state sufficienti a dare gloriosa fama a Dante Alighieri; ma quella che nel mondo tra le più maravigliose dell' umano ingegno risplenderà nella lunghezza del tempo avvenire è la Divina Commedia, per la quale la poesia non solo ripigliò l'antica veste ma l'alto suo ufficio di trarre i popoli a civiltà. Erano scorsi i secoli tenebrosi in che le genti patirono infinita miseria, e cominciavano in Italia a risorgere le scienze. Pochi filosofi aveano parlato il linguaggio d'Aristotile e di Platone; pochi poeti aveano umilmente cantato d'amore, quando Dante fece sentire il suono dell' altissimo verso. Leggendo le storie, egli avea veduta ne' costumi antichi la dignità della specie umana, e nei novelli la depravazione di quella: sapeva i mali abiti generarsi dai mali ordini, e questi dall' ignoranza, essendochè agli uomini è necessaria la scienza, e i soli bruti per istinto naturale si governano: conosceva che il far risorgere la morta ragione è ufficio de' poeti, i quali con meravigliose fantasie, con accese e peregrine locuzioni aprendosi la strada alle menti vulgari, le preparano alla civiltà e le fanno amiche della sapienza. Con tale intendimento ei diede opera al suo politico e teologico poema. Nuova è in questo la materia e la forma; nuovo all' italica lingua è lo stile. Non imprese d'eroi, non amori vi si cantano; l'azione non è ivi guidata e ritardata da passioni o da casi di fortuna: mia vi si descrive un miracoloso viaggio per le regioni de' morti, nel quale il poeta che narra è il principale operante. Ne' primi due regni con lui t'aggiri per luoghi dolorosi e diversi: vedi varj costumi e varie colpe e martirj a quelle convenienti, apparizioni orrende, trasformazioni meravigliose: odi narrare casi miserabili, rampognare abbominevoli vizj, manifestare il futuro: odi accorte e pietose domande, risposte piane, sottili, cortesi, aspre, sdegnose, lamentevoli. Nel terzo visioni beatissime, soavissimi canti,

parole di sapienza e di carità. Dicesi che Dante togliesse l'idea di quest'opera dalla visione di certo frate Alberico o dal romanzo detto il Meschino. Ma che monta il cercare donde i poeti traggono la materia nuda, se ogni laude loro sta nella forma e nello stile mirabile? Chi volesse dire dello stile di questo poeta, non ne direbbe mai a sufficienza. Quanti poetarono prima di lui usarono modi da prosatori, anzichè da poeti: ma Dante, secondo l'idea de'Greci e de'Latini, fu il primo fra noi a vestire i concetti di forme veramente sensibili e a trovare locuzioni peregrine e naturali, nobili e popolari; che sapesse più che altri innalzare ed abbassare le parole e l'armonia secondo le materie diverse, e che desse l'esempio di tutti gli stili. Per lui avrai dovizia di maniere per l'epica poesia, per la didascalica; ne avrai per la tragedia, per la commedia e per la satira. Non ti offenderanno alcune oscurità, se porrai mente alle difficili cose ch'ei volle significare ed ai tempi in che visse. Questo poema andò, come l'Iliade, per tutte le nazioni, e da tutti i sapienti fu lodato a cielo. Ne' primi tempi fu commentato da Jacopo e da Pietro Alighieri figliuoli di esso Dante, dal Boccaccio, da Benvenuto da Imola e da moltissimi altri dopo di loro. L'Ariosto, il Tasso lo studiarono e l'ebbero caro fin che vissero. Il Castravilla, il Bulgarini, il Bettinelli, vituperandolo, oscurarono il nome loro. I nostri maggiori innalzarono statue al poeta, gli coniarono medaglie e vollero che la Divina Commedia a documento di buon vivere civile fosse spiegata pubblicamente. Il Boccaccio ne fu espositore in Firenze nella chiesa di s. Stefano; dopo di lui Antonio Piovano e Filippo Villani. Benvenuto da Imola per lo spazio di dieci anni la dichiarò in Bologna, Francesco di Bartolo da Buti in Pisa, Gabriello Scuaro veronese in Venezia e Filippo Regio in Piacenza. Questo lodevole esempio fu seguito anche a' nostri giorni dalle genti straniere; poichè il poema di Dante in Berlino ed in Londra (1) si legge e si commenta pubblicamente. In Italia oggi cresce nel cuore di tutti i buoni la gratitudine verso di lui che accese le prime faville della luce che si sparse dal nostro cielo sopra tutte le genti.

(1) In Berlino dal dott. G. Unden, ed in Londra da Nicolò Ugo Foscolo.

CANTO I.

ARGOMENTO

Mentre fra l'ombre d' una selva oscura
Dante smarrito in suo pensier s'attrista
E all' erto colle di salir procura,
Temer lo fa di tre fere la vista:

Ma Virgilio 'accorre e gli promette
Altro viaggio; onde speranza acquista
E per novo cammin seco si mette.

Nel mezzo del cammin di nostra vita 1

2

Mi ritrovai per una selva oscura Che la diritta via 3 era smarrita. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura Questa selva selvaggia ed aspra e forte, Che nel pensier rinnova la paura! Tanto è amara 5 che poco è più morte;

Ma, per trattar del ben ch' ï' vi trovai, Dirò dell'altre cose ch' io v'ho scorte. I' non so ben ridir com'io v'entrai;

Tant' era pien di sonno in su quel punto
Che la verace via abbandonai.

Ma po' ch'io fui al piè d'un colle3 giunto
Là ove terminava quella valle

1 Suppone il Poeta di avere avuta questa visione nell'anno MCCC, essendo egli pervenuto al trentesimo quinto dell'età sua. Il mezzo del natural corso dell'umana vita dice Dante nel Convito essere il detto anno trentesimoquinto.

9

2 Coll'immagine di questa oscura selva il P. forse rappresenta nel senso morale la miseria e la confusione nella quale era l'Italia, afllitta dal parteggiare de' guelfi e de' ghibellini, o, come pensò G. Marchetti, le miserie che il P. soffri nell'esilio.

3 Che la diritta via ecc. Che, cioè in che. Così il Petrarca p. e. son. 78:

Questa vita terrena è quasi un punto
Che il serpente tra' fiori e l'erbe giace.
(Salvator Betti.)

4 selvaggia, cioè disabitata e non coltivata: forte, folta. 5 Tanto è amara ecc. Alcuni intendono che l'epiteto amara si riferisca alla selva, altri alla dura impresa di favellare, altri all'ultimo sustantivo paura. Quest'ultima pare chiosa più ragionevole 1.o perchè dopo il tempo passato era non regge il presente è: 2.o perchè il paragonare l'amarezza della selva a quella della morte sarebbe cosa strana; ma naturale si è il paragone tra la paura e la morte.

-6 del ben ecc. Intendi dell' utilità che gli recò il socDANTE, Div. Comm.

Che m'avea di paura il cor compunto", Guardai in alto e vidi le sue spalle Vestite già de' raggi del pianeta 10 Che mena dritto altrui per ogni calle. Allor fu la paura un poco queta

Che nel lago del cor 11 m'era durata La notte ch'i' passai con tanta pieta 12. E come quei che, con lena 13 affannata Uscito fuor del pelago alla riva,

Si volge all'acqua perigliosa e guata; Così l'animo mio, che ancor fuggiva, Si volse 'ndietro a rimirar lo passo Che non lasciò 14 giammai persona viva. Poi ch' ebbi riposato 'l corpo lasso,

Ripresi via per la piaggia diserta; Si che'l piè fermo 15 sempre era 'l più basso. Ed ecco, quasi 16 al cominciar dell'erta, Una lonza leggiera 17 e presta molto Che di pel maculato era coperta. E non mi si partia dinanzi al volto, Anzi 'mpediva tanto il mio cammino Ch'io fui per ritornar più volte vôlto 18. Temp'era 19 dal principio del mattino,

corso e il consiglio di Virgilio, del quale narrerà in appresso.

7 dell' altre cose, cioè del colle, delle tre fiere ecc., come in appresso.

8 colle. Per la cima di questo colle opposto alla valle delle miserie si deve intendere, secondo il senso morale, la consolazione e la pace, la quale, vinti i guelfi, Dante sperava di vedere in Italia.

9 compunto, cioè angustiato.

10 del pianeta ecc., del sole. Sotto l'allegoria del nascere del sole intenderai i segni di consolazione e di pace che lo confortavano a sperare.

11 lago del cor, cioè la cavità del cuore, sempre abbondante di sangue.

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