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riverenza delle somme chiavi; e affermava l'impero di Roma essere stato stabilito da Dio

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Non accade fermarsi a confutare quelle tante ragioni di convenienza con le quali egli, il Foscolo, s'ingegna di dimostrare che Dante non diede fuori in vita sua del poema altro che i canti meno storici e meno iracondi; poichè non solamente le tradizioni a ciò contraddicono, ma e i fatti, e l'indole del poeta, e le sue speranze, e i suoi fini, e la natura de' tempi.

Ma dal bene studiare le allusioni storiche del poeta viene dedotta questa conseguenza, che uomo di tale ingegno, di tale esperienza, e tanto desideroso di dimostrare in piena luce, parte almeno di certe verità, oltre al dover essere onorato come poeta, dev'essere interrogato come narratore e pittore di grandi memorie; e siccome le altrui autorità servono a rischiarare i suoi versi, così i versi di lui debbon servire a confermare e conciliare le autorità degli storici antichi. In questo aspetto non è stata forse ben riguardata finora l'opera dell' Allighieri, e nessuna poesia e pure la storia da simili comparazioni trarrebbe inaspettata e amenità e moralità ed evidenza.

Speriamo che la nostra letteratura incominciando a considerare in Dante il cantore della rettitudine e della religione, l'amico della patria e del vero, il poeta storico, apprenderà, non più ad echeggiare la durezza deʼversi, o ad affettare l'ardimento di certi modi, o a ricopiare in nube le forme fantastiche della visione da lui scolpita, ma ad emularne la storica fedeltà, la libertà coraggiosa; e conoscerà finalmente essere inefficace e peggio che inutile ogni poesia che non venga dall'anima.

IL SECOLO DI DANTE

Per le terre d'Italia che ricettarono un profugo corre la gloria a baciare le sue vestigia; interroga i monumenti, le storie, le tradizioni per poter dire: Qui stette Dante Allighieri. Quest' Italia ch'egli flagellò con la feroce libertà del suo verso, lo adora. Moltiplicano i comenti, le vite, i ritratti; fervono le edizioni nelle città, ne' villaggi: sempre nuove germogliano questioni, sempre nuove bellezze sfavillano. Lo citano i dotti e gli storici, lo studiano come maestro di ben djre i prosatori e gli scienziati. Legger Dante è un dovere, rileggerlo è bisogno; sentirlo è presagio di grandezza.

Notabile che nessun secolo, dopo il decimo quarto, tale onoranza rendesse al nome di lui, quale il nostro. Dalle querimonie amorose, dall'argute gonfiezze e dall'arcadiche semplicità levarsi a così nobile esempio, pare a me licto augurio di sorti migliori.

Ho detto che primo a degnamente onorar l'Allighieri fu il secolo nel quale egli crebbe. Chi non sa del Boccaccio, che cinquant'anni dopo la morte di lui ne comenta in una chiesa di Firenze il poema, e co' propri rischiara i rimproveri di Dante innanzi a' cittadini che non temono d'ascoltarlo; il Boccaccio che la Commedia manda al Petrarca, trascritta di sua propria mano, presente degno? Chi non legge con gioia nel guelfo Villani quelle schiette parole: « Questo Dante fu onorevole antico cittadino di Firenze... fu grande letterato quasi in ogni scienza... fu sommo poeta e filosofo »?

E perchè la nazione, a que' tempi non isfiorata della sua giovane vita, sentiva

l'alito della poesia, però di poetiche forme vestiva la lode; e narrava un sogno rivelatore ch'ebbe la madre incinta di lui. E un suo discepolo raccontava poi come "l'ottavo mese dal di della morte del suo maestro, una notte Jacopo figliuolo di Dante avesse nel sonno veduto il padre vestito di candidissimi vestimenti, e d'una luce non usata risplendente nel viso, venire a lui per mostrargli dietro una stuoja al muro confitta in una finestretta da nessuno giammai più veduta » i tredici canti cercati indarno del compiuto poema.

Cotesta parmi lode invidiabile d'un poeta, quando un secolo imbevuto di poesia lo comprende e l'ammira. Ed era non solo poetico, ma veramente poeta quel secolo; al par di Dante, nutrito di franchi sdegni e di schietti amori; infaticabile, coraggioso, addolorato, credente.

Chi dubitasse de' vincoli i quali congiungono le sorti dell'uomo alle sorti d'Italia, rammenti l'anno in cui Dante nacque. Era la primavera del MCCLXV, quando Carlo d'Angiò chiamato in Italia da papa Clemente IV, e trionfalmente ricevuto entro le mura di Roma, veniva a fondare in sede omai certa le speranze de' Guelfi, a schiantare l'ancor giovane tronco dell'arbore ghibellina, ad aprire il duello che dovevasi per tanti secoli sui campi d'Italia combattere tra Francia e Alemagna. Quali benefizj apportasse l'avvenimento francese all'Italia, lo dicono i saccheggiamenti e le disonestà dei novelli liberatori, lo dicono gli eccidi e gli stupri di Benevento; lo dicono le nuove gravezze al regno di Napoli imposte per voler d'un Francese, e per consiglio scellerato d'un

Italiano; lo ripete la vostra squilla tuttavia risonante, o Vespri di sangue.

In quell'anno nasce all' Italia un ordine nuovo di cose: la causa che a Dante doveva, trentasei anni poi, costar tanto dolore e tant' ira, fin dall'anno ch'egli nacque cra vinta. I quattrocento Guelfi fiorentini che, armati di splendide armi, capitanati da Guidoguerra accorrono in aiuto di Carlo, portano un peso non leggiero sulla straniera bilancia che pesa le sorti d'Italia. Trentamila crociati scendevano per la Savoja, e trovavano alleati il Monferrato, i Torriani, il principe estense, i cittadini di Mantova; trovarono contraria Piacenza, Cremona, Pavia, Brescia, la bellicosa Brescia dal furor loro saettata, non presa. Un tradimento, se a Dante crediamo, dava ad essi il passo del Po, un tradimento il passo del Garigliano; e fin d'allora eran peste d'Italia quelle perfidie che si largo luogo dovevano tenere nell'inferno della sua ira. La fame dell'oro, tante volte da lui maledetta, anche qui cospirava alla vittoria di Carlo. E la fazione ghibellina morì nel febbraio del seguente anno sul campo, ove cadde trucidato Manfredi. E al par della sua fu lungo tempo ignorata la morte di lei; e le speranze di Dante stavano già fin d'allora sepolte sotto quel mucchio di sassi, che la pietà de' soldati levò, unico monumento al re sventurato. Tanto erano antichi i mali d'Italia, e tanto simili ad ambascia le italiane speranze, che le speranze stesse di Dante potevano in gran parte reputarsi lontane memorie: ond'è che i suoi desiderii son tinti di cruccioso dispetto, e i suoi cantici di trionfo somigliano a lamento d'esequie; e tanta parte del suo Paradiso è un ditirambo di dolore; e il metro stesso del poema è il metro della triste elegia. Nè, se così pieno di memorie non fosse, tanto poetico in lui sarebbe l'affetto; perchè tutta dalle memorie sgorga la poesia; e con le immagini del passato compongonsi, dall'anima che sogna, gl'idoli dell'avvenire.

Incomincia dunque all'Italia un tempo nuovo. Con la vittoria de'Guelfi, alle spade da taglio sottentrano gli stocchi da ferire di punta, simbolo della nuova politica, più acuta che vasta, più sottile che forte. Con la vittoria de' Guelfi, all'Italia si comunica il lusso, si austeramente condannato da Dante; la contessa Beatrice, più

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malefica del marito, porta seco il contagio de' dorati arnesi e delle vesti eleganti e delle amorose donne francesi. Con la vittoria di Carlo cominciano a farsi consuetudine le adulazioni turpi al vincitore qualunque egli sia, le bugiarde acclamazioni, gli applausi rei, le chiavi offerte in tributo dalle città prima vinte che viste. Con la vittoria di Carlo imparano i vincitori a dividersi l'oro italiano co' piedi, a trarre oro dalle lagrime, oro dalle maledizioni de' popoli.

Intanto che Carlo nel regno di Napoli trionfava, le condizioni di tutte quasi le italiane città venivano più o meno apertamente cangiando. Reggio, di ghibellina fatta guelfa, riceve i Modenesi co' Guelfi toscani; a Filippo Torriano succede Napoleone; la Marca è conquista d'un cardinale; Brescia scuote il giogo di Pelavicino tiranno, si dà a' Torriani, va incontro a Napoleone ed a' fratelli con rami d'ulivo: un Torriano è morto da' Ghibellini milanesi in Vercelli, e il sangue suo vendicato con la morte di cinquanta o figli o congiunti de' fuorusciti uccisori; e Napoleone grida: il sangue di questi innocenti cadrà sul mio capo, e sul capo de' figli miei. I Legati del Papa mettono in Lombardia più discordia che pace: i Guelfi cacciano i Ghibellini di Parma; Ghibellini e Guelfi si riconciliano in Firenze e stringono matrimonii. Pisa umiliata, per trenta mila lire si libera dall' interdetto: i Veneti s'impadroniscono dell'intera flotta genovese, e Genova un'altra sull'atto ne crea: i Ghibellini di Modena son difesi da Tedeschi, da Toscani e da Bolognesi; combattuti da Bolognesi, Toscani, Tedeschi. Vittorie insomma alternate a sconfitte, più vergognose talvolta delle sconfitte; brevi concordie, brevi trionfi, lunghi guai, tenaci odii, propositi perseveranti, fortissime volontà; esuberante la vita, in estrinseci atti sfogate e dilatantisi le potenze dell'anima: passioni non fiacche, virtù non bugiarde, misfatti non timidi. Robusti i corpi, ardenti le fantasie, svariate le usanze, giovane e maschio il linguaggio. La donna or conculcata come creatura men che umana, or venerata com' angelo, ora partecipante della virile fierezza, comunicante all' uomo le doti che la fanno divina. Vicenda a vicenda succedere com' onda ad onda; la sventura alternata alla gioia, come a brevi di lun

ghe notti; il governo de' pochi e il governo de' troppi confondersi insieme. Alti fatti di guerra, esempi degni dell'ammirazione de secoli, chiusi nel cerchio d'anguste città; grande talvolta, nella piccolezza de' mezzi, l'intenzione e lo scopo; parole ed opere che pajono formole d'un principio ideale. La religione sovente abusata, ma non si che i benefizii non ne vincano i danni: ignudi i vizii, ma non senza pudore; efferrate le crudeltà, ma non senza rimorso: memorabili le sventure, ma non senza compenso di rassegnazione o di speranze o di gloria. Le plebi occupate alle nuove arti, al traffico, al conquisto de' civili diritti; i nobili operosi spesso al bene, spessissimo al male, ma pure operosi; e dalle inquietudini dell'animo e dalle fatiche del corpo fugata l'inerzia, peste degli Stati, la noja, inferno degli animi. La religione non divisa dalla morale, nè la scienza dalla vita, nè la parola dall'opera: il sapere composto a forte unità. Le dottrine de' secoli passati abbellite di novità o per l'ignoranza delle moltitudini, o pe' nuovi usi in cui si venivano applicate, innovando. Novità ad ogni tratto nelle costituzioni, ne' costumi, ne' viaggi, nelle arti. Tale era il secolo in cui vide la luce Durante Aldighieri.

A lui fu grande maestra la pratica appunto de' civili negozii. «Niuna legazione (dice il Boccaccio) si ascoltava, a niuna si rispondeva; niuna legge si riformava, niuna pace si faceva, niuna guerra s'imprendeva... s'egli in ciò non desse prima la sua sentenza ». E quale dalla vita attiva provenga temperamento equabile alle umane facoltà, sempre intese a soverchiar l'una l'altra: quanta rettitudine di giudizii, agilità di concetti, sicurezza di modi, parsimonia d'artifizii, autorità, compostezza, i letterati moderni sel sanno, che per volere o per fortuna lontani dalla esperienza delle pubbliche cose, svampano in fiamma fumosa il calor del l'affetto; i fantasmi dell' immaginazione scambiano con la viva realità, or troppo meno or troppo più bella che ai lor occhi non paja: e parlano si che gli uomini involti nella pratica delle faccende, quelle loro artifiziose declamazioni disdegnano; le moltitudini quell'affaticato linguaggio comprendono appena. Molto dunque dove l'Allighieri all'essere vissuto cittadino non inerte di repubblica sua: dovè forse la

somma delle sue lodi, quella franca e virile severità, che già comincia nel Petrarca ad ammorbidirsi in gentilezze letterate, e nel Boccaccio è sepolta sotto le molli eleganze.

Nè gli studi dalle civili faccende, nè queste lo stolsero dagli studi: rara costanza e concordia di due in apparenza contrarii esercizii. « Per la bramosia degli amati studi non curò (dice il Boccaccio) nè caldo, nè freddo, nè vigilie, nè digiuni, nè alcun altro corporale disagio »: ed egli medesimo parla de' lunghi studi con grande amore consumati, e delle fami, de' freddi, delle vigilie sofferte, che lo dimagrarono per più anni. Queste cosc son buone a ridire. Perchè, sebbene ne' giovani italiani sia in modo fausto scemata la cupidigia delle vergognose ricchezze e de' vituperevoli onori, e s'additino con dispetto gli esempi di chi vende a speranze indegne la coscienza e la fama; pur tuttavia manca ai più l'animosa pazienza di battere le lunghissime vie che alla vera lode conducono. Le facilità molte oggidì procurate a molte opere della vita fanno altrui parere mirabilmente agevole della sapienza l'acquisto; sì che il piacere è da costoro creduto premio e corona al piacere. E veramente piene di diletti inenarrabili sono le fatiche dell' uomo che intende a conoscere e a difendere il vero; ma fatiche pur sono, e richieggono tempo e intensione d'animo e di mente, vita modesta e astinente dalle turpi inezie del mondo.

Se inimicato (dice il Boccaccio di Dante) da tanti e siffatti avversarii, egli, per forza d'ingegno e di perseveranza, riusci chiaro qual noi veggiamo; che si può sperare ch'esso fosse divenuto avendo altrettanti ajutatori?» No. Con meno avversità l'Allighieri sarebbe sorto men grande: perchè gli uomini rari alla natura debbono il germe, alla sventura l'incremento di loro grandezza. Quella vena di pietà malinconica che nel poema pare che scorra soavemente per entro alla tempera ferrea dell' anima sua, quell'evidenza che risulta dalla sincerità del profondo sentire, quella forza di spirito sempre tesa e che par sempre quasi da ignoto movente irritata ed in alto sospinta, sono in gran parte debiti alle umiliazioni e ai disagi della sua calunniata, raminga e povera vita.

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