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una scurezza che altrimenti fatta non parea (1) se non come quella che la luna dimostra la notte, andando per una oscura selva (2). Per tutto lo 'nferno non ebbero altra luce, per infino che giunsero al passo del Letéo (3).

Un piano trovarono, poi che alquanto furono andati, tanto largo e lungo che il suo estremo da niuno lato parea (4). All'entrata di questo bello piano era una porta molto larga e alta. Intorniata era d'uno grande chiostro, il quale per gli autori vestibulo si chiama. In mezzo di quello chiostro era uno grande olmo, fresco e fronzuto: da ciascuna parte, sotto ciascuna foglia di quello olmo era affisso uno somnio vano. Sotto e sopra di questo tale olmo si vedeano figure paurose, pallide e scure, e si diverse che somiglianza tra loro non aveano. Altro che guai, tristezza, e di morte dolore non presentavano. Dormire mostravano, per loro falsa vista, e debolezza da non potersi levare; mute e sorde pareano a vedere.

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Quivi Enea domandò Sibilla: Dimmi, maestra che tutto sai (5), chi sono questi spiriti i quali si dormire paiono paurosi? Rispuose Sibilla: Questi sono l'anime di quegli perduti corpi che bene ne male fecero nel mondo, ma come cattivi (6) menaro lor vita senza frutto, non conoscendo Dio, come somnio che per vaghezza passa; né di loro lasciaro alcuno buon frutto. Così costoro passarono lor vita, e di loro opere l'effetto qui si mostra. Questo presenta l'olmo sotto il quale costoro qui fanno dimora: l'olmo, frutto alcuno mai non mena, ma fa di sè altrui meriggio (7); cosi coloro altro frutto non fecero. Di quelle foglie si muovono spiriti; e quelli fanno all' umana gente, dormendo, vane sogna venire; quali gli conduce (8) poi a peccato fare.

Intorno all' olmo del quale io favello, era uno cerchio a modo d'uno grande tino (9). Questo è murato d'uno sottiletto muro, largo e grande... Dentro da questo s'udiano mutoli, sordi con imperfette voci. Chi son questi? disse allora Enea. -Quella rispuose e disse: Questi sono quegli i quali, piccioletti, a morte furono tratti dalle poppe delle care loro madri (10). Costoro per loro non sostengono pena, ma per lo peccato del primo parente: i quali se vivi battezzati furono, qui si purgano dello altrui peccato. Poi che sono purgati, passano in quello Eliso dove i beati hanno

(1) Inf., IX: Un fracasso d'un suon..... Non altrimenti fatto che d'un vento - (2) En., VI, 270. (3) Letéo ha dunque a leggere in Dante (Inf., XIV, t. 44), non Letè, com' altri vorrebbe. — (4) Inf., XXVI, t. 14: Là 've 'l fondo parea ( appariva ). · (5) Inf., VII: E quel savio gentil, che tutto seppe. (6) Inf., III: La setta de' cattivi... sciaurati che mai non fur vivi. — (7) Ombra. (8) In questo codice si ha spesso il singolare per il plurale come qui conduce per conducono. (9) In alcuni codici dopo tino nel periodo seguente è soggiunto: lo quale si chiama limbo. · (10) Inf., IV; Æn., VI, 426.

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loro riposo. Se carestia ebbono del battesimo (4), la pena e colpa è pure di coloro per cui difetto non furono lavati; ma non però che di qui si mutino per fino che il Creatore non li sovvene.

Or sono entrati Enea e Sibilla insieme nella porta infernale. Dentro di questa porta, prima trovarono quello nobile giro, il quale per la gente Purgatorio si chiama. Pianti e lamenti s'odono in quello luogo: ma maraviglia è pure quello che ivi si vede; che poi che hanno fatto loro pianto, levano a cielo le mani, e quasi ridendo, paiono obliare quelli dolori che hanno sostenuti. - Che maraviglia è questa? disse Enea. Ridendo la Sibilla gli rispuose: - Questi sono quegli che si guardarono di offendere a Dio, sovrano creatore. E di quegli peccati che pure commisono, pene ne sostengono, solo per purgarsi; ma non che eterno (2) qui rimanghino, però che aspettano la fine de' dolori dopo quella purgagione, e andare a corteggiare (3) col loro Redentore. Però è loro leggiere a sostenere qui tal pena, aspettando il bene che debbono avere; e però s'allegrano e levano le mani a cielo, o sperano quello grande bene. Beati coloro che qui sono degni di vivere! ma pochi credo che sieno quelli che meritano d'entrare in quello luogo.

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Oltre passando, trovarono una strada molto piana senza alcuno stroppio: e bene che il Tartaro da ciascuno lato sia pauroso e pieno di sospetto (4) per le figure de' maligni spiriti li quali appare tra l'anime infernali; pure su per quella strada alcuno andava, ma non si vedea. Per questa strada passano gli spiriti i quali sono purgati di loro peccati nel Purgatorio ch'io già dissi.

Dal destro e dal sinistro lato di quella via sono chiostri tra loro partiti. Tre ne vidi stare da ciascuno lato. Nel primo sono li malvagi avari i quali simonia fecero con usura; i poveri non videro per loro povertade; ma il ricco visitó per la sua ricchezza, e non per fare caritade con lui ma per sottrargli del suo avere. Vivere si credettero d'ogni tempo; ma quando in maggiore felicità esser si credea, allora il flagello di Dio il percosse, e fagli il mondo abbandonare. Notte e giorno quegli maligni spiriti a costoro piombo, ferro giù per la gola non finano mai di stillare; e sopra capo gli dice ciascuno: Oro nell' altro mondo volesti: ma qui piombo e ferro, vostro pasto fia (5).

(4) Par., V: Avresti di più saverc angosciosa carizia. Purg., XXII, t. 47: Di questo cibo avrete caro.— — (2) Leggeremo dunque in Dante (Inf., III, t. 5): Ed io eterno duro; non eterna. — (3) Corte il Paradiso in Dante, nei Canti XVI, XXV, e altrove. (4) Sospetto per paura è in Dante più volte. (5) Inf., I: Non ciberà terra nè peltro. Purg., XII: Sangue sitisti, ed io di sangue l'empio. E di Crasso (Purg., XX): Dicci, che 'l sai, di che sapore è l'oro. Vedi anche i Canti XIX e XX del Purgatorio pena degli avari.

» Nel secondo giro de' quali io dissi, stanno i lussuriosi, dolorosi e tristi. Di loro esce una orribile puzza, tanto laida e spurca da vedere che corrompe il sito d'ogni lato, e l'occhio turba che sta per vedere. Fuoco cocente gli arde d'ogni parte (1): e poi che sono cotti, coloro gli gettano nell'acqua fredda i quali, poichè sono in quell'acqua, friggono più che pesci in padella. Quivi raddoppiano poi le loro grandi pene; perocchè di quella acqua sono tratti e rimessi nel fuoco: e così or nell'acqua or pel fuoco mai non restano di loro tribulare in quello modo.

Nel terzo giro stanno coloro che d'ira e d'ancisma (2) superba, loro e altrui stimularono nel mondo; udire non vollero temperato dire d'alcuno savio uomo; sempre d'ira lor battea il petto, concependo di fare ogni male; delle cose il vero mai cernere (3) poteano, ma con furore tutte le faceano. In questo giro ov' egli dimorano, d'ogni tempo trae si grande vento, ch'appiccare si convengono al fuoco di ferri ardenti i quali coloro (4) lor mostrano. In altra guisa (5), quello vento gli mena tra rovi e pungenti spine, le quali sono tanto agute e forti che i loro membri tutti stracciano. Poi pure ritorna a quello luogo onde prima levato l'avea, e s'egli non si tenea a quegli ferri ardenti, ancora convenía che per quegli venti rifornisse quello cammino: e mai non finano di fare tale rimesta. E quando a quegli ferri appiccare si vuole, la pena delle spine non gli offende. Ma la caldezza di questi è tanta che dalle palme delle mani con che gli strigne, infino al cuore passa quello caldo: i quali se vivessero, morire gli farebbe. Ed è assai maggiore la pena che quegli spiriti sentono in quello luogo, che non sarebbe al corpo nel mondo.

Nel quarto luogo stanno gli golosi, i quali per diletto vivettero, mangiando per soddisfare più all'appetito che a quello che bastare dovea per notricare sua vita: lor corpo vuoto non vollero mai tenere; ma, come il porco, ruminando andavano. A costoro sono poste le mense innanzi, di molti cibi bene fornite. Questi, affamati stanno come lupi; di brama par che muoino; di fame le mani stendono (6) per volere pigliare di quegli

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cibi, siccome già furono usati. Coloro (1) con forti ferri percoteano loro le mani. La Gorgona che tutto divora costoro tranghiottisce (2), e fanne grandi bocconi; e poi per lo sesso gli caccia fuori. E le ceraste si volgono loro intorno, e sempre gli pungono co' loro forti artigli (3): insino all'osso pare che gli metta l'unghia. Se sangue avesse, del più secreto luogo uscire lo converrebbe. Questa pena mai a loro non fina. D'ora in ora mutano lor forma: or paiono porci, or lupi, or draghi per divorare parati (4). Mutoli guai (5) traggono sempre stridendo. E d'ora in ora si fa loro tal giuoco. Misericordia non vale loro chiamare, chè degni di quella non sono.

Nel quinto giro stanno gl'invidiosi, e con oscuro sguardo (6) guatano l'uno l'altro. Di corpo esce loro uno nero serpente il quale si rivolge loro intorno, insino alla bocca: quivi morde loro gli occhi, e poi la lingua (7) e poi ritorna al cuore, e quello gli passa col forte aguglio: oltre in parte tutto lo perfora. Tali sono le strida che costoro mettono', che tutto il regno di Plutone risuona. Questa pena mai non scema nè arà fine, però che a nullo son terminate le pene che Dio a ciascuno divisa.

Nel sesto giro stanno gli accidiosi, pallidi, scuri, e tutti dormigliosi. Quivi quegli ministri sopra gli tormenti (8) con gli forconi gli pungono, perchè di quello dormire si sveglino. Quegli volgono, e sottosopra caggiono; tanto pare che dormino sicuri, che della pena non pare che si curino. Ma qui stanno spiriti fatti a modo d' avoltoi, e in sul petto di quelli stanno fermi e assisi, e con le artiglie gli stringono si forte che non hanno possa di potere fiatare, e col forte becco rompono loro il petto, e infino al polmone gli forano, e qui si pascono a tutto loro volere (9). Questa pena sempre cresce, e d'ora in ora si rinfresca.

» Essendo passato Enea con Sibilla da quegli giri de' quali ho detto, trovarono uno fiume d'acqua nera e buia. Su per la ripa di quello oscuro fiume stanno spiriti di molte maniere, stretti e fermi come fanno gli uccelli per le paludi, per tempo vernale; e ciascuno grida: Guai, guai! Per quello fiume venire viddero una grande nave non di legno ma di vimine tessuta come uno canestro

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(1) Ha giurato di non voler nominare i demoni. (2) Simile al Cerbero del VI dell' Inferno. (3) Il nostro autore imagina le ceraste non come serpi ma come mostri infernali. (4) Simile trasformazione fa Dante soffrire ai ladri: vedi Inf., XXIV e XXV. (5) Grida senza favella, come mutolo. · (6) Dante (Purg., XXIV, t. 9): Atto bruno.-(7) Anche di questo vedi il XXV dell'Inferno; e della pena dell' invidia i Canti XIII, XIV del Purgatorio. - (8) Inf., XXII: L'alta Provvidenza, che lor volle Porre ministri della fossa quinta. Per non nominare diavoli, li chiama ministri. (9) Quest' è la pena di Tizio in Virgilio.

da portare le poma, il quale non ritiene l'acqua quando piove: così questa nave qual io dico, acqua né liquore non tenea. Questa nave guidava Carone (1): più è nero e scuro a vedere che la morte quando più molesta (2). Quegli spiriti, che in su quella ripa fanno dimora, à Carone tutte stendono le mani, e mercè chiamano ch'oltre quello fiume gli deggia passare. Quegli ne toglie alcuna e l'altre lascia; e quando ha quegli che gli pare e quello dall'altra parte gli porta.

-Chi sono questi, disse allora Enea, che tanto desiano l'altra ripa? · Sibilla rispuose: Questi sono gli giusti spiriti, i quali aspettano d'andare al Paradiso al disiato riposo: ma ancora non è il tempo,. però che, perfettamente, nel Purgatorio non furono bene purgati. Dov' egli sono aguale, non gran pena sostengono; e assai minore la sosterranno dal lato di là: però desiderano di fare tale trapasso. Questi peccarono mentre furono in vita, ma molto bene fecero loro penitenza però merito tosto sperano d'avere (3). la quattro modi si purgano gli spiriti. Alcuni in fuoco; e questi sono che più peccarono. Alcuni afflitti in terra dimorano; e questi meno che quegli peccarono. Certi in acqua; e questi meno che quegli. Alcuni in aiere; e costoro via meno, e minore pena sostengono. E questi, che tu vedi stare in su questa ripa, sono tutti di quegli che, purgati, vogliono qui passare; però che loro purgagione si compie di là dove per alcuna ora dimorare convengono. E poi faranno quello passo onde gli Angioli gli conducono a vita eterna, dove è il loro buono riposo.

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Detto questo, ella chiamò Carone: Fatti in qua, o spirito benigno che meni quella nave che l'acqua non tiene. Caron gli guata con una oscura cera, e disse: Chi siete voi corpora viventi che per questo luogo andate si sicuri? Qui sanza corpi ci passano gli spiriti. Se in questa sutile nave entrate (4) tosto mergerete al fondo di questo profondo fiume. Non avere pensiero, disse la Sibilla: volta qua cotesta nave. Conceduto c'è di potere passare a quello beato Eliso al quale passano coloro che tu di là varchi. Quello è il nostro ritto cammino. Quegli con irata faccia quello passo gli negava: allora la Sibilla disse a Enea: Mostragli quello ramo quale sotto il mantello rechi. Vedendo Caron lo ramo il quale altre volte già veduto avea, tosto in quella nave gli ricolse, e dall'altro lato scarico quello peso. Qui ti guarda, disse la Sibilla, o Enea: qui ti vaglia la tua spada.

(1) Carone anco nel Boccaccio (Com. Ed. Moutier, pag. 15). (2) Questa voce nel trecento ha senso gravissimo. Vedi it Canto XXVIII dell'Inferno. - (3) Inf., XXXI, t. 31: Ond' egli ha cotal merto (ricompensa). (4) Sutilis dice Virgilio ( Æn., VI, 444).

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Caron disse: Bene dice il vero, però che al grande Tartaro v'approssimate. Quivi sono più focosi gli spiriti, e a nuocere più accesi. —

» Ora vanno insieme li due compagni: intorno loro volano spiriti paurosi. Enea s' arrosta con sua spada in mano (1); ma poco gli varrebbe se non fossero (2) le sacre parole le quali Sibilla dicea a coloro. E nondimeno spesso faceva mostrare il ramo usato, il quale si tosto che era visto da quegli maligni spiriti, passavano sicuri e sanza lesione.

» Giunti sono Enea e Sibilla nel tribulato luogo pieno di pene. Dal lato destro di quella grande via erano paludi d'acqua puzzolente: più erano calde che nel mondo il cocente fuoco. Questo è quel luogo che Flegeton si chiama (3), nel quale dimorano gli falsi bugiardi, i quali portavano menzogna dall'uno all'altro per commettere male (4): per la qual cosa assai ne furo in briga e in guerra, di che molto male ne nacque. Quivi Tesifone loro signoreggia, e a' suoi ministri gli fa rivolgere sottosopra cogli grandi forconi. Come cuochi per cuocere la lor carne nella grande caldaia (5), così costoro non finano di voltargli con quegli forconi. Le lingue di costoro sono si legate con li forti ami (6) e con corde, che guai non traggono se non come mutoli che bene non si possono udire: però loro pena dentro si ritengono. Per la qual cosa assai più gli tormenta che non farebbe potendosi alquanto sfogare.

» Dal lato sinistro di quella grande via era un'altra palude nera e scura, la cui acqua è molto più gelata che non è il ghiaccio quando è più compreso. Questa è quella che Stige si chiama (7): qui dimorano gli ghiotti e briachi, goditori dell'altrui fatica, i quali per loro agio i poveri dimenticavano; solo di loro corpo e di prendere diletto aveano cura. Fatica né labore mai durare non vollero se non in rubare i poveri cattivegli che di loro fatiche sustentavano loro vita: e fra gli altri si voleano trarre innanzi; e meglio essere forniti dell'altrui acquisto. Costoro stanno attuffati nella fredda acqua insino alla bocca: sete hanno smisurata, bere conviene loro quella fredda acqua la quale gli agghiaccia si 'l cuore, che s'el vivesse, morire gli converrebbe. Ancora qui le fiere ceraste a costoro sono intorno, molto ferventi, i capegli delle quali sono serpenti (8): di capo se gli

(1) Questo passo ci dà l'interpretazione dell'arrostarsi nel XV dell' Inferno (terz. 13). · (2) Fosse per fosse stato: in simil modo usa Dante nel XXIV dell' Inferno. - — (3) Inf., XIV. — (4) Questi Dante punisce nel Canto XXVIII dell'Inferno.-(5) Similitudine che è nel XXI dell' Inferno nella bolgia de' barattieri. — (6) Preso forse dal Davidico: In camo et fræno maxillas eorum constringe (Psal. XXXI, 9). — (7) Dante nello Stige colloca gl' iracondi (Inf., VII, VIII e IX). — (8) Inf., IX.

cavano, e addosso a coloro gli gettano i quali d'ogni lato s'appiccano loro addosso: de' cui morsi poco paiono curare; tante sono l'altre acerbe pene. Ma quello fanno (1) solo per sapere se tanto sono stimolati che di quelle non curino: e per questo sono certe di loro grandi martiri. Le quali sono contente, poichè questo veggiono.

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. Passando oltre, giunsero al triboloso giro il quale nel mezzo d'Acheronte è posto: non che approssimare a quello si possa, ma dalla lungi stanno per vedere. Quivi è il castello della grande fortezza, cerchiato dintorno d'uno corrente fiume (2), quale pare correre più snello e forte che se fosse una saetta uscita dal forte arco. Una tal fromba s'ode del fuoco di quello luogo, che l'altre voci tutte fanno chetare. In mezzo di quello castello é una grande torre tutta murata d'andanico fine (3); molto alta la sua cima insino all'aere. Per mezzo di quella viene l'ira di Dio in coloro che in quella sono rinchiusi. Di fuori s'ode tale rumore di busse e di percosse di catene, che tutto fanno tremare quello luogo intorno.

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Quivi Enea sbigottito disse:-Dimmi, maestra, quale luogo è questo ove tante maraviglie si veggono e odono? La Sibilla rispuose e disse: Questo è il settimo giro del Tartaro maggiore, che l'abisso si chiama, ove tormentati sono gli maggiori peccatori, i quali per loro superbia vollero pareggiare il loro Creatore (4). Quivi sta Minos con la sua grand'urna (5), disamina i loro peccati; chi tosto non li dice il vero, con agre parole lo fa confessare. In queste non vanno i minori nė i mezzani peccatori: ma solamente quegli infortunati che per niente ebbero il loro Signore, e che a lui pareggiare si credenno. De' primi che qui cominciarono a entrare, fu Nembrot (6) con gli suoi seguaci e dopo lui ce ne entrarono tanti che, se corpora mondane avessero, non caperebbero in cento così fatti giri. Ma oggi e sempre che 'l mondo durerà, non cesserà quello orribile peccato da Dio maladetto, per lo quale mai non fina, che questo luogo ogni di si rinnuova di loro anime infelici. Questi che qui sono, gli uomini del mondo si sommisero non per difesa nè per aiuto di loro, ma solo per tenergli in servitudine, e sugare loro il sangue di tutte le vene. E quegli che parte fecero di quello donde esser ne doveano strani, mettendo il mondo in si fatto squarto che tra gli uomini carità nè amistà che da natura procede (7), non vale. Tra questi vanno gli traditori nascosti, i quali per fare gli tiranni signori, i loro vicini hanno consumati; ma poi conosciuti per assassini

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da coloro la cui tirannia favoreggiata aveano solo per di quella parte avere, furono da quegli morti e consumati (1). E quegli che nelle loro aringhe mostravano di consigliare il meglio del loro Comune mostrando false ragioni, e, per sé ovvero per suo amico, fanno e disfanno le leggi e' statuti, e mostrano di voler fare il meglio, qual é tutto il peggio della comune gente. Quivi sono gli felli incappucciati (2) che la loro falsità coprirono cogl'ingannevoli mantelli; e gli avvocati e gli procuratori, i quali con parole fecero del falso vero parere; consumando gli poveri oppressi, i quali non hanno da dargli moneta. E brievemente, di tutti conchiudendo, qui sono tutti quegli che in loro mala vita, d'altro diletto e d'altra vivanda pascere non si vollero che di saligia (3), che gli parve tanto dolce e ghiotta che d'altri cibi assaporare non vollero. Ma qui loro pare tanto orrida e amara, che l'amarissimo fiele è miele a rispetto di quello. Intorno a quello grande castello volano spiriti folti e spessi come le vespe intorno a' loro covili. E all' entrare fanno si grande pressa che fra loro medesimi l'uno l'altro maga. gna tanto, per la voglia ch' hanno di sugare e' sangui, rompere le ossa e consumare la carne e le midolle di coloro che di saligia fecero tali boeconi. Dentro da quello castello siede Cerbero vicario di Dite, e mariscalco del falso Plutone (4). Questi flagella quegli maligni spiriti, i quali per lassezza lasciano di flagellare e dare pene a coloro i quali affamati giacciono. Quivi ancora sono ceraste paurose, delle quali a divisare la laida fazzone (5) non basterebbe maestro nè pintore (6), në poetico detto, nè Tullio Cicerone col suo bello parlare. Serpenti sono gli loro capegli; le loro mani sono pugnenti artiglie, che innanzi che tocchino, squartano ciò che appostano. E con gli piedi corrono di leggieri che di sommo ad imo di quello grande castello in uno battere d'occhio compiono loro viaggio. Quivi è Megera e la Gorgona (7). Megera tutte quelle anime raccoglie e in bocca di Gorgona tutte le rivolge; le quali tutte intere le divora, e poi per lo sesso di fuori le caccia. Qui Megera presto le ricoglie, e a Gorgona in gola le rimette; e di fornire questo grande travaglio giam. mai non restano le loro forti braccia.

)- Chi sono questi, disse allora Enea, i quali per Megera e per Gorgona qui sono tanto rivolti? Questi sono, disse la Sibilla, gli ostinati cristiani

(1) Consunto per ucciso, nel Canto XXXIV dell'Inferno. - (2) Inf., XXIII. — (3) Francese salete. La Crusca ha salavo e salavoso per sudicio. — (4) Non parrà dunque tanto strana la frase di Dante, che gran maiescalchi del mondo chiama Virgilio e Stazio (Purg., XXIV, t. 33). — (5) Fattezze. N'è un esempio in Brunetto. Quest' altro dimostra che si diceva anche in prosa. —(6) Purg., XII, Qual di pennel fu maestro o di stile Che ritraesse... (7) Inf., IX.

i quali maledetti in loro vita non finirono mai di peccare, né i loro peccati confessare vollero, ma sempre rinnovavano il loro mal fare e di male in peggio ogni di veniano. Così per somigliante le loro pene qui giammai non finano; anzi, come in loro mal fare sempre s'avanzavano, così sempre le loro pene crescono. E come sempre di bruttura volti nel mondo furono, così sempre, a simiglianza del porco, perpetuo si volge in tanta laidezza.

. E poi ch'ebbe così detto la Sibilla, disse a Enea: - Assai abbiamo veduto del castello le grandi pene e' dolorosi guai (1). Che s'io avessi la lingua di ferro e la lena del fervente (2) Borea quando più forte fiata, e la forza del potente Sansone, e di Salomone lo perfetto senno, non basterebbe a volere divisare le svariate pene di questo luogo. E però questo del tutto lasciamo stare, e prendiamo l'altro bello cammino, il quale ci conduce al divisato luogo per lo quale noi siamo qui venuti.

. Giunti sono a una grande grotta onde sí passa per volere andare a quello chiaro Eliso, ove trovare si fida la risposta di quello grande affare, per la quale cosa qui condotti s'erano. All'entrata di quella grande grotta giacea steso uno grande serpente, il quale, quando vide costoro venire si soli, presto si levò, e aperse la smisurata e divoratrice gola, che a uno boccone divorati gli arebbe (3). Quivi Enea con sua spada in mano arrostare si credea che non gli corresse addosso. Lascia stare, disse la Sibilla: che qui non vale né spada, nè ramo. E allora di sua pera (4) trasse una grande offa di pece e di vischio insieme confetta; e quella grande palla in bocca gli gittò. Quegli strinse la bocca; e, quella masticando, rivolto in terra cadere gli convenne, e per la virtù di quella confetta pece steso in terra cadde addormentato.

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Oltrepassarono sanza alcuno stroppio: e giunti sono presso a uno grande lago. Quivi guatando videro uno bello colle in mezzo di quello lago; in sul quale erano molte torri grandi e alte smisuratamente, intorniato d'uno forte muro. Intorno a quello colle erano molte grotte le quali pareano fucine di fabbri. Dentro s'udia lo grande martellare che tutto quello colle tremare facea. - Dio! chi sono questi, disse allora Enea, che intorno al colle tale rumore fanno ? La Sibilla rispuose: - Questa è la rocca del fello Plutone: questo si chiama il grande Dio infernale. Qui per lui, quegli maligni spiriti li quali sono ministri delle pene dure, e tra quegli altri che nel mondo vengono per fare peccare l'umana gente, si partono gli uffici in diversi modi. Quegli che non forni

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· (2) Fervere in latino dinola ogni - (3) Inf., VI. —(4) Era auco della

scono il loro affare, sono per gli altri messi in quelle grotte, od in quegli fuochi stanno per grand'ora poi sono posti in sull'ancudine, e gli altri gli sono intorno con i duri martelli, forte battendogli come fossero ferro: poi gli cacciano fuori, e ritornare gli fa a' primi loro mestieri compiere. Cosi Plutone gastiga la sua famiglia; ed egli medesimo da quegli suoi ministri riceve disciplina quando falla nella sua signoria che gli è data, non facendo quello che lui si conviene. Così Dominedio onnipotente, de' suoi nemici prende tale vendetta, che con gli nemici insieme punisce i suoi nemici e l'uno e l'altro sempre consuma e arde; nè mai riposo qui hanno tra loro. Tutto il contradio hanno in paradiso quegli che sono degni di fare tale passaggio. L'uno l'altro sempre aiuta e conforta il bene che sentono, partecipano insieme (1).

» Essendo giunti Enea con Sibilla presso al lago del qual io favello, volendo passare, trovarono uno grande ponte molto lungo, il quale era sopra quello lago. Oltre passando, una compagnia di spiriti maligni qui innanzi gli apparve con martelli in mano, gnudi, laidi, e orridi a vedere. Con irate faccie cominciarono a dire: Chi siete voi che tale cammino tenete! Questo è il vano regno sanza corpi vivi: solo spiriti fanno quivi lor passo. Presi e sostenuti, vi conviene ir innanzi a Plutone che per voi qui manda. — Tosto gli rispuose la Sibilla: - Corpora abbiamo con gli spiriti misti: passare dobbiamo sanza contraddetto: conceduto c'è da quegli che tutto possono (2). Noi non siamo d'alcuno reo sospetto (3); passare vogliamo nel beato Eliso. - E disse a Enea che mostrasse quello sacro ramo, e che quivi a coloro lo lasciasse stare, però che più mestiero non gli facea. Si tosto come coloro videro tale broletta (4), lasciarongli andare a loro volere.

» Passati sono nel capo del ponte oltre la ripa di quello largo lago; uno alto colle qui hanno trovato (5). Essendo giunti nel sommo di quello quivi prima la chiara luce apparve loro si bella che neente è il lume del sole a rispetto di quella chiarezza che luce nel piano di là da quello colle. Scesi sono già in quella pianura: un fiume trovarono di tanta chiarezza che non è cristallo nė splendore di stella che a quello s'assomigli. Che fiume è questo? disse allora Enea. sto è il fiume il quale per gli autori si chiama Letéo della cui acqua chi bere n'è degno, dimenticare gli fa quello che nel mondo seppe (6): e sua prima forma qui si muta. Bere non può Enea

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Que

(3) Forse

Reo per reità in Dante (Inf., IV, t. 14; Purg., VII, t. 3). — (4) Forse da brolo per ramo. Purg., XXIX: Di gigli D'intorno al capo non facevan brolo. (5) Purg., 1. — (6) Purg., XXXIII

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