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43. Fiorenza mia, ben puoi esser contenta Di questa disgression che non ti tocca, Mercè del popol tuo che si argomenta! 44. Molti han giustizia in cor; ma tardi scocca, Per non venir senza consiglio all' arco; Ma 'l popol tuo l'ha in sommo della bocca. 45. Molti rifiutan lo comune incarco;

Ma'l popol tuo sollecito risponde Senza chiamare, e grida: « I' mi sobbarco. » 46. Or ti fa lieta, chè tu hai ben onde:

Tu ricca, tu con pace, tu con senno:
S'io dico ver, l'effetto nol nasconde.

43. (L) Si bene.

(SL) Tuo. Molti Fiorentini scrissero contro Firenze; e il Boccaccio le rimprovera i suoi peccati. 44. (L) ARCO: parola ed opra. - SOMMO DELLA BOCCA, non altrove.

(SL) Scocca. Psal. CXIX, 3, 4: Quid apponatur tibi ad linguam dolosam? Sagittæ potentis acutœ.

(F) BOCCA. Eccli., IV, 34: Non volere essere avventato nella lingua, e rimesso e inutile nelle opere. 45. (L) SENZA CHIAMARE: senza esser chiamato. SOBBARCO: entro a sostenerlo.

(SL) SOBBARCO. Da Bopos, peso.

46. (SL) EFFETTO. Giambul. Come non molto dopo mostrò lo effetto.

47. Atene e Lacedemona, che fenno

L'antiche leggi, e furon si civili, Fecero al viver bene un picciol cenno 48. Verso di te, che fai tanto sottili

Provvedimenti, ch'a mezzo novembre Non giunge quel che tu d'ottobre fili. 49. Quante volte, del tempo che rimembre, Legge, moneta e uficii e costume Hai tu mutato, e rinnovato membre! 50. E, se ben ti ricorda e vedi lume,

Vedrai te simigliante a quella 'nferma Che non può trovar posa in su le piume, 51. Ma con dar vôlta suo dolore scherma.

47. (L) FENNO: fecero.

48. (L) VERSO: a paragone.

49 (SL) MEMBRE! L'usa in prosa Guidotto da Bologna. 50. (SL) LUME. Tobia, V, 12: Et lumen cœli non video. Iddio m' ha giudicato e non veggio lume. Vive in Toscana. ['NNFERMA. Questa similitudine è tolta dallo Schmit nel primo capo della sua Legislazione universale: Ceu lectum peragrat membris languentibus æger, In latus alterne lævum dextrumque recumbens: Nec juvat: inde oculos tollit resupinus in altum: Nusquam inventa quies; semper quæsita: quod illi Primum in deliciis fuerat, mox torquet et angit; Nec morbum sanal, nec fallit tædia morbi. Polignac, Anti-Lucret., I, 1047.] TROVAR. Jer. Thr. I, 5: Nec invenit requiem. 51. (L) SCHERMA: schermisce, crede ingannare.

(SL) DAR. Bocc.: Dar tali volte per lo letto. En., III: Fessum... mutet latus.

Beatrice - Sordello.

Il Canto incomincia dal gioco de' dadi che piglia ben tre terzine, e passando per l'anima d'un assassino, Ghin di Tacco, e d'una duchessa di Brabante, sale sul monte alla luce di Beatrice, e quindi scende all'Italia, e finisce contro Firenze con una delle solite ironie pietosamente feroci. In mezzo al calore del resto, giunge più penetrante la freddezza del cenno alla donna di Brabante che ammendi il suo misfatto Si che però non sia di peggior greggia: e più quindi risalta l'imagine di Quella... che lume fia tra 'l vero e lo 'ntelletto. Omnis manifestatio fit per lumen (1). E Aristotele stesso: Cosa astratta dalla materia non può da alcuna scienza naturale essere contemplata (2). E però la questione dell'efficacia della preghiera, in quanto ne pare mutato il consiglio divino, Virgilio la serba da risolvere a Beatrice, che nelle Rime è chiamata nobile intelletto; e nel Convito, Sapienza felicissima e suprema (3): ed ivi stesso

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di lei: Negli occhi di quella donna, cioè nelle sue dimostrazioni, dimora la verità; queste parole rammentano quelle di Cicerone, le quali Dante poteva leggere e in Cicerone e in più autori al tempo suo conosciuti: Vedi la forma stessa è quasi la faccia dell'onestà, che, se con gli occhi fosse veduta, maravigliosi amori, come dice Platone, ecciterebbe verso la sapienza (1).

Il desiderio che Dante dimostra di tosto salire alla visione di Beatrice richiama al pensiero le parole d'Enca alla Sibilla: Ire ad conspectum cari genitoris et ora Contingat: doceas iter, et sacra ostia pandas. Illum ego per flammas et mille sequentia tela Eripui his humeris, medioque ex hoste recepi: Ille meum comitalus iter, maria omnia mecum, Atque omnes pelagique minas cœlique ferebat Invalidus, vires ultra sortemque senectæ. Quin, ut le supplex peterem, et tua limina adirem, Idem orans mandata dabat. Natique patrisque, Alma, precor, miserere... (2). Le quali parole pie rammentano e quelle con che si conchiude il terzo

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libro, ove Enea piange la morte di Anchise, e il principio del quinto, e ivi stesso la visione del padre che gli consiglia venire a' suoi colloquii nell'Eliso. Siffatte preparazioni nel poema virgiliano ebbe in mira e seguì nel suo l'Allighieri; se non che ad Enea è guida sola la Sibilla e per il mondo dolente e per le sedi beate; a Dante per le due regioni dell'immortalità, Virgilio, poi lassù, Beatrice. Che se la pietà di padre e di figlio è nel poema latino cosa più santa dell'amore di donna, nell'italiano questa donna elevata sopra tutte le cose mortali e tutte le umane idee, fatte imagine della eterna contemplazione, e la gloria che in lei si riflette è tanto più alta della gloria di Enea quanto Roma cristiana di Roma pagana, anzi l'universo tutto di Roma, e quanto de' carmi sibillini la parola di Gesù e di Giovanni.

Ma perchè in tanta altezza, a quanta non s'era mai levato poeta, non si poteva costantemente tenere l'imitatore di Virgilio, l'uomo di parte, infoscato l'anima spesso o da odii crudeli o da dolori superbi o da non degni amori; le contraddizioni al poema non mancano; e contraddizioni sono, chi ben riguarda, anco certe malaugurate conformità. Per esempio, in questo Canto accennasi in due luoghi al passo di Geremia, laddove dell'Italia donna di provincie, e di Roma che piagne vedova, sola: ma lasciando stare che questa Roma è detta cosa d'Arrigo di Lucemburgo, e ch' ella piange perché questo Arrigo non la accompagni; in una lettera latina, parlando, forse simbolicamente, della morte di Beatrice, citansi i treni medesimi del profeta Geremia. E così i treni paiono l'anello che lega in questo Canto Sordello il poeta iracondo, l'amante e rapitore della sorella d'Ezzelino, con la pura e mansueta e umile Beatrice. Se non che quelle che ai più paiono contraddizioni negl'ingegni e nelle anime singolari, talvolta sono semplici contrapposti, originati dalla potenza e dal bisogno di comparare più o meno felicemente le idee disparate, e di più o meno legittimamente congiungerle. Di contrapposti si compiace e la natura morale e la corporea, e la scienza e l'arte; dacchè chi non vede le differenze, non vede nè anco le conformità; e chi non sa da lontano chiamare a sè e imperiosamente stringere le idee sparse e vaganti, non otterrà altro mai che triviali e impotenti consonanze d'affetti e d'idee. In questo Canto veggiamo da una similitudine famigliare il Poeta passare ad accenni storici che pigliano Toscana e Romagna e Brabante; poi da una sentenza di Virgilio, a proposito di Palinuro piloto, salire a una delle più ardue questioni che agitino ed acquetino lo spirito umano; e, dopo un'aspirazione d'amore tra terreno e celeste a Beatrice, venire la dipintura viva e vera d'un cittadino poeta; e l'amore della verità essere via all'amore di patria, e l'amore far più acuto lo sde

gno, e lo sdegno più pungente il dolore, e il dolore il sorriso più amaro; e da una vincita al gioco, il pensiero attraverso a memorie d'omicidio e di lagrime, attraverso al monte del Purgatorio e all'Italia e alla Germania, cadere sopra un letto ove giace una inferma che non conosce il suo male, E con dar vólta suo dolore scherma.

Sordello del Mantovano, d'un castello ch' ha nome Goito; gentil cattano: fu avvinente omo della persona, e grande amatore. Ma molto egli fu scaltro e falso verso le donne e verso i baroni da cui elli stava. E s'intese in madonna Cunizza sorore di ser Eccelino e de ser Alberico da Romano ch'era mogliera del conte de S. Bonifazio. E per volontate de Ser Eccelino elli involò madonna Cunizza, e menolla via (1). Altri narra il fatto altrimenti. Ma fu certamente valoroso poeta provenzale; e rime di lui conservansi nel Codice Vaticano. La sua canzone in morte di Blacasso, vigorosa poesia, scritta nel 1180, fu stampata da Giulio Perticari, ed è canzone politica al modo di certe invettive di Dante. Molte favole di lui si raccontano: le più certe notizie di lui trasse da' suoi versi Claudio Fauriel, dotto delle cose italiane, siccome di patrie. Benvenuto lo dice nobilis et prudens miles et curialis; altri lo dice eccellente in politica (2).

Siccome nell' Eliso Orfeo, tra guerrieri, canta al suono della cetera e Museo in mezzo alle ombre riverito passeggia, e all'altre sovrasta del capo e degli omeri, e si fa guida ad Enea ed alla Sibilla; similmente qui Sordello poeta, anima altera e disdegnosa, come anima superba è chiamata ambiguamente in Virgilio quella di Bruto. Ella non ci diceva alcuna cosa, è verso d'antica semplicità, a cui rispondono le famigliari parole del Sacchetti: Non ardiva quasi dirne alcuna cosa (3). Ma quello che vien poi, ricorda l'apparizione dell'ombra d'Ettore nella notte suprema della patria, che al concittadino con lunghi lamenti interrogante: Ille nihil (4). Il passo forse più bello del Canto è la parola Mantova, alla quale senz'altro sentire succedono gli abbracciamenti di Sordello a lui che non è ancora conosciuto per la gloria de' Latini e per il pregio eterno di Mantova (5). Onde l'ira scoppia dall'amore; e agli odii è scusa e pretesto la necessità della pace e dell'amore fratellevole de' quali il Poeta disperando, si rivolge allo straniero per invocarlo se non conciliatore, cavalcatore. Son dunque e scusa ed illustrazione al resto le parole: Se alcuna parte in te di pace

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gode - Vieni a veder la gente quanto s'ama; alla quale ironia consuonano i quasi mitologici vanti dell'antica concordia di Firenze: A così riposato, a così bello Viver di cittadini (1).

Il serva Italia risuona ne' noti sonetti del Guidiccioni: E disdegnosa le tue piaghe mira, Italia mia, non men serva che stolta. L'ostello di dolore risuona in quel del Petrarca albergo d'ira. Della nave, antichissima imagine de' governi de' popoli, sulla quale pare che scherzi la nota ode d'Orazio satiro Nuper sollicitum quæ mihi tædium (2), leggesi nella Monarchia: O genus humanum, quantis procellis atque jacturis quantisque naufragiis agitari le necesse est, dum, bellua multorum capitum factum, in diversa conaris. Il bordello è interpretato, in due vecchi commenti, cosi: Ad Italiam concurrunt omnes barbara nationes cum horriditate, ad ipsam conculcandam, tanquam meretricem prostitutam (3). Quia ibi concurrunt omnes nationes barbaræ, et aliæ.... dimittunt et ponunt in Italia omnes paupertates et miserias. Quia vendunt Italicos sicut venditur caro humana in prostibulo. La bella terzina, che è tra le più schiette e pietose del Canto, Cerca, misera... è da un antico illustrata dolorosamente così: La prima (provincia) che ha capo in sul mare di Vinegia si è Romagna, nella quale si è Ravenna; fuori n'è parte (in esilio). Poscia quelli che rimasero dentro, si sono insieme cacciati e morti a Rimino sotto la tirannica signoria de' Malatesti. Poi si è la Marca anconitana e Pesaro, cacciati più parte. Fanno quello medesimo Sinigaglia; simile Ancona; più che più Fermo; il simigliante le Grotte; quello stesso, Fabbriano e Pesaro morti insieme. Poscia si è la Puglia, la quale si è sotto la tirannia della Casa di Francia; la quale signoria la rode, e liene in mala ventura; e tiene quella stanza tutta infino ad Otranto... Poscia si è terra di Roma, e Roma; le quali contrade tra per parte e per nimistade sono tutte in mala ventura. Poscia si è Toscana, Pisa, Portovenere, la riviera di Genova, e tiene fino al principio di Provenza; le quali stanze sono tutte universalmente in tribolazione. In fra terra si è Lombardia, nella quale similmente sono discordie, brighe e tirannie: lo simile è nella Marca Trevigiana infino a Vinegia (4).

Alle parole del ghibellino Poeta contro Firenze ripetute dallo storico guelfo Giovanni Villani, fa doloroso commento quel di Giovanni Boccaccio. La nostra città, più che altra, è piena di mutamenti, in tanto che per esperienza tuttodi veggiamo verificarsi il verso del nostro Poeta: Ch'a mezzo novembre Non giunge quel che tu d'ottobre fili. »

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Dante qui niega a Firenze non solo la pace ed il senno, ma fin la ricchezza, dacché le tre cose congiunge in un'ironia, egli che altrove dice cagione de' mali di lei i subiti guadagni (1), e dice le magnificenze de' colli romani vinte da quelle d'un poggio fiorentino (2). Intendeva forse che la ricchezza súbita di pochi era avviamento a rovina; e' si figurava sotto governo migliore Firenze ancora più ricca: non credo per altro ch'egli desiderasse equabilmente distribuite a tutti o a' più de' cittadini le ricchezze e gli agi, e i diritti di quelle, desiderio maggiore del suo tempo; egli che due volte qui nomina quasi con ischerno il popolo, ed altrove contrappone il cieco toro, che sono i plebei, al cieco agnello, che sono i gentiluomini mansueti. Nel Convivio egli esclama accorato: Oh misera, oh misera patria mia!... E dice, che ogni qualvolta pensa cose che al governo di Stati riguardano, piange su lei. Dalle cose toscane vedeva il Poeta dipendere le lombarde, e lo dice nella lettera ad Enrico VII sua speranza suprema.

E in quella medesima lettera si duole dell' indugiare di lui all'assedio di Brescia, così come in questo Canto si duole del non calare d'Alberto. E se nulla di noi pietà ti move, A vergognar ti vien' della tua fama. Parole che consuonano a certe altre di Giove in Virgilio: e notisi che nella terzina seguente Dante si volge al sommo Giove, Cristo crocefisso, e gli dimanda se gli occhi suoi sono altrove rivolti; ma poi ammenda il dubbio irriverente con un pensiero degno di filosofo cristiano che sente il male essere preparazione di beni maggiori. Giove dunque per iscuotere Enea dall'amor di Didone, gli fa dire per Mercurio: Si nulla accendit tantarum gloria rerum, Nec super ipse sua molitur laude laborem, Ascanione pater romanas invidet arces? (3) Il Poeta che dappertutto vedeva i fati dell'aquila, e nel sesto del Paradiso ne tesse la vita, avrà forse riconosciuto Didone nella Germania, che involava Alberto e Rodolfo all'Italia e alla vedova Roma. Ma Rodolfo dal venire in Italia s'astenne præteritorum Cæsarum infortuniis admonitus (4).

Quasi dire si può dello imperadore... ch'elli sia il cavalcatore della umana volontà; lo qual cavallo, come vada sanza il cavalcatore per lo campo, assai è manifesto; e spezialmente nella misera Ilalia (5). La protezione dell'impero accompagnata di consigli e minaccie, di lancie e di patiboli a lui pareva rimedio necessario alle discordie italiane, tutto che violento: e de' Guelfi diceva: Ut flagitia sua exequi possint, matrem prostituunt, fratres expellunt, et denique judicem habere no

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lunt (1). Il verso: Se bene intendi ciò che Dio ti nota, da Pietro commentasi recando il virgiliano: Regemque dedit qui fœdere certo Et premere et laxas sciret dare jussus habenas (2), dove l' imagine delle redini ci rimanda al cavallo e al cavalcatore; e dove Eolo re de' venti è soggetto all'impero di Giove, anch'egli jussus; come Giove stesso è soggetto all'imperio de' Fati. Poi Pietro soggiunge un passo di Boezio, e gli evangelici: Reddite.... quæ sunt Cæsaris Cæsari, e quel subditi estote.., passi che Dante conciliava con le franchigie municipali, e lo dice nella Monarchia chiaramente. Siccome il cielo, dice Pietro, è retto da un solo motore, così dev'essere il mondo da un principe: ma tale principato non doveva distruggere, anzi assodare le italiane repubbliche: Non sic intelligendum est ut ab alio prodire possint municipia et leges municipales. Passo notabile senza il quale sono enimma gli scritti e la vita di Dante (3). E le dottrine di lui avevano conferma in quell'autorità della Somma che distingue il principato despotico come è mosso il servo dal padrone, dal principato regale o politico, come i liberi uomini sono retti da chi governa (4); dove per principato intendesi tutta sorta reggimento.

In questo Canto, come nel diciannovesimo dell'Inferno e nel sesto, undecimo, quindicesimo, sedicesimo, decimosettimo, decimottavo, diciannovesimo, ventunesimo, vensettesimo e ventinovesimo

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del Paradiso, abbiamo una forma d'eloquenza poetica, diversa dalla sentenziosità di Lucano e di certi moderni; forse più lirica di certe odi d'Orazio. Paragonisi a questo Canto, non dico l'ode Delicta majorum (1), che è tra le più belle e d'Orazio e d'ogni lingua, ma l'altra Intactis opulentior (2), che è anch'essa una riprensione de' corrotti costumi civili del tempo suo, e nelle parole del Fiorentino si sentirà non pur dolore più sincero e più alto, ma impeto d'ispirazione più vera. E pongasi mente alle mosse, e alle intonazioni che nella somiglianza stessa vengono variando il Canto e rafforzando l'affetto: 0 anima lombarda come ti stavi altera! O Mantovano, io son Sordello della tua terra. - Ahi serva Italia! - Cerca, misera... Che val.... - Ahi gente... - Guarda com'esta fiera... 10 Alberto Tedesco... Giusto giudizio dalle stelle caggia. Vieni a veder...

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Vien', crudel, vieni e vedi... la tua Roma.. gente quanto s'ama. -O sommo Giove... renza mia... Tu ricca, tu con pace. Quante volte!... Ma nell' impeto è pondo; nè ricercati con ismania rettorica i voli; e ad ogni tratto il dire si posa per rilevarsi più forte come la natura stessa richiede, e come insegna l'arte consumata a' veri maestri (3).

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CANTO VII.

Argomento.

Trova in una valle que' ch' indugiarono penitenza, perchè li sviò il regno e la dignità della terra. Li colloca in luogo fiorente com'uomini di bella fama. Comincia il Canto dal dire che fa Virgilio il suo nome a Sordello. La dichiarazione che dà Virgilio della sua pena nel Limbo, illustra il quarto dell'Inferno ed il terzo del Purgatorio. Il non poter le anime salire al monte quando il sole è all' occaso, simboleggia il sole della grazia necessario ad ogni opera buona, e all'espiazione dell'opere ree. Nota le terzine 1, 4 5, 6, 9, 12, 14, 16; 18 alla 22; 24 alla 28; 30, 31, 33 sino all' ultima.

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Sordel si trasse, e disse: Voi chi siete? —
2. Prima ch' a questo monte fosser volte
L'anime degne di salire a Dio,
Fur l'ossa mie per Ottavian sepolte.
3. I'son Virgilio. E per null' altro rio
Lo ciel perdei, che per non aver fè..
Così rispose allora il duca mio.

4. Qual è colui che cosa innanzi a sè
Subita vede, ond' ei si maraviglia,
Che crede e no, dicendo: Ell' è, non è; »
5. Tal parve quegli: e poi chinò le ciglia;
E umilmente ritornò vêr lui,

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E abbracciollo ove 'l minor s' appiglia. 6. O gloria de' Latin' (disse), per cui Mostrò ciò che potea la lingua nostra; O pregio eterno del luogo ond'io fui;

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late a Napoli.

3. (L) Rio: reità.

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(SL) Aver fĖ. Som.: Habet fidem.

(F) FE. Maestro delle sentenze, lib. III, dict. 25: Che senza la fede del Mediatore nessun uomo o innanzi o dopo l'avvenimento di Cristo fosse salvo, l'autorità de' Santi unanime allesta.

5. (L) Ove 'L MINOR S'APPIGLIA i ginocchi.

(SL) MINOR. Purg. XXI, t. 44: Già si chinava ad abbracciar li piedi Al mio dottor (Stazio). Arios.: E l'abbracciava ove 'l maggior s'abbraccia.

6. (L) DEL LUOGO ond'io fui: Mantova.

(SL) GLORIA. Æn., VI: Trojanæ gloria gentis. NOSTRA. Del latino, dell' italiano e del provenzale fa tutta una lingua. Fui. Notisi la semplicità di questi

7. Qual merito o qual grazia mi ti mostra ?
S'i' son d'udir le tue parole degno,
Dimmi se vien'd' Inferno, e di qual chiostra.—
8. Per tutti i cerchi del dolente regno

(Rispose lui) son io di qua venuto:
Virtù del ciel mi mosse, e con lei vegno.

9. Non per far, ma per non fare, ho perduto
Di veder l'alto Sol che tu disiri,
E che fu tardi per me conosciuto.
10. Luogo è laggiù, non tristo da martiri,
Ma di tenebre solo, ove i lamenti
Non suonan come guai, ma son sospiri.
11. Quivi sto io co' parvoli innocenti,

Da' denti morsi della morte avante
Che fosser dell' umana colpa esenti:

modi che i maestri d'adesso fuggirebbero come vol-
garità.

7. (L) MERITO mio. CHIOSTRA bolgia.
9. (L) FAR male. NON FARE il bene supremo.

SOL: Dio.

10. (L) LUOGO È LAGGIÙ: il Limbo.

(SL) LUOGO. V. Inf., IV, t. 25. — TENEBRE. Nel IV dell'Inferno il luogo luminoso è pe' soli spiriti illustri e buoni, non già per gli altri. Ma qui Virgilio, che era pure di quelli, dopo accennato alle tenebre, dice: quivi sto io, forse perchè quella luce verso la celeste era tenebre.

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(F) TRISTO. Som. Sup. I Padri nel limbo innanzi la venuta di Cristo non vedevano Dio. - Aug., in Euch., XCIII: Mitissima è la pena de' Padri che con sola la colpa originale morivano. Som. Nel limbo de' Padri era dolore per la dilazione della gloria, non pena sensibile per il peccato. Sup., 69: Manca la pace del desiderio. TENEBRE. Som. Sup. Secondo che in più gravi peccati sono avvolti, i dannati più oscuro luogo e più profondo tengono in inferno: onde i Padri aspettanti, ne' quali era il minimo della colpa, avevano il luogo più alto e men tenebroso.

11. (L) DELL'UMANA COLPA ESENTI : battezzati.

(SL) DENTI. Osea, XIII, 14: Ero mors tua, o mors; morsus luus ero, inferne. Petr.: Gli estremi morsi

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