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La bocca mi baciò tutto tremante:

Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:

Quel giorno più non vi leggemmo avante. Mentre che l'uno spirto questo disse,

L'altro piangeva sì, che di pictade
I'venni men così com'io morisse;

E caddi, come corpo morte cade.

ARGOMENTO

Trovasi il Poeta, al ritornare in sè stesso, nel terzo cerchio dell' Inferno, in cui stavano i Golosi offesi dal cane Cerbero, e tormentati da una fiera pioggia mescolata con neve e grandine; e dopo aver con Ciacco favellato, viene colla sua guida al luogo che mette nel quarto cerchio, dove ritrovarono Pluto.

Al tornar della mente, che si chiuse

Dinanzi alla pietà de' duo cognati,
Che di tristizia tutto mi confuse,
Nuovi tormenti e nuovi tormentati

Mi veggio intorno, come ch'i' mi mova,
E come ch'i' mi volga, e ch'i' mi guati.
I' sono al terzo cerchio della piova

Eterna, maledetta, fredda e greve:
Regola e qualità mai non l'è nova.
Grandine grossa, ed acqua tinta, e neve
Per l'aer tenebroso si riversa:
Pute la terra che questo riceve.
Cerbero, fiera crudele e diversa,

Con tre gole caninamente latra

Sovra la gente che quivi è sommersa.

Li occhi ha vermigli, e la barba unta ed atra, El ventre largo, ed unghiate le mani; Graffia li spirti, li scuoia, ed isquatra.

Urlar li fa la pioggia come cani:

Dell' un de' lati fanno all' altro schermo; Volgonsi spesso i miseri profani.” Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo, Le bocche aperse, e mostrocci le sanne; Non avea membro che tenesse fermo. E'l Duca mio, distese le sue spanne,

Prese la terra, e con piene le pugna La gittò dentro alle bramose canne. Qual è quel cane, che abbaiando agugna, E si racqueta poi che 'l pasto morde: Chè solo a divorarlo intende e pugna; Cotai si fecer quelle facce lorde

Dello dimonio Cerbero, che 'ntrona
L'anime sì ch'esser vorrebber sorde.
Noi passavam su per l'ombre ch'adona
La greve pioggia, e ponavam le piante
Sopra lor vanità che par persona.
Elle giacién per terra tutte quante,

Fuor d'una ch' a seder si levò, ratto
Ch'ella ci vide passarsi davante.
O tu, che se' per questo 'nferno tratto,
Mi disse, riconoscimi, se sai:

Tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto.
Ed io a lei: L'angoscia che tu hai

Forse ti tira fuor della mia mente,
Si che non par ch' io ti vedessi mai.

Ma dimmi chi tu se', che 'n si dolente

Luogo se' messa, ed a sì fatta pena,
Che s'altra è maggio, nulla è sì spiacente,
Ed egli a me: La tua città, ch'è piena
D'invidia sì, che già trabocca il sacco,
Seco mi tenne in la vita serena.
Voi, cittadini, mi chiamaste Ciacco:
Per la dannosa colpa della gola,
Come tu vedi, alla pioggia mi fiacco;
Ed io anima trista non son sola,

Chè tutte queste a simil pena stanno
Per simil colpa; e più non fe' parola.
lo gli risposi: Ciacco, il tuo affanno
Mi pesa sì, ch'a lacrimar m'invita:
Ma dimmi, se tu sai, a che verranno
Li cittadin della città partita:

S'alcun v'è giusto; e dimmi la cagione,
Perchè l' ha tanta discordia assalita.

Ed egli a me: Dopo lunga tenzone

Verranno al sangue, e la parte selvaggia Caccerà l'altra con molta offensione. Poi appresso convien che questa caggia Infra tre soli, e che l'altra sormonti Con la forza di tal che testè piaggia. Alto terrà lungo tempo le fronti,

Tenendo l'altra sotto graviˇpesi,

Come che di ciò pianga, e che n'adonti. Giusti son duo, ma non vi sono intesi: Superbia, invidia ed avarizia sono Le tre faville ch'hanno i cori accesi.

Qui pose fine al lacrimabil suono.

Ed io a lui: Ancor vo' che m'insegni, E che di più parlar mi facci dono.: Farinata e'l Tegghiaio, che fur sì degni, Iacopo Rusticucci, Arrigo e' Mosca,

E li altri ch'a ben far poser gl'ingegni, Dimmi ove sono, e fa ch' io li conosca ;

Chè gran desio mi spinge di sapere, Se'l ciel li addolcia o lo 'nferno li attosca. E quegli: Ei son tra l'anime più nere; Diversa colpa giù aggrava al fondo: Se tanto scendi, li potrai vedere. Ma quando tu sarai nel dolce mondo,

Pregoti ch'alla mente altrui mi rechi: Più non ti dico, e più non ti risponde. Li diritti occhi torse allora in biechi:

Guardommi un poco, e poi chinò la testa:
Cadde con essa a par degli altri ciechi.
E'l Duca disse a me: Più non si desta
Di qua dal suon dell'angelica tromba.
Quando verrà lor nimica podesta,
Ciascun ritroverà la trista tomba.

Ripiglierà sua carne e sua figura,
Udirà quel che in eterno rimbomba.

Si trapassammo per sozza mistura

Dell'ombre e della pioggia, a passi leuti, Toccando un poco la vita futura; Per ch'io dissi: Maestro, esti tormenti Cresceranno ei dopo la gran sentenza, O fien minori, o saran sì cocenti?

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