Immagini della pagina
PDF
ePub

geri, i Polentani, i Malespini, i Malatesta ed altri potenti signori. Molti nemici gli fece il parteggiare, alcuni l'invidia; e tra questi fu Cecco d'Ascoli, filosofo ed autore d'incolte rime. Fu vaghissimo di gloria e d'onore: ardentissimo nel procurare il publico bene, e negli odii di parte animoso e pertinace; non timido amico del vero, e dalle viltà sì lontano che elesse di stare in perpetuo bando, anzichè tornare alla patria per quelle vie che convengono agli uomini rei. Alcuni gli danno biasimo di essere stato Guelfo e poi Ghibellino; ma è da por mente che in sua giovinezza seguitò la parte de' suoi maggiori, in età provetta quella che onesta gli parve. Altri dicono ch'ei fosse uomo per suo sapere alquanto presuntuoso, schifo e sdegnoso. Il Petrarca racconta che, avendo Cane della Scala detto a Dante: Io meraviglio che tu, essendo savio, non abbi caro questo mio giullare amato da tutta la corte; egli rispondesse: Non meraviglieresti, se ponessi mente che da parità di costumi e da somiglianza d'animo si ge

Dante » ha dimostrato che Uguccione della Faggiola, come colui che succedette ad Arrigo VII nel comando dell'armi de' Ghibellini in Italia, fu la più grande speranza di quelli; e che esso è l'eroe di cui parla il poeta (nel canto I dell' Inferno) sotto l'immagine del veltro nemico alla lupa, e (nel Purgatorio, canto XIII) là dove dice a modo a profezia che un capitano avrebbe ucciso la meretrice seduta col gigante suo drudo nell' usurpato carro. Molte altre cose ci discoprirà nell'opera a cui ora ha posto mano. L'Italia gli avrà grande obbligo delle sue molte cure e fatiche. e del suo nobile lavoro.

nerano le amicizie. Narra similmente il Boccaccio che quando Dante fu eletto ambasciatore a papa Bonifacio, dicesse: Se io vo, chi rimane? se rimango chi va? Questo detto pare a molti segno di grande superbia; ma se si riguardi allo stato di quella republica, all'importanza del negozio di che si trattava, all'alto ingegno di chi proferiva quelle parole, si vorrà piuttosto credere ch' elle provenissero da grande animo e da grande amore verso la patria, anzichè da superbia. Checchè sia di tali opinioni, certo è che in lui furono ardentissimi gli affetti, ma per quanto è conceduto alla natura umana, rattemperati sotto l'impero della ragione. Ma di questi affetti, sempre riaccesi nelle discordie civili, presero qualità le sue parole e i suoi versi. Non ultima fra le passioni sue fu quella d'amore, la

quale per lui prese abito si gentile che le amorose

canzoni e le prose del Convito e della Vita Nuova li animi giovanili stogliendo dall' appetito sensuale, li accendono d'amore casto e purissimo. Il libro intitolato de Monarchia, per lui composto nella passata di Arrigo VII in Italia, fu specchio di mirabile dottrina in que' dì. È diviso in tre parti. Nella prima si vuol provare che al bene degli uomini è necessaria la monarchia; nella seconda, che Roma ebbe di ragione principato del mondo; nella terza, che l'autorità civile da Dio procede senza alcun mediatore. In cotale opera volle forse mostrare da quali ragioni fosse condotto a seguitare la parte ghibellina. Alcuni anni dopo la morte sua, essendo nata quistione dell' autorità di Lodovico duca

di Baviera creato re de' Romani dagli elettori di Lamagna, molti si valsero della filosofia di Dante a difesa del duca; per la qual cosa il libro ebbe assai lodi e assai vituperi; e coloro che l'autorità imperatoria volevano depressa, lo dannarono ai fuoco, e le ossa del glorioso poeta con infamia d'Italia sarebbero state disseppellite ed arse, se la virtù di Pino della Tosa alla bestialità di Bertrando del Poggetto non si opponeva. Gli odii crudeli che quest'opera generò all' autor suo, dinostrano come da molti ella fosse cercata e letta a que' dì, ma nella luce di questo secolo si legge solamente da coloro che bramano di sapere qual fosse nel risorgimento delle lettere la scienza del publico diritto. Non così avviene del libro de Vulgari Eloquentia; perciocchè gli uomini letterati molto vi apprendono circa la natura dell' italico idioma. Scrisse ancora, durante la sua dimora nel Friuli, alcuni libri, oggi perduti, dell' istoria de' Guelfi e dei Ghibellini.

Le prelodate opere sarebbero state sufficienti a dare gloriosa fama a Dante Alighieri; ma quella che nel mondo tra le più maravigliose dell' umano ingegno risplenderà nella lunghezza del tempo avvenire è la Divina Commedia, per la quale la poesia non solo ripigliò l'antica veste, ma l'alto suo úfficio di trarre i popoli a civiltà. Erano scorsi i secoli tenebrosi in chee genti patirono infinita miseria, e cominciavano in Italia a risorgere le scienze. Pochi filosofi aveano parlato il linguaggio d'Aristotile e di Platone; pochi poeti aveano nobilmente cantato d'amore, quando Dante fece sentire il suono

dell' altissimo verso. Leggendo le storie egli aveva veduta ne' costumi antichi la dignità della specie umana e nei novelli la depravazione di quella; sapeva i mali abiti generarsi dai mali ordini, e questi dall' ignoranza, essendo che agli uomini è necessaria la scienza, e i soli bruti per istinto naturale si governano; conosceva che il far risorgere la morta ragione è ufficio de' poeti, i quali con maravigliose fantasie, con accese e peregrine locuzioni aprendosi la strada alle menti vulgari, le preparano alla civiltà e le fanno amiche della sapienza. Con tale intendimento ei diede opera al suo politico e teologico poema. Nuova è in questo la materia e la forma; nuovo all' italica lingua è lo stile. Non imprese d'eroi, non amori vi si cantano: l'azione non è ivi guidata e ritardata da passioni o da casi di fortuna; ma vi si descrive un miracoloso viaggio per le regioni de' morti, nel quale il poeta che narra è il principale operante. Ne' primi due regni diversi: vedi con lui t' aggiri per luoghi dolorosi

vari costumi e varie colpe e martirii a quelle convenienti, apparizioni orrende, trasformazioni ma, ravigliose; odi narrare casi miserabili, rampognare abominevoli vizi, manifestare il futuro; odi accorte e pietose domande, risposte piane, sottili, cortesi, aspre, sdegnose, lamentevoli. Nel terzo visioni beatissime, soavissimi canti, parole di sapienza e di carità. Dicesi che Dante togliesse l'idea di quest'opera dalla visione di certo frate Alberico e dal romanzo detto il Meschino. Ma che monta il cercare donde i poeti traggano la materia nuda, se ogni

laude loro sta nella forma e nello stile mirabile? Chi volesse dire dello stile di questo poeta, non ne direbbe mai a sufficienza. Quanti poetarono prima di lui usarono modi da prosatori, anzichè da poeti ; ma Dante, secondo l'alta idea dei Greci e de' Latini, fu il primo fra noi a vestire i concetti di forme veramente sensibili, e a trovare locuzioni peregrine e naturali, nobili e popolari; che sapesse più che altri inalzare ed abbassare le parole e l'armonia secondo le materie diverse, e che desse l'esempio di tutti gli stili. Per lui avrai dovizia di maniere per l'epica poesia, per la didascalica; ne avrai per la tragedia, per la commedia e per la satira. Non ti offenderanno alcune oscurità, sé porrai mente alle difficili cose ch'ei volle significare ed ai tempi in che visse. Questo poema andò, come l'Iliade, per tutte le nazioni, e da tutti i sapienti fu lodato a cielo. Ne' primi tempi fu commentato da Francesco e da Pietro Alighieri figliuoli di esso Dante,, dal Boccaccio, da Benvenuto da Imola e da moltissimi altri dopo di loro. L'Ariosto, il Tasso lo studiarono, e l'ebbero carò fin che vissero. Il Castravilla, il Bulgarini, il Bettinelli, vituperandolo, oscurarono il nome loro. I nostri maggiori inalzarono statue al poeta, gli coniarono medaglie, e vollero che la Di-, vina Commedia a documento di buon vivere civile fosse spiegata publicamente. Il Boccaccio ne fu espositore in Firenze nella chiesa di S. Stefano; dopo di lui Antonio Piovano e Filippo Villani. Benvenuto da Imola per lo spazio di dieci anni la dichiarò in Bologna; Francesco di Bartolo da Buti

« IndietroContinua »