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capitale, e per la condizione dei coltivatori rimangono in sterilità e poverezza. Ecco l'Agro Romano che si stende dalle montagne di Viterbo a Terracina, dai Colli Sabini fino al mare. Oh come siamo profondamente commossi a tristezza nel percorrere quel gran tratto di paese! Il quale, posto in una regione temperata, sotto un cielo ridente, di terreno feracissimo sarebbe mirabilmente acconcio ad ogni maniera di prodotti. Pure non vi trovi segno di abitato, non pianta che colle fresche ombre ti riconforti, ma dovunque una spaventevole ed insalubre solitudine. Ed è pur questo il medesimo terreno dove già un tempo sette jugeri bastavano a mantenere agiatamente una famiglia, e dove cresceva una gente prospera di corpo, e di animo vigorosissima. Questo pensiero mi richiama, o Signori, ad una delle cagioni della decadenza di Roma, voglio dire l'aggrandimento delle proprietà, e l'agglomerarsi delle ricchezze.1 Chi non conosce il detto di Plinio? Verumque confitentibus, latifundia perdidere Italiam imo et provincias. Nei primi secoli della repubblica dopo la distribuzione fatta da Numa, e quella di Servio, dopo le leggi delle dodici tavole, le terre erano divise in piccoli fondi, e la coltivazione dei campi affidata in gran parte ad uomini liberi. Quegli uomini fortissimi curavano essi stessi le piccole facoltà loro, nè desideravano mag

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V. Giraud, Recherches sur le Droit de propriété chez les Romains sous la Répub, et sous l'Empire.

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Hist. Nat., XVIII.

« Ac primum (dice Cicerone parlando di Numa) agros quos bello Romulus ceperat divisit viritim civibus, docuitque sine depopulatione et præda posse eos colendis agris abundare commodis omnibus, amoremque eis otii et pacis injecit, quibus facillime justitia et fides convalescit, et quorum patrocinio maxime cultus agrorum, perceptioque frugum defenditur. » Cic., De Repub. Parlando poi degli antichi patrizii soggiungne: Quorum auctoritas maxime florebat quod cum honore longe antecellerent cæteris, voluptatibus erant inferiores, nec pecunia ferme superiores. Cic., De R pub.

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giori dovizie. Ma in processo, le cose interamente mutarono. Venne il tempo in cui Crasso osava dire, niuno essere ricco se delle sue rendite non poteva nutrire un esercito. Allora le ricchezze si accumulavano, i possessi ampliavansi in vastissimi territorii, i beni di un solo proprietario comprendevano pianure e valli, catene dì montagne, interi corsi di fiumi dalle fonti loro fino al mare. Ora, dice Seneca, un fondo è ciò che un tempo si chiamava un impero.2 Intanto l'Italia per sè ubertosissima procacciava altronde vettovaglie, il popolo dai proprii campi si discacciava, e la coltivazione abbandonavasi alle mani degli schiavi. E quando il numero di questi venne diminuendo, le campagne rimasero quasi deserte, la popolazione rara, imbelle, corrotta, senza fede, senza amore di patria non ardì più contrastare colle vigorose e selvagge nazioni barbariche.

Incontra alcuna volta che il proprietario lavori egli medesimo colla, famiglia il proprio fondo. Così pare che avvenisse presso i più antichi abitatori della Grecia e dell'Italia, e ne abbiamo anche oggi un esempio in alcune parti della Svizzera. La condizione di questi coltivatori è certamente (per quanto è possibile nell'umana vita) felicissima, e stupendi gli effetti che ne derivano a tutta la civile compagnia. Imperocchè sebbene in Isvizzera il terreno sia poco benignamente da natura fornito, pure vi si vede frutto mirabile per le cure continue ed affettuose che vi sono poste. Dico affettuose, perchè se il sentimento della proprietà della terra è per se solo gratissimo, si ravviva pei fatichevoli servigi che il lavoratore vi adopera intorno. Il quale dalla propria esperienza ammaestrato, e da quella de' suoi padri che sovente posse

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'Cic., Paradoxa, n. 6.

Seneca, Epist., 89. Vedi anche Quintiliano, Decl., XIII, e quasi tutti gli scrittori di quell'epoca.

derono quello stesso fondo, assegna a ciascuno dei suoi gli appropriati lavori, e con accorta providenza dispone i miglioramenti che i figliuoli godranno. Ivi non è contrarietà d'interesse, non occasione di dissidi. Il podere è coltivato per quella guisa che possa sopperire agli svariati bisogni della famiglia, la quale conduce una vita operosa e lieta con parsimonia ma senza disagi. E della prosperità dei cittadini si vantaggia lo Stato, che nella giustizia e nella fede ha il vero e stabile suo fondamento.

Ma se questa maniera di cose è possibile ad effettuarsi nella prima occupazione dei terreni, e nei principii delle colonie, se si perpetua nella Svizzera paese piccolo, poco ubertoso, e sotto certe istituzioni politiche non può lungamente durare nelle altre contrade. Perchè la diversità degli ingegni e dell' attività degli uomini, la disposizione loro al risparmiare, o al profondere, l'allargarsi del commercio, con molte altre cagioni cooperano a mutare una tale condizione. Per la qual cosa veggiamo pressochè dovunque la classe de' proprietarii divisa da quella dei lavoratori delle terre. Nè questo ordine contraddice all' utilità pubblica, nè alla perfezione degli Stati, quando i possessi, come dicemmo innanzi, siano compartiti a sufficienza, quandoiricchi si valgano dei loro beni di fortuna a nobili intendimenti ed a benefizio comune, quando siano stabilite convenienti e benevole relazioni fra le due classi. Quindi si fa manifesta l' importanza di considerare queste relazioni scambievoli, e di esaminare le varie maniere di patti che fra il padrone ed il lavoratore di terra possono darsi, sia risguardo alla produzione ed alla distribuzione delle ricchezze, sia risguardo al perfezionamento morale degli uomini. In questa materia la quale è molto ardua, e che da valenti scrittori con diversissime opinioni è stata trattata, io entro al presente, fidato nella vostra benevolenza. Se non

che innanzi tratto fa mestieri avvertire che per applicare alla pratica i principii che speculativamente noi andremo stabilendo, si vuol por mente alla legge della opportunità. Avvegnachè la condizione dei tempi e dei luoghi modifichi non lievemente le teoriche generali ed astratte. Il che se incontra di tutte le istituzioni umane, avviene specialmente nei contratti di che parliamo, i quali per lo stato della proprietà, per la natura del suolo, per la qualità della coltura, per le leggi, le abitudini, le tradizioni dei varii paesi possono ricevere e ricevono in fatto gravi mutamenti. Pertanto di quelle cose che io verrò noverando altre saranno universali ed assolute, altre più particolari e riferibili solo all' Italia, e forse alla nostra provincia, dove più accuratamente possiamo esaminare i fatti, e più facilmente sperare l'adempimento dei nostri desiderii.

La coltivazione per mezzo degli schiavi e dei servi da gleba non si appartiene alla nostra materia, però ce ne passeremo con brevi parole. La schiavitù ebbe origine allorquando fatti più miti gli animi, e più accorti gl' ingegni al proprio interesse, si stimò opportuno invece di uccidere i prigionieri di guerra di serbarli in vita, e di trarli ad utili uffici. Così questo primo atto ebbe sembianza di legittimo e clemente. Ma perpetuandosi di generazione in generazione, e per molti modi iniquissimi ampliandosi, fu stabilita una assoluta divisione fra gli uominì, onde gli uni si reputarono di natura inferiori, e destinati al servigio degli altri. E lo schiavo fu considerato siccome una cosa materiale, secondo il valore di sua utilità mercatabile. Questi non ebbe nè famiglia, nè proprietà, nè potère alcuno civile, e il diritto della vita e della morte spettò al suo padrone. Niuna più disumana ed esecrabile violenza di questa fu mai veduta nel mondo! E nondimeno essa era comune

a quasi tutte la nazioni nell'antichità, e ancora dura nel nostro secolo. Tu ritrovi la schiavitù nelle coste della Polinesia e dell' Affrica, in gran parte dell' Asia e dell'America. Nè solo presso nazioni selvagge, ma nelle colonie stesse francesi, olandesi, spagnuole, e nella civile Repubblica degli Stati Uniti. La quale Repubblica se di nobilissime virtù ha dato esempio, e di molte utili e desiderabili istituzioni, contiene nondimeno questo germe funestissimo di corruzione, e di danni avvenire. La differenza poi che è fra la schiavitù dei moderni e quella degli antichi, sta in ciò che al presente si esercita per la massima parte sopra una specie di uomini diversificata pel colore, e per altre fisiche qualità, voglio dire la razza etiopica. Ancora nelle colonie europee è posto qualche freno all' arbitrio dei padroni; nel restante gli effetti di questo sistema sono egualmente perniciosi. Negli schiavi è affralita la sanità e la vigorìa del corpo, onde si fa degenere la razza, spento ogni lume dell'intelletto, tolti tutti i conforti dell'animo. Sola rimane e si trasmette di generazione in generazione una bestiale ira che tratto tratto dirompe in sanguinose vendette. Nei padroni è arroganza, egoismo, abito di violenza e di crudeltà, e collo spegnersi della simpatia e della compassione vengono meno gli altri sentimenti umani. E poichè tutto si opera per la forza, non più si cercano gli esercizii dell' intelletto onde ci rendiamo acconci ad indurre il convincimento, o la persuasione nei nostri simili. Finalmente il lavoro essendo riputato disonorevole, ne sono ributtate tutte le classi medie che altrove per la industria vengono a prosperità. Ma il lavoro degli schiavi senza accorgimento nè solerzia torna poco in profitto, e stremansi le arti che servono ai bisogni della vita. Pertanto, come abbiamo detto sopra, l'agricoltura fiorì presso i Romani finchè da liberi uomini fu esercitata,

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