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404 prior di Bari, Giovanni da Sessa, e Cesare Mormile, condannando tale enormità, e spaventati al seguito che ne avrebbe potuto venire, non avessero fatto opera, ora pregando, ora ricordando il debito che avevano col Re, cui il Vicerè nella sua persona rappresentava, ed ora promettendo che tutto si sarebbe fatto sapere al Re, che quel furore si calmasse. Tornossene adunque don Pietro sano e salvo, ma nessuno fra quella folla immensa gli fece segno di riverenza, anzi tutti con mal viso e con occhi irati il guardarono.

Pel fiero caso dei tre giovani nobili, il Mormile ed il Prior di Bari dubitavano ancor eglino della vita loro e che il Vicerè si volesse vendicare di tutti coloro che gli avevano attraversato il disegno dell' Inquisizione. Per la qual cosa, per non restar soli o con pochi esposti alla furia del Toledo, volendo ridurre

a più certa forma quei moti disordinati di Napoli con ordinar meglio la moltitudine, ed indicare uno scopo più certo, perciocchè nulla più nuoce nei moti popolari che il non saper bene che cosa si voglia, mandarono astutamente fuor voce, che Cesare Mormile era preso e si menava in castello. Incontanente si sentì suonar la campana di San Lorenzo, ed il popolo si levò a romore con l'armi in mano, protestando ognuno esser pronto a dar la vita per la libertà della patria. Giudicarono i capi di dover usare quel calore, e pigliar su quell'impeto il popolo, già di per sè stesso disposto a qualunque estremità. Entrati in San Lorenzo, sulle mosse date da chi guidava il tutto, la moltitudine si mise a gridare: Unione, unione. In questo moto entrarono assai più nobili che nei primi. Órò accomodatamente dal pergamo Luigi Dentice uomo principale del seggio di Capuana, ed in ogni sua azione garbatissimo. Presesi risoluzione dell'unione: primieramente, non si riconoscesse più il Vicerè, decretavano, ed a lui più nessuna obbedienza si prestasse; poi, che fosse fatta una unione tra la nobiltà e il popolo, per cui ciascuno per ciascuno si ob

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(1547) bligasse per giuramento, promettendo di perire tutti se uno di loro perisse; finalmente, che si invierebbero deputati all'Imperatore, e nominarono per quest'effetto Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, uno dei primi e più illustri signori del regno, per la parte de' gentiluomini. Gli diedero per compagno Placido di Sangro, cavaliere di grandi qualità, per la parte del popolo. Volevano che scusassero l'università di Napoli, ed impetrassero che loro fossero osservate le condizioni del regno, e levatone il Vicerè, universalmente odiato e stato già in ufficio più lungo tempo che gli statuti comportavano; domandassero al tempo stesso, che vi si mandasse qualche persona d'autorità, per informare de' modi del Vicerè, e udire le querele del popolo e della nobiltà napoletana.

Non così tosto fu fermata la unione, avendo tutti preso le armi in mano, (erano più di cinquanta mila), con un Crocifisso innanzi andarono a processione gridando: Unione, unione per servizio di Dio, dell'Imperatore e della Città. Si mescolavano in questo moto, senza alcuna differenza di luogo, signori e popolani, e così gridando e tempestando arrivarono alÎ' arcivescovato, dove Giandomenico Grasso, notajo della città, stipulò l'istromento dell' unione universale. Vollero che fossero tenuti e chiamati traditori della patria tutti coloro che in detta unione non dessero il nome. La qual cosa non era in quel momento da aversi in poco conto; perchè il popolo dava mano a saccheggiare ed ardere le case dei sospetti: onde vennero a scriversi e quelli che ne avevano voglia, e quelli che non l'avevano.

Il Principe di Salerno accettava volentieri la pericolosa commissione, quantunque ne fosse sconfortato con ragioni gravissime da Vincenzo Martelli, giovane ingegnosissimo, molto devoto a lui di tutta sua confidenza ; l'accettava parimente Placido di Sangro. Prima di partire il Principe andava a visitare il Vicerè, che s'affaticò in dissuaderlo con dirgli che s'e

gli andava all' Imperatore per conto dell'Inquisizione, non vi andasse, perciocchè gli dava parola da cavaliero, fra due mesi far venir carta da sua Maestà, per cui si provvederebbe che d'Inquisizione più non si trattasse; che se poi egli andar voleva per l'osservanza dei capitoli del regno, gli dava similmente la sua parola che, quando alcuno officiale non gli avesse osservati, egli avrebbe subito provvisto al voto della città; e così non era bisogno ch'ella avesse fatta spesa alcuna, nè che il Principe in tempi caldi ed incomodi pigliasse il travaglio di sì gran viaggio; ma se pure egli, soggiunse il Vicerè, voleva andar in corte per dir male di lui, che vi andasse pure in buon' ora.

Riferite le parole del Vicerè agli eletti e deputati, ordinarono che non fosse da prestar fede a chi non ne aveva, e perciò partissero, e gli provvidero di danari. Così il Principe e Placido si misero in viaggio per l'Alemagna, dove allora dimorava l' Imperatore.

Don Pietro, per non restare senza difesa presso a Cesare, spediva nel medesimo tempo alla Corte il Marchese della Valle. Ciò era per salvezza propria; ma considerato di quanta importanza fosse quell' unione in un tempo massimamente in cui questo nome era tanto terribile per gli accidenti dei Paesi Bassi, e standone con molto timore, scrisse all'Imperatore, che mai per nessuna ragione i Napoletani avrebbero sopportato l'Inquisizione e che, per tôrre ogni pretesto ai sediziosi e disfar l'unione, era necessario di porre questo negozio in perpetuo silenzio.

Intanto i deputati dell' unione, per far vedere che solo volevano che si osservassero i capitoli del regno, dai quali era proibita l'Inquisizione di Spagna, e che intendevano nel rimanente restare nell'obbedienza, stimarono di essere bene di farne qualche dimostrazione. A tal fine rizzarono sul campanile tanto tempestoso di San Lorenzo una bandiera coll' armi dell'impero. Poi proposero una sospensione d'offese al Vicerè, da cui fu accettata.

Non ostante la triegua, succedevano risse tra i soldati e i cittadini, che sempre stavano adunati. I ministri di giustizia, specialmente tavolaccini, shirri e simili, erano maltrattati dal popolo: i giudici medesimi, impauriti, cessavano l'ufficio; il che riusciva di un danno incredibile e di molto pericolo. Nè mancavano uomini facinorosi e banditi di ogni sorta, che, udito quel romore e volendo, come sogliono, pescar nel torbido, erano accorsi a Napoli, dove e stimolavano a male opere e le commettevano. S'appiccavano su pei canti scritti e versi infamatorj contro il Vicerè, Confortando il Popolo a levarselo dinanzi.

Erano in si feroce ravviluppamento alcuni, che desideravano che si gettasse il dado affatto, e con un gran delitto si rendesse impossibile ogni riconciliazione: volevano costoro andare ad un'altra Signoria. Proponevano che si dovesse chiamare Piero Strozzi, e darsi al Re di Francia, del quale si udiva che faceva qualche provvedimento d'armi; ma questa parte non ebbe seguito, perchè s'accorsero che Enrico si allestiva all' armi più per sospetto della grandezza dell'Imperatore, che per voglia ch'egli avesse di guerreggiare.

I due storici del Concilio Tridentino Sarpi e Pallavicino lasciarono scritto, che la città mandò Ambasciatori a Paolo III con offerirgli la sovranità, quando accettare la volesse. Afferma anzi il primo che il cardinal Teatino esortava efficacemente il Pontefice a non lasciar passare una occasione tanto fruttuosa di acquistare un si nobile regno alla Chiesa, promettendogli, se sostener volesse l'impresa, insieme con l'opera sua, chè vi sarebbe andato egli in persona, l'aderenza di tutti i suoi parenti, che molti erano e potenti; ma che il Papa, siccome narra, contento di nodrir la sedizione con molta destrezza, non volle impacciarsene, non credendo avere forze sufficienti. Il Pallavicino scrive ancor egli che il Papa, quantunque le offerte dei Napoletani fossero grandi, con pensiero

405 egualmente pio e savio, non volle fare movimento, conoscendo che l'acquisto di quel regno temporale avrebbe messo a pericolo in tali tempi tutto il suo regno spirituale, di cui il temporale è accessorio e, come continua a scrivere il medesimo storico, non durabile senza il sostegno dell'altro. Gli autori napoletani non fanno menzione di un fatto tanto grave, quale si è quello di volersi dare al Papa. Ma se da una parte si dee credere ch'essi fossero di tutto che successe in questo movimento meglio informati degli storici forestieri, da un'altra cade l'osservazione che eglino avevano interesse a passar sotto silenzio quest'accidente, perchè per lui la Città veniva a constituirsi in vera ribellione verso il suo governo.

Intanto una licenza senza fine, un disordine confuso affliggeva la travagliata Napoli. I capi del movimento non avevano nè autorità, nè forze sufficienti per tenere a segno quell'immenso popolo commosso. Anzi una parte di lui per niun modo era raffrenabile; questi erano i banditi e uomini di mal affare di ogni genere, che alla voce di quel rimescolamento erano accorsi, e, non più a Inquisizione che a non Inquisizione badando, attendevano a far risse e sacco. Trista e pericolosa stanza era divenuta la capitale del Regno, che senza governo e senza leggi non aveva più cosa per cui probi ed onesti uomini amassero il suo soggiorno; ond' era, che se ne ritiravano, e gradatamente si sarebbe veduta solinga e deserta, se i deputati non avessero proibito, con soldati a posta messi alle porte, che se ne uscisse. I baroni se n'erano iti, i più onorabili cittadini dispersi, una minutaglia arrogante e gran numero di facinorosi, correndo ora qua ora là, mettevano spavento in ogni parte. Se accadeva, che chi più l'ordine amava che il disordine volesse porvi ostacolo, o solo che con la voce quei trascorsi condannasse, tosto si l'ingiuriavano, il chiamavano traditore della patria, lo sforzavano ad armarsi, e ad andar con loro al mal dire e al mal fare. Per meritare gli elogi del

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