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vittoria; i prelati spagnuoli in Concilio, animosi pur troppo ed avversi alle prerogative della romana Ĉattedra. Tutti questi accidenti annunziavano non poca alterazione nella mente di Cesare a pregiudizio del Pontefice, nè dove ei fosse per trascorrere, quando del tutto vincitore riuscisse, nessuno poteva antivedere bene dalla solita ambizione di chi vince, e massimamente dai tanti segni della sua, si auguravano ruine per tutti i principi. Viveasi perciò in Italia, specialmente in Roma, con una grande sospensione d'animi.

Paolo, che per la molta sperienza soleva antivedere i casi futuri, pensava ai rimedj per non rimaner preda di chi tanto poteva. Il congiungere i principi in una confederazione contro l'Imperatore, siccome desiderava, gli pareva pensiero troppo lungo, nè abbastanza pronto al bisogno. Ma se col nome di Lega in fronte, e con le armi aperte non si poteva combattere colui, la cui fortuna era grave a tutti, il tenerlo impedito per congiure e nemicizie occulte stimavasi prudenza. Il Pontefice e Pierluigi suo figliuolo, duca di Piacenza, quantunque molto artificiosamente, e con molte pratiche segrete sel facessero, andavano queste trame ordinando. Seppero, perchè stavano continuamente odorando ogni cosa, i risentimenti del Fieschi, e presero consiglio di usarli a benefizio loro. Ottobuono de' Fieschi, uno dei fratelli di Gianluigi, tenendosi offeso da Giannettino Doria, era ito lamentandosi in Francia ed a Roma, dove era stato volentieri udito. Lo stesso Gianluigi con Pierluigi assai risentitamente si lagnava dello essere calunniato dai Doria presso all'Imperatore, anzi lo pregava di essergli appresso a Cesare avvocato e mediatore. Questi risentimenti erano piuttosto moti di animi sdegnosi e sdegnati, che effetti di ragioni reali; imperciocchè i Doria conoscendo la nobiltà e la potenza dei Fieschi, non che cercassero di asperargli, gli accarezzavano, ingegnandosi ad ogni modo di fare, che quelle anime

superbe, addolcite dall' onore in cui si tenevano, si soddisfacessero dello stato presente, e non pensassero a novità; anzi le condiscendenze del Doria erano passate tant' oltre, che operando con l'Imperatore aveva da lui impetrato pel Fieschi non solo grazia, ma favore di quant' avrebbe piuttosto meritato sdegno e eastigo.

Portato Gianluigi da quella sua natura torbida ed ambiziosa, aveva pochi anni innanzi, per alterare la Repubblica, e voltarla a divozione di Francia, tenuto maneggi occulti primieramente con Cesare Fregoso e Chiapino Gonzaga ed altri ribelli genovesi, quando vennero all'assalto di Genova nel 1536, poscia con Piero Strozzi, quando passava armato pel Genovesato per andare a congiungersi coi Francesi in Piemonte, il primo dei quali trattati era venuto a notizia per lettere intercette dal Marchese del Vasto e da lui mandate all' Imperatore; delle quali macchinazioni avrebbe il Fieschi pagato il fio se per intercessione del Doria l'animo di Cesare non fosse stato mitigato, per modo che, non che non gli perdonasse, si era deliberato di onorarlo, desiderando sommamente di acquistarsi quel giovane ambizioso, ed a cui concorrevano, come a centro comune di consiglio e d'ajuto, tutti i malcontenti. Gli stanziò inoltre una pensione di due mila fiorini all'anno da pagarsegli dalla Camera di Milano. Dal che si vede che Gianluigi si godeva ad un tempo stesso il danaro di Spagna e quel di Francia, pronto e disposto a tradir la prima, tosto che il destro gli venisse, e ad abbandonar la seconda, se la sfrenata ambizione a ciò fare il confortasse.

Pierluigi intanto da Piacenza stimolava. Rappresentava l'Imperatore occupato in Germania, i Francesi ingrossati in Piemonte, ogni cosa quieta, e nessuno addantesi in Italia; Genova dedita agli artifizj utili ed alle conversazioni dilettevoli della pace; Firenze sdegnosa; il Papa attento ed amorevole; tempo esser quello, aggiungeva, propizio alle congiure ed a

13 chi non volesse neghittosamente nell'ozio ed in basso stato giacersi; sovvertisse Genova, alzasse il primo una insegna che dicesse, Aver presto a finire l'imperiale tirannide in Italia; duemila armati avere lui in pronto ad ajutare l'impresa; sarebbero presenti in Polcevera al primo bisogno. Queste cose si seppero per messi e lettere intraprese, ma cupe ed avviluppate in ambagi.

Fu preso ordine alla congiura. Aveva Pierluigi nel porto di Civita Vecchia quattro galere, le quali, innanzi che questi trattati andassero attorno, intenzione del Papa era che vendesse ai Sauli, famiglia nobile di Genova, ma addetta ai popolani, affinchè nelle loro hisogne marinaresche se ne servissero. Ma Pierluigi, che, per l'esito che si aspettava, più favoriva i Fieschi, che i Sauli, le volle vendere a Gianluigi, il quale messele agli stipendj del Papa, le andava armando; anzi una di queste già acconciamente allestita, l'aveva ritratta nel porto di Genova, dove era per essere, come sarà narrato, grande amminicolo della Congiura.

S'avvicinava il fine del 1546; ogni cosa pronta per l'eccidio di Genova. Ora qual fosse Gianluigi, e quali le qualità di questo parricida deesi da noi più particolarmente divisare. Giovane di venticinque anni incirca, a lui era stato grazioso il cielo di quanto ei suole maggiormente ornare i felici uomini cui più vuole render chiari fra gli altri in questa mortal vita, dove il bello dovrebbe avere sempre compagno il buono, e pure spesso non è. Ammiravano in Fieschi un ingegno pronto e vivace, ma temperato in apparenza da una straordinaria dolcezza; pari dolcezza spirava dal suo volto; in lui pareva infuso un cotal lieto, chiaro e giovanil lume con tanta venustà che ogni altra cosa, vedendolo, avresti di lui augurato piuttosto che tradimenti, omicidj e sangue. Nè una gentile educazione, e ben degna del suo alto grado gli era mancata; conciossiacosachè eccellenti maestri d'arti

(1547) liberali, e precettori esimj di virtù gli furono intorno insin dalla prima infanzia, fra cui il principal luogo aveva ottenuto Paolo Pansa, uomo, se si vogliono risguardare la dottrina e le lettere, politissimo; e se la virtù, i costumi ed ogni altra più bella dote dell' animo, venerando. Aggiungevasi una virtuosa moglie, la quale accolta a far parte della famiglia dei Fieschi, a questo certamente non era venuta, nè mai sospettato, non che creduto, avrebbe che fosse per vederne l'ultima fine.

Ma alcuni malarrivati uomini si erano insinuati nella grazia dell'ardente Giovane, e molto famigliarmente ed in segreti colloquj con lui usavano. Costoro, adulatori dell'animo, ministri dei piaceri, stuzzicatori di superbia, consigliatori di malvage opere spegnevano i salutiferi semi gettati in quel fertile terreno da una incorrotta donna, e da temperati uomini, che più all' onore dei Fieschi che ad un ozio misto d'infami voluttà, o ad ambiziosi e nefarj pensieri miravano.

Nè la peste venne solo da fuori: fra le domestiche mura stesse covava il veleno. La madre di lui, siccome è fama, non avendo prudenza uguale alla fortuna, con incessanti punture l'animo del figliuolo, già cotanto di per sè stesso altero, andava stimolando, ora vile e scordevole chiamandolo, ora con lui con dolenti e sdegnose parole lamentandosi, che pigramente sofferisse la bassa e indegna fortuna, in cui erano i Fieschi caduti. Ove sono, diceva, gli onori, dove la potenza antica? Vedesse ora superbi ed in possessione della somma delle cose i Doria, quei Doria che ai tempi andati la sua famiglia, amica sempre e fautrice dei popolani, aveva tenuti in freno o castigati delle loro opere di tirannide: farsegli avanti, per verità, Andrea con vezzi, e con carezze, ma i vezzi di un Doria ad un Fieschi essere insulto; i vezzi fra queste due famiglie dover esser le sanguinose battaglie, e chi vince di loro signoreggi, e il vinto serva, perchè le carezze sono pessima accompagnatura del

l'odio. Del resto, se Andrea vezzeggia, Giannettino minacciare, e superbo già tentare, vivente ancora il vecchio, il supremo comando; aver a considerare Gianluigi del Fiesco se, dopo di avere sopportato le ingiurie adulatorie dello zio, avrà ancora a sopportare le ingiurie tiranniche del nipote; da ogni parte esservi avvilimento, in ogni parte umiliazione. Oh! se pure, soggiungeva l'irritata e superba madre, oh! se pure in Gianluigi vivessero i generosi spiriti de' suoi maggiori, o la patria sarebbe libera dallo Spagnuolo e Doriesco giogo, od almeno noi a nessuno serviremmo.

Queste amare parole maravigliosamente accendevano il giovane insofferente, ed erano, per servirmi dell' espressione di un egregio scrittore che vide di presenza queste cose, nell'animo di lui, come unghie in piaga.

Compagni in tali instigazioni alla madre si aggiungevano tre uomini, che potevano in lui quanto volevano, e pure sempre il male e il peggio volevano, un Vincenzo Castagno da Varese, suo cameriere, e non incauto satellite delle sue cupidità, un Raffaele Sacco da Savona, giureconsulto, suo consigliere ed anzi giudice a terminar le liti fra gli abitatori delle terre a lui soggette, che molte erano e popolose, e finalmente un Giambattista Verrina, genovese, uomo d'incredibile audacia, ma cupa e velata, dal quale tanto maggior pericolo sovrastava quanto conosceva bene i tempi d'insorgere. Costui, vicino di casa al Fiesco, ed assai agiato dei beni di fortuna, se l'era in poco d'ora guadagnato, e prestandogli danaro, di cui nei suoi stravizj aveva spesso bisogno, e nei più difficili casi consigliandolo, era giunto a tale che governava in gran parte le sue faccende, e dove volesse facilmente il volgeva. Fra costoro i mezzi di voltar Genova ad altro destino si andavano ogni giorno nei più segreti nascondigli del palazzo dei Fieschi esaminando, e preparando. Già con la mente godevano di avere la patria in preda, e del compimento del loro fello desio

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