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(1548-49) scoperte, secondo il solito, dal duca Cosimo, e da lui rivelate al minacciato signore, per modo che non sortirono nessun effetto. Era veramente Cosimo il più astuto e vigilante spiatore, che mai fosse stato, o fosse, o fosse per essere al mondo, e chi si diletta di queste cose si dee specchiare in lui. Il Re se ne tornava, dopo di essere dimorato poco spazio in Torino, in Francia, dando voce di essere venuto ad onorare le nozze di monsignor d'Omola, figliuolo del Duca di Guisa, che si aveva presa per moglie la primogenita del Duca di Ferrara. Erano venuti a fargli onoranza in Torino i Legati del Papa, del Duca di Firenze e della Repubblica di Venezia.

Parma e Piacenza, nobili città, ma parte di piccola dizione, han da somministrare materia ad un grave incendio, ed a rimettere Italia in nuove turbazioni. L'Imperatore, avuta Piacenza per congiura, pensava ad acquistar Parma o per forza o per trattati col Papa. La forza non aveva avuto buon successo, non essendo riuscito a don Ferrante d'impadronirsene, contuttochè vi avesse impiegato ogni più pronto sforzo. Restava il mezzo dei negoziati. Mandava adunque dicendo al Pontefice, che ad ogni modo voleva aver Parma, come possessione imperiale, offerendo per cambio al duca Ottavio, in cui era caduta per ragione d'eredità, buone ed onorevoli rendite di stati, non specificando però nè quali, nè quante, nè dove. Poi gl'Imperiali tornarono in sull'offerire ai Farnesi Siena in compenso della contesa città. Al primo partito il Duca di Firenze assai confortava il Papa; il che anche facevano tutti coloro che amavano Paolo, temendo che questo negozio non fosse per partorire, se presto non si acconciasse, molto travaglio e gravi guerre all'Italia. Quanto alle seconde offerte, per arte solamente e per guadagnar tempo le faceva, sperando che così presto non si spedirebbero, e che intanto il Papa, siccome già pervenuto all'ultima vecchiaja, sarebbe mancato di vita.

147 Paolo se ne stava molto perplesso intorno a quello che avesse a farsi. Nutriva pur egli sempre desiderio di conservare quel ricco patrimonio nella sua famiglia, ma si era ultimamente rivolto con l'animo a non lasciar Parma al duca Ottavio, siccome quegli che si mostrava aderente all'Imperatore; conciossiacosachè in questo tempo egli trattasse confederazione col Re di Francia, di cui uno dei capitoli era, che quella città di gran momento fosse in mano del genero del Re, vale a dire del duca Orazio, fratello minore di Ottavio. Il Re ne pregava il Papa insieme con tutti i parziali di Francia, promettendone la difesa con tutte le forze, e la protezione dei Farnesi. Che se poi la confederazione non si concludesse, voleva il Pontefice riunir Parma con le ragioni di Piacenza alla Chiesa, vendendo ad Ottavio Camerino con qualche altra entrata di conto. Il Soto, confessore di Cesare, che si tramescolava in tutti i consigli politici di quei tempi, aveva dato occasione a Paolo di così deliberare, con aver detto al nunzio Bertano che finalmente, se quelle due città non erano dell'imperio, dovevano essere della Sedia Apostolica, e non di casa Farnese, che non aveva in esse ragioni di sorta alcuna. Il Papa aveva significato all'Imperatore, che siccome con buona intenzione aveva posto Parma e Piacenza in una signoria particolare, così con la medesima le ricongiungerebbe alla Chiesa e già aveva fatto comandamento a Camillo Orsino, che stava tuttavolta alla custodia di Parma, di tenerla in nome della Chiesa, nè ad alcuno senza sua chiara commissione la cedesse.

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Il duca Ottavio, vedendosi schiuso dalle sue speranze di aver Parma, poichè aveva conosciuto la yolontà contraria sì del suocero che dell'avolo, pensò d'insignorirsene per furto, e recarla in mano sua per forza. Partitosi improvvisamente di Roma, senza dir cosa alcuna a nessuno, nemmeno al cardinal Farnese, suo fratello, dubitando che non ne facessero consa

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(1549) pevole il Papa, se ne venne in sul Parmigiano. Tentó primieramente l'Orsino, acciò lo mettesse dentro, come padrone od almeno come gonfaloniere della Chiesa; ma l'Orsino non si lasciò muovere, restando fedele alle intenzioni del Papa. Ciò non gli riuscendo, il Farnese fu messo dentro per una porta da Sforza Santa Fiora, suo partigiano, e postosi in casa i San Vitali, mandò invitando a cena Camillo con animo o di ritenerlo prigione, o forse d'ucciderlo, poi seguire il resto con impadronirsi della città e del castello. Ma egli, conoscendo l'inganno, non si lasciò tirare, anzi mise in ordine i suoi soldati per essere in grado di resistere a quanto potesse accadere. Ottavio allora crucciato e sdegnoso usciva di Parma con minaccia di assediarla.

Il Papa, inteso il fatto, si commosse a gravissimo sdegno, parendogli che gli nascesse scompiglio a quanto sino a quel dì aveva divisato, e recandosi a grande ingiuria, che il nipote avesse in tanto dispregio i suoi comandamenti. Per lo che, tutto pieno d'ira, e maledicendo il destino che gli aveva fatto uccidere il figlio, e disubbidiente il nipote, scrisse ad Ottavio incontanente, che dovesse senza indugio alcuno tornarsene a Roma; poi pel medesimo effetto gli mandò dietro il cardinal del Monte, legato. Ma il giovane Farnese, indispettito per lo scorno che per ordine del Papa aveva patito a Parma, rispose che nol voleva fare a modo niuno; e disposto ad appigliarsi a qualunque più strano partito, piuttosto che non divenire signore di Parma, andava volgendo per la mente cose che erano per riuscir fatali all' invecchiato e doloroso Pontefice. Mandò dicendo a Ferrante Gonzaga, quello stesso che si era accordato coi siearj per ammazzargli il padre, che se l'avesse ajutato a ricuperar Parma, l'avrebbe tenuta a nome e ordine dell' Imperatore. Rispose don Ferrante, che ciò farebbe volentieri, purchè avesse certezza che Ottavio sinceramente avrebbe operato per comodo e servizio del padrone. Scrisse Ottavio al cardinal suo fratello

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149 avvertisse il Papa, che se non si muoveva a rendergli Parma, avrebbe fatto pace col Gonzaga, e s'ingegnerebbe con le forze di Milano di racquistare ciò che con tanto suo torto e scorno gli era dall'avolo dinegato; nè ciò essere difficile a riuscire: avere dentro molti cittadini amici, difettarvisi di viveri, don Ferrante prender tutti i luoghi per cui si poteva condurvi vettovaglie, e male resistersi alla volontà di un Imperatore vincitore del mondo.

Il cardinale lesse la lettera al Papa, dalla quale il vecchio Paolo ricevette tanta perturbazione d'animo mescolata con ira e sdegno che, mancandogli lo spirito, subitamente tramorti. Fu sostenuto dai circostanti, perchè stava per cadere, e, posto sopra un letto come morto, ritornò appoco appoco in sentimento ; ma la rabbia e il dolore l'opprimevano. Gli soccorreva alla mente, quest'atroce ingiuria venirgli da un Farnese, da un nipote, da un figlio di suo figlio, cui, per aver troppo amato e datogli stati di Chiesa, aveva oscurato la propria fama; venirgli da colui ch'egli aveva sempre con tanto amore abbracciato da colui ch'egli aveva fatto ricco, onorato e signore di molti stati: quest' istesso ingrato nipote ora collegarsi ai danni suoi col suo crudel nemico, con quel Cesare stesso che prima turbava la religione vera, poi_gli stati legittimi d'altrui; ora collegarsi con un Ferrante Gonzaga, collegarsi (per usare le parole del Pallavicino) con quella spada che ancora non era asciutta del sangue del suo figliuolo. Poi, vedendo approssimarsi l'ultima fine, convocava a fretta i cardinali, gli esortava ad adoperarsi a beneficio della Chiesa loro dava facoltà di deliberare anche prima della sua morte. Finalmente, o un ripullulare di affetto paterno, o il pensiero che fosse meglio per la sua famiglia confidarsi in Carlo che in Enrico, che sel facessero, ordinava per un Breve a Camillo Orsino di restituir Parma ad Ottavio. Il che però eseguir non volle, contrapponendo che a rivocare la deliberata

(1549) volontà di un pontefice sano di corpo e di mente non valeva la tumultuaria dello stesso moribondo e per avventura senza perfetto discorso.

Intanto sopraggiunta al Papa una febbricina, poichè furono estinte in lui tutte le forze dal morbo e dall'angustia dell'animo, si morì il terzo giorno ai nove di novembre con mala soddisfazione verso i suoi due nipoti, e con odio acerbissimo contro Cesare, pontefice, di cui la vita privata fu poco lodevole, quantunque non sia vero tutto quello che ne scrisse il Tuano nelle sue Storie, e la vita pubblica infelice, si per le calamità della famiglia, come per l'inimicizia di Cesare, che gli turbò tutte le faccende del Concilio; ambiziosi ambedue, l'uno per aver voluto comandare al mondo coi cannoni, l'altro per aver dato in preda, a fine d'ingrandire i suoi, due principali città italiche ad un empio venuto in odio agli uomini ed al cielo.

Nel tempo della sedia vacante, il collegio dei cardinali raffermava all'Orsino l'ordine di consegnare Parma ad Ottavio. Ma egli, sospettando che tale risoluzione fosse opera del cardinale Farnese, assai potente in quel consesso, ricusava, rispondendo che aveva Parma in guardia per comandamento di un papa, e che non poteva lasciarla se non per comandamento di un papa.

FINE DEL LIBRO SETTIMO.

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