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(1550) carezzato dal Re e da tutta la corte, sì perchè franco e valoroso cavaliere era, e sì per appicco delle cose d'Italia. Egli, siccome tutto Francese per affetto e per parentado, già da molto tempo spiugeva gli altri fratelli al medesimo cammino, dimostrando loro che mai Piacenza da Cesare ricuperare non potrebbono ; che l'Imperatore, non contento di Piacenza, voleva anche aver Parma; che da per sè stessi non si potevano difendere; che la Chiesa stessa era inabile a ciò fare; un ben più alto, un ben più potente patrocinio essere loro necessario per sostentare le cose loro, nè poter essere altro che quello del potentissimo Re di Francia, amico degli oppressi, sdegnato all' insaziabile cupidigia di Cesare.

Il Cardinale ed Ottavio udivano amorevolmente i consigli del fratello Orazio, ma pure si andavano indugiando per isperanza che finalmente Cesare, pregato anche dal Papa, rimetterebbe dalla sua durezza, e lascerebbe il genero godersi tranquillamente l'eredità paterna. Ma quando s'accôrsero che il tardare maggiormente non poteva fruttar altro che danno per loro, e dar tempo al Gonzaga di sfogare l'eterna sua nimicizia, e vedendo la ruina loro imminente, condiscesero a' suoi conforti, e cominciarono a trattare col Re di Francia della sicurezza loro.

Narrano alcuni che Ottavio, prima di venire a tal deliberazione, avesse fatto sapere le sue angustie al Papa, chiedendogli consiglio ed ajuto, e che Pio si fosse scusato con le strettezze della Sedia Apostolica, dicendogli che s'ajutasse, e scampo trovasse come potesse; dal che il Duca traesse una tacita licenza per munirsi da qual parte il potesse. Ma se tale fu la risposta del Papa, ei la diede certamente a bocca, non per iscritto, nè Ottavio l'addusse pubblicamente nelle cose che seguirono, nè il Papa funne impedito dall'inveire acerbamente, e dall'armarsi gagliardamente contro i Farnesi per la risoluzione presa da loro di gettarsi in grembo della Francia,

Il Papa, sospettando del Trattato tra i Farnesi ed il re Enrico, si commosse gravemente, e prevedendo i mali che ne seguirebbero, scrisse nuovamente all'Imperatore con caldissime parole, invitandolo a mettersi giù dall'impresa, ed a lasciare il quieto vivere al genero Ottavio ed alla figliuola sua Margherita. Scrisse medesimamente al Re di Francia, esortandolo in termini molto efficaci a non prender parte nella faccenda dei Farnesi, e a non turbare con un inopportuno consiglio la quiete d'Italia. Poscia ai Farnesi medesimi indirizzandosi, comandava loro che sotto pena di ribellione non istessero a cercar patrocinio altrove che presso alla Sede Apostolica, e che sotto la medesima pena da simile pratica con Francia desistessero.

Sentito il comandamento del Papa, Ottavio rispondeva che non era più a tempo, che già si era messo in protezione del Re, che nondimeno conserverebbe Parma a divozione della Sede Apostolica, la quale non essendo abile a difenderla con le proprie forze doveva aver caro che con quelle di una Francia si difendesse.

Non così tosto ebbe il Pontefice contezza di una trasgressione tanto grave, che, non potendo frenare in sè medesimo l'indegnazione, giva protestando con voce terribile che ne farebbe vendetta, e che i Farnesi con le sentenze e con l'armi perseguiterebbe. Gli cuoceva infatti vivamente, che coloro che egli aveva abbracciati con tanto amore, che i suoi feudatarj stessi, tanto beneficati da lui con titoli onorifici, essendo sempre Ottavio gonfaloniero della Chiesa, e con qualche cosa più che con 'titoli, si fossero arrogati di fare non solo senza suo consentimento, ma ancora contro i suoi ordini espressi una deliberazione, in cui si trattava degl' interessi della Santa Sede e dalla quale era per nascere una grande perturbazione nell'assetto d'Italia. Di ciò ancora massimamente si doleva, perchè l' Imperatore avrebbe sospettato che non

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(1550) senza sua saputa, e forse partecipazione, questo Trattato tra Francia e i Farnesi si fosse fatto. Sapeva the Cesare il credeva d'animo francese, perchè dai cardinali Francesi principalmente era stato fatto papa. Pure egli volevasi conservare, od almeno dimostrare neutrale fra i due potenti principi, e non poteva senza sdegno e rammarico considerare che fosse cavato fuori dalla professata neutralità per mezzo di una risoluzione, piuttosto opera dell' altrui volontà che della sua.

Per mitigare l'animo di Cesare, ebbe Giulio pensato ad un buon mezzo, e questo fu di rimettere in piede il Concilio in Trento, deliberazione soprammodo desiderata dall'Imperatore. Già, tosto che era stato assunto, aveva operato che i prelati di Bologna dichiarassero, essere cessata la causa della traslazione; onde gli veniva aperta la strada di rimetterlo donde era venuto. Ora, accostandosi più risolutamente al negozio, convocava con Bolla dei quindici novembre di nuovo il Concilio in Trento pel primo di maggio dell'anno avvenire. Poi nominava a presidenti il cardinal Crescenzio, il Pighino, arcivescovo Sipontino, e il Lippomano, vescovo di Verona.

Non era da sperarsi che questa seconda tornata del Concilio partorisse pei Protestanti migliori frutti che la precedente, e ciò per le ragioni già da noi più volte raccontate, ma poteva riuscire di non poca utilità al gregge rimasto cattolico; perciocchè se quivi non vi erano opinioni corrotte da sanare, eranvi molte prave consuetudini e molti scandalosi abusi da correggersi. Poi la convocazione conveniva alle mire politiche dell'Imperatore e del Papa.

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Fra tanta aspettazione di cose future, nuovi semi di turbazione si gettavano in Italia. Siena, strazio scherno e cupidigia dei forestieri, non di uno, ma di più, ci darà il doloroso esempio. Gli Spagnuoli la tenevano, il Mendozza la governava; quelli rapivano con ferocia, questi con lusinghe; le sostanze pubbli

che e private ne andavano a ruba. La trama dei Farnesi dispiaceva a Carlo, i Francesi gli davano sospetto; Piombino incapace di difendersi, di Cosimo si fidava, ma pur sapeva che non amava i forestieri, e che avrebbe voluto veder Siena piuttosto sua che d'altrui in somma, Cesare temeva di Siena; il Mendozza, desideroso di maggior tirannide, là dove già ne esercitava molta, lo stimolava. Non mai si contentavano già avevano in Siena una guardia di più che mille fanti spagnuoli introdottivi con diversi pretesti; già avevano occupato, quasi come una fortezza, il convento ed il monastero di San Domenico, la piazza, il palazzo e la porta di Camollia; già vi facevano continuamente la guardia; già si avevano fatte dare le armi private e tolte le pubbliche; già tenevano i luoghi più forti del dominio e i più importanti, Orbitello, Portercole ed alcune fortezze. Ma tutto ciò loro non bastava, e vennero in sul capriccio di fondare in Siena una fortezza. Venivano da Roma e da Milano soldati ed architetti per consultar fra di loro come ed in quale luogo si avesse a porre quel freno ai Sanesi. Se lo seppero i miseri cittadini, e come se fosse sopravvenuta loro addosso la più estrema di tutte le calamità, facevano pubblicamente preghi a Dio e voti e processioni, portando imagini di santi e crocifissi, nei quali il popolo aveva più divozione. Credevano con ciò di tôrre quella opinione dalla mente di Cesare, o far nascer cosa per cui egli fosse per levarsene dal pensiero. Ma Cesare a crocifissi non si muoveva; il Mendozza ancor meno, se non eran d'oro: e Dio non ajuta se non chi si ajuta. Mandarono Girolamo Tolomei ambasciatore a Cesare: Cosimo, che disegnava di rendersi grato ai Sanesi, glielo raccomandava.

Introdotto il Tolomei al cospetto dell'Imperatore, esponeva la miseria ed il terrore della sua patria per la divisata fortezza; che sempre la città di Siena, comunque il suo governo avesse variato, o dai gentil

(1550) nomini a quei de' nove, o da questi al popolo, o dagli uni e dagli altri ai riformatori fosse passato, sempre era stata imperiale; che il sospettare della sua fede era un offenderla in ciò di cui più ella si vantava; che nelle altre città d'Italia divise per discordia, quando l'una parte era imperiale, l'altra subitamente si gettava alla parte avversa o Guelfa o Francese che si fosse; ma che ciò mai in Siena non si era veduto, dove, ancorchè più fossero le parti, niuna mai corse per ajuto ad altro principe che l'Imperatore, e le discordie sanesi non erano mai uscite dalla città o dal dominio. Se adunque degli animi dei cittadini Cesare era sicuro, perchè la fortezza, perchè la desolazione della fedel città? Non volere altro i Sanesi che sotto l'ombra imperiale godersi la loro libertà, la quale mettevano innanzi a tutti i beni umani; questa credere aver perduta ogni volta che vedrannosi sopra il capo una cittadella; non dubitar loro della buona mente di Sua Maestà, ma chỉ del futuro poteva presumere, e che ne' suoi discendenti fosse la medesima generosità che in lui? Libero essere il Duca di Firenze, libera Genova: perchè sarebbe Siena serva? Vedesse quanti sospetti farebbe Borgere il non onesto pensiero nel Papa, in Cosimo, nelle Signorie di Genova e di Venezia; vedesse quanta macchia apporterebbe al nome suo e quanto oscurerebbe le sue geste immortali: riguardasse adunque, supplicava, le preghiere di quella infelice città; contemplasse le lagrime di tutto quel popolo, il quale per lui ambasciatore lo pregava che, lasciato andare così fiero proponimento, si contentasse di ogni altra sicurtà che dalla città potesse desiderare, proponendo ed offerendo eziandio i pegni più cari ed ogni altro legame ed obbligo che gli piacesse.

Cesare rispose che tutto quello che sopra gli affari dei Sanesi si era risoluto, era stato per benefizio ed a salute di quei cittadini, acciocchè ciascuno vi potesse godere il suo sicuramente, e che a ciascuno vi si mi

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