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271 gliati. Insolentivano intanto, come vincitori, i soldati del Duca, massime gli Spagnuoli; e la città, contuttochè il Conte di Santafiore s'ingegnasse di frenare tanto furore, era piena di risse, d'ingiurie e di rubamenti. Cosi della libertà e dell'antica signoria di sè medesima non restava altro a Siena che il nome; poi anche questo fu spento, come fra breve vedremo, verificandosi, secondo il solito, a ritroso la promessa dei potenti di conservare la libertà ai deboli.

Dopo la presa di Siena gli accidenti della guerra in Toscana s'intiepidirono. Piero Strozzi si ritirava in su quel della Chiesa. Portercole, Talamone, Castiglione si arrendevano al Marignano. Successe in Portercole un fatto lagrimevole, chè ivi fu preso Ottobuono dei Fieschi, fratello di Gianluigi, e dal Duca dato in potere d' Andrea Doria, che per vendetta di Giannettino, come se già non l'avesse avuta, legato in un sacco il fece mazzerare; atto veramente crudele e dannabile, ma in quell' età, se v'era spesso negli uomini più chiari la grandezza d'animo che vince altrui, di rado v'era quella che vince sè medesimo. Poi i Turchi vennero con le spalle dei Francesi ad assaltar Piombino, ma restarono vinti con molto sangue. Quindi infestarono, e desolarono l'Elba, postisi a Porto-Longone; ma tale fu la guardia che fecero i soldati di Cosimo in Porto-Ferrajo, che quella peste di Costantinopoli ricevè più danno che non ne fece, e fra breve fu costretta ad andarsene.

In questo, il marchese Marignano, travagliato da malattia mortale, lasciava il governo delle genti ducali a Chiappino Vitelli, ritirandosi con isperanza di ricu perare la salute a Milano, sua patria; ma quivi finì di vivere nel mese di novembre: accorto, ma poco attivo capitano. Si vantava della presa di Siena, ma Cosimo se ne vantava più di lui come di operazione propria; e veramente si vede quali accidenti avrebbero potuto nascere capaci di sturbar l'impresa, s'ella fosse stata tirata in lungo, come il Marignano voleva,

(1555) lentezza che interruppe Cosimo co' suoi risoluti comandamenti.

Mentre in tanta turbazione travagliava la Toscana, i Francesi non avevano quietato in Piemonte, e già insin dall'anno passato vi avevano fatto acquisti importanti. Presero Ivrea, Masino, Santià: il maresciallo Brissac innalzava l'animo a più alte imprese; al che gli dava facilità il poco presidio di Spagnuoli che allora era nel Milanese, i disordini cagionativi nelle rendite dello stato dalla rapacità del Gonzaga, e la novità dell'amministrazione del conte di Figheroa, mandatovi in iscambio di don Ferrante, chiamato in corte per sentirsi a dire in processo quanto contro di lui querelavano i popoli del ducato.

Brissac voltava l'animo ad impossessarsi di Casale, città grossa e ricca, e posta in luogo da accennare facilmente sovra Milano. Viveva in quei tempi in Casale un maestro di scuola, il quale cupido, come quello dei Falisci, dei prezzi che ricevono i traditori, si pose in mente di dare la città al nemico. Stando egli di casa vicino alla porta che dà al Pò, aveva osservato che per un torrione interposto ed una svolta di muro s'impediva alla guardia della porta di vedere chi venisse verso la città da quella parte. Per un soldato, chiamato Pontestura, suo cugino, ed ai soldi di Franeia, il faceva sapere al capitano Salveson, e questi al Brissac, offerendosi ad essere conduttore del fatto, come n'era l'indicatore; ma voleva dodici mila scudi per lui, sei mila pel Pontestura. Brissac accettava l'offerta, e si metteva all'opera. Correva l'ultimo giorno del carnovale; Figheroa, venuto a Casale per divertirsi, vi faceva un bel torneo con gran concorso di cavalieri e di dame, le quali, come dicono i Francesi, ed han ragione, sono molte e molto belle in Casale. Ma quel destro Brissac era per turbare la festa. Ordinava, che Salveson, scendendo da Chivasso, tagliasse le corde di tutte le piatte tirabili di Crescentino, Gabbiano, Pontestura, Camino e la Motta, e ti

273 rasse le piatte sulla sinistra del fiume, affinchè nessuno potesse recare sulla destra le novelle di quanto succedeva dall'altra parte, ed egli avesse abilità di traghettar le truppe destinate al conquisto di Casale. Diede a Salveson trenta soldati speditissimi, e fornillo di scale atte a scalar le mura. Egli poi voleva seguitare con mille dugento archibusieri e trecento cavalli. Avvertiti dal Maestro di scuola, e condotti dal Pontestura la notte ultima del carnovale, arrivarono al luogo appostato, passarono non veduti il fosso, e fatto impeto improvviso nella porta, di cui uccisero immantinente i custodi, se ne fecero padroni. Corsero poi la città, dove, non trovata quasi nessuna resistenza, recarono ogni cosa in loro potere. Quattrocento Tedeschi, che vi erano di guardia, si ritirarono nella cittadella. Ricoverovvisi anche il Figheroa in camicia, sorpreso da si inopinato accidente. Trovarono i vincitori molte provvisioni di guerra con tre cannoni, che tosto voltarono contro la cittadella. Trovarono anche molti belli abbigliamenti da maschera, e molti galanti giovinotti bene attillati, da cui si fecero dare per riscatto da sessanta ad ottanta mila scudi.

I tre cannoni non bastavano per espugnare la cittadella. Brissac ne mandava dieci con cinque colubrine da Torino a seconda del Pò. S'impadronirono per due bravi assalti di due rivellini, ma ancora si difendevano negli altri luoghi quei di dentro virilmente. Infine Brissac, sceso nel fosso, tirava con le artiglierie dentro le volte che sottostavano al castello, con che minacciava di far crollare e rovinare quanto stava di sopra. Gl'Imperiali diedero la piazza, donde già il Figheroa si era fuggito di nottetempo, riparandosi tutto confuso in Alessandria.

I Francesi, quasi del tutto signori della campagna, si mettevano intorno a Volpiano, e non l'acquistarono una prima volta, ma sì una seconda. Bene s' impadronirono, dopo forte contrasto fatto loro dal Conte della Trinità, che ne aveva la custodia, di Valfnera, Botta, vol. II.

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(1555) sito in quei tempi di non poca importanza, perchè dava il passo da Torino ad Asti, città allora sotto il dominio degl'Imperiali. Arrivava il Duca d'Alba alla guerra del Piemonte con nuovi ajuti, ma vi fece poco frutto, stando sempre Brissac molto desto all' ertà, ed interrompendogli tutti i disegni.

Non è da passarsi sotto silenzio che quantunque la principale opera in questa guerra del Piemonte fosse dei soldati dell'Imperatore, siccome quelli che molto più numerosi erano che quei del Duca di Savoja, non mancavano però i ducali di partecipare in tutti i fatti, tenendo per tal modo rizzate al vento le bandiere piemontesi, e facendo segno che ancora viveva il signore di quei territorj, sopra i quali i forestieri delle due parti con tanta rabbia s'avventavano gli uni contro gli altri e commettevano si crudeli battaglie.

Accidenti di somma importanza ora mi chiamano in altra parte. Verso il finire di marzo papa Giulio III passava a miglior vita piuttosto ucciso da sè che dal male, perchè, travagliando di gotta, si era messo in animo di farla morire, come diceva, con estremarsi il vitto; ma, in vece di troncar la gotta, troncò la vita a sè per astinenza, non avendo potuto il suo corpo vasto ed il suo forte stomaco sopportare una si gran privazione.

Seguitarono in conclave i soliti contrasti tra le due parti Francese e Imperiale, contendendo l'una e l'altra per avere un papa affezionato. Ma i cardinali fecero più presto dei politici; perchè, mentre i trattati andavano attorno, elessero a sommo pontefice, non per via di squittinio, ma per adorazione, Marcello Cervini, avendogli facilmente i Francesi consentita l'elevazione per la poca grazia in cui l'aveva l'Imperatore, nè avendola dissentita gl' Imperiali, perchè il giudicavano, come era veramente, persona savia, quieta e prudente; di cui scrivendo, disse il Seripando, uomo in quell' età dottissimo e santissimo, che il Cervino aveva meritato che di lui si dicesse ciò che gli antichi dissero di Catone: 0 te felice, Marco Porzio,

275 a cui niuno ardisce di chiedere cosa rea! Assunse il nome di Marcello II.

Certo è che questo egregio Pontefice erasi proposto di riformare coll'esempio proprio e con buone ordinazioni i corrotti costumi della corte Romana, e di ridurre a modo e vita più lodevole e più convenevole i chierici, giudicando che la santità dei costumi di coloro che attendono particolarmente al ministerio della Chiesa, e la moderazione degli usi curiali di Roma, fossero attrattivi molto potenti per rimenare nel grembo della Chiesa i dissidenti. Per la qual cosa era sorta di lui una grande aspettazione di bene in tutto il mondo solo quelli che vivevano degli abusi, non se ne contentavano.

Non solito a cambiare gli affetti privati in pensieri pubblici, si dimostrò Marcello alieno da tirare a grandezza i nipoti, e, tutto intento agl' interessi della religione, aveva creato una congregazione di cardinali col carico di esaminare la materia delle riforme, e proporre quelle che loro paressero di maggiore necessità ed utilità. Stante poi la natura quieta di Marcello, e l'ornamento delle lettere, che in lui era tale che a tutti i letterati di quei tempi era caro e venerando nessuno dubitava che le riformazioni, che da lui si aspettavano, non avessero fonte piuttosto nella benignità che nella durezza. La dolcezza del nuovo Papa era per temperare l'asprezza prodotta da tante guerre e discordie religiose. Ma il cielo non volle che la terra godesse i frutti di tanta virtù, e pur troppo presto richiamollo a sè, come anima non convenientesi a stare lungamente fra i contaminati ed arrabbiati uomini. Soprappreso da grave catarro, contratto per le fatiche della Settimana santa, superiori alla forza del suo corpo, ma non del suo animo, ventidue giorni poscia che aveva cominciato a regnare, finiva la vita, spegnendosi con lui un gran lume d'Italia, e insieme ogni speranza di bene. La brevità del suo pontificato, la subitezza della morte, le riforme che aveva in animo

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