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di fare, note a tutti, odiose a molti, fecero correr voce che fosse stato avvelenato: alcuni scrittori diedero anche ciò per vero. Noi, siccome non abbiamo certezza in tanta lontananza di tempo e diversità di scrittori, così diremo che sentenza più probabile si è, che la sua morte sia stata naturale, non violenta, nè cagionata dalla malvagità degli uomini; ma quei romori stessi, forse sparsi ad arte, quantunque senza fondamento certo fossero, dimostrano quanto pericolosa cosa fosse il voler fare riforme di corte e di curie.

Morto papa Marcello, si rinchiusero un'altra volta i cardinali per creare un successore. Sorsero, come sempre, a contrastar fra di loro le parti Imperiale e Francese, ma ciascuna di esse era discorde fra sè medesima, perchè degl' Imperiali chi amava veder papa Carpi, chi Fano, chi Morone, chi Puteo. Dei Francesi chi volgeva il favore a Polo, chi al Ferrara, chi al Cardinal di Napoli. Il negozio si condusse a tale che per poco il Puteo non fu eletto; ma essendosi gagliardamente contrapposto alla sua nominazione il cardinal Farnese, finalmente i cardinali il dì ventitrè di maggio crearono nuovo pontefice Gianpietro Caraffa, cardinale di Napoli, e decano del Sacro Collegio: fecesi chiamare Paolo IV.

Varj erano i concetti degli uomini intorno alla persona di questo Pontefice. Consideratasi da alcuni l'età sua oggimai decrepita, l'austerità dei costumi, la ritiratezza della vita, la creazione fatta da lui di una nuova religione di umili e divote persone sotto_nome di Chietini, stimavano lui dover essere buon padre, nè che si dovesse intromettere in guerre o in cose di stato tra Francia e Spagna, benchè avesse cagione di non essere contento dell' Imperatore, che gli aveva conteso lungo tempo il possesso dell'arcivescovato di Napoli. Altri poi, riflettendo alla sua aderenza non dubbia verso Francia, all'ingiurie ricevute dall'Austria, alla grandezza della casa ed alla molta dipendenza ch'ella aveva nel Regno, non si potevano persuadere

277 ch'egli fosse per riuscire un pontefice di quieta e rimessa vita, e temevano che fosse per portar fuoco al gravissimo incendio che già consumava il mondo, principalmente l'Italia.

Non tardò Paolo a tôrre dalle menti ogni perplessità: l'ambizione che aveva tenuta coperta molti anni, sboccò fuori improvvisamente, come se avesse rotto un argine, a produrre effetti prima superbi, poscia tremendi. In somma Dio non voleva che l'Italia quietasse, e il padre, che sedeva sul Campidoglio, incitava i figliuoli a straziarsi.

Interrogato l'umile fondatore dei Chietini, divenuto Papa, come voleva che gli fosse apparecchiato, rispose, come a gran principe. Volle essere coronato con pompa grande e insolita, e servito da persone illustri e da baroni di prima condizione, mostrando in tutte le sue azioni una grande arroganza ed un'alterigia ancor maggiore. Si aggiungevano non di rado eccessi di collera, che il rendevano, parte terribile, parte sprezzabile. Poche settimane dopo la sua creazione non ebbe riguardo di trattare a pugni ed a calci il Luogotenente del governo di Roma, e di pelar la barba ad un Ambasciator di Ragusi. Maltrattava con villane parole le persone di miglior qualità; il che non era nè da papa, nè da un Caraffa, nè da gentiluomo, nè da uomo civile. L'Ambasciatore del Duca di Firenze senti il suo naturale rotto e superbo, essendo stato da lui svillaneggiato con termini molto indecenti: perchè, avendo Cosimo dichiarato ribelle l'Arcivescovo di Firenze, e sequestrati i frutti di quella Chiesa sul monte di pietà, voleva il Papa che gli fossero restituiti; ed essendosi risposto da parte del Duca, che le rendite ecclesiastiche non dovevano servire d'ajuto ai ribelli per far guerra al loro principe, pretendeva che la causa della ribellione si conoscesse in Roma, nè sofferendo cosa detta in contrario, scacciò con modi assai villani l'Ambasciatore dalla sua presenza, chiamando Cosimo figlio del diavolo.

La superbia verso gli estrani degenerava poi in eccessiva affezione, vizio troppo frequente dei pontefici, verso la propria famiglia. Non così tosto Paolo fu assunto, gli furono intorno gran numero di nipoti, e di baroni napoletani, il Conte di Montorio, don Antonio Caraffa, figliuoli di fratello, e don Carlo Caraffa, ribello di Napoli, soldato francese, e che poco innanzi sotto Piero Strozzi aveva tenuto la cura di Portercole con condotta di cavalli e di fanti. Diede anzi pochi giorni dopo a quest'ultimo l'abito e la dignità di Cardinale con maraviglia di ognuno, perchè don Carlo era uomo fiero, e atto più ad ogni altro mestiere che a vita e ad ufficio di chierico, e, oltre a ciò, persona inquieta e bizzarra, e, come ribello, nutrito nelle armi e vago di travaglio e, di vendetta. Così prima operazione di Giulio III fu crear cardinale un ragazzaccio spurio, e prima operazione di Paolo IV il dare la medesima dignità ad un soldataccio. Non so a che pensassero, massime in quei tempi tanto pericolosi per la Santa Sede, ma certo, se l'impudenza era grande, l'imprudenza era ancor maggiore.

Chiamò per suo primo segretario Giovanni della Casa, prelato di parte francese, e nemico del Duca Cosimo. Tutte queste nominazioni disvelavano l'animo di Paolo.

Grande e pomposo fu, secondo il suo genio, il principio del suo pontificato. Arrivarono in Roma tre ambasciatori d'Inghilterra, mandati già insin dai tempi di Giulio, dalla regina Maria a rendere ubbidienza alla Sedia Apostolica. Ricevuti con grande allegrezza ed impetrata udienza in pieno concistoro, si geltarono a piedi di Paolo, sommessamente domandando perdono per tutto il loro regno per essersi diviso dalla Chiesa Cattolica e dal suo Capo. Narrarono quanto in ciò gravemente avessero peccato, si diedero colpa di essere stati ingrati a santa Chiesa d'infiniti benefizj ricevuti da lei, si confessarono per tanti falli degni di grave disciplina, ma confidando nella clemenza di

quella pia e santa Sedia speravano di essere prosciolti. Promettevano di vivere da quindi innanzi secondo i riti della Chiesa romana, e di cancellare ogni mal uso che prima avessero abbracciato, e pregavano di esser ricevuti come membri di santa Chiesa. Le quali cose fecero con tanto affetto, che a molti concorsi a così nuovo spettacolo si vedeva cader le lagrime dagli occhi.

Il Papa umanamente gli sollevò, e baciandogli perdonò ogni misfatto. Poi a petizione della medesima regina Maria e del Re Filippo diede con Bolla espressa il titolo di Regno all'Irlanda, il quale titolo, già portato da Arrigo e dal suo figliuolo Odoardo, vollero Maria e Filippo possedere per concessione pontificia. Forse il Papa fece bene a dare il titolo suddetto, giacchè gli si domandava, ma se fosse bene nei sovrani d'Inghilterra e d'Irlanda il domandarlo, ogni persona dotata di ragione potrà facilmente giudicare.

Tornata l'Inghilterra al grembo della Chiesa, vi si accesero i roghi per bruciar uomini: questa peste contaminò anche l'Inghilterra. Tommaso Crammero, arcivescovo Cantuariense, vi fu arso, come eresiarca. Condannato a Roma, come eretico ostinato, il braccio secolare della regina Maria eseguiva la sentenza, dandolo alle fiamme.

La contentezza ricevuta dal Pontefice per la rintegrazione dell'Inghilterra venne amareggiata dal recesso della Dieta d'Augusta, il fondamento del quale fu la libertà di religione, e che i principi cattolici non potessero molestare per nessun conto nè i sudditi proprj, nè i principi che seguitavano la Confessione Augustana; la qual cosa ancora si statuiva pei principi protestanti inverso i cattolici. Sdegnossene Paolo, e ne mosse grandi querele. Ma Ferdinando, che in ciò aveva avuto gran parte, si scusava con la necessità, allegando, che quello era il solo modo di consolare la Germania afflitta da tante guerre, e di procurarle la concordia. Le quali escusazioni, sebbene

gli facevano mal suono, ed a patto nessuno le voleva accettar per buone, dicendo che nelle cause di Dio non si dee procedere coi rispetti umani: tuttavia il Pontefice, non potendo muover altro in quel momento, fece le viste di acquetarsi, ma macchinava, e per animo proprio e per instigazione del cardinal Caraffa, contro la potenza di Cesare.

Quanto ai modi di restituire la religione cattolica a quell' autorità e purezza da cui si trovava, pei tentativi di Germania, scaduta, siccome papa Paolo era diverso d'indole da' suoi precessori, così diversa ancora fu la sentenza. Egli opinava, che il Concilio fosse un rimedio fiacco, nè mai si era contentato di vederlo ridotto a Trento, parendogli partito anzi sconvenevole che no far andare tanti vescovi fra le nevi e i dirupi per satisfare ai Luterani. Del resto, egli più stabilmente che qualunque altro pontefice o difensore di pontefice asseriva che i Concilj sono consilj, non giudici, e che tutto spetta al romano pontefice. Aggiungeva che egli era vicario e rappresentante di Cristo in terra, e che sapeva bene quel che Cristo comandava. In somma ei credeva di poter rimediare a tutti i disordini con la sola sua autorità pontificale.

E siccome si era persuaso di non aver bisogno di verun ecclesiastico, così protestava di non aver bisogno di verun principe; anzi intuonava spesso agli orecchi degli ambasciadori, che egli era sopra tutti i principi, che poteva mutare i regni, che era successore di Chi aveva deposto re ed imperatori, che non voleva nessun principe per compagno, ma tutti sudditi sotto questo piede: e, così dicendo, percuoteva la terra col piede, ed affermava ciò esser conveniente, e ciò aver voluto Chi aveva edificato la Chiesa e posto lui in quel grado. La provvidenza l'aveva fatto fare papa già vecchio; chè se fosse arrivato giovane al soglio, con quel suo ardore, o piuttosto furore, avrebbe commosso l'intiero mondo. Pure, malgrado dell'età, ne commosse una parte, come presto saremo per raccontare.

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