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(1556-57) dinal Pacecco sarebbe andato in Ispagna per trovar modo di onesta composizione.

In questo medesimo tempo si rinfrescavano le novelle, e già se ne aveva certezza, che il Re di Francia mandava a difensione della Chiesa un giusto esercito. Già cominciavano a comparire a Lione molti cavalieri e signori francesi, e di Svizzera si muovevano sei mila soldati, ed in Francia si mettevano in ordine buone compagnie di Guasconi, e d'altra gente atta al guerreggiare attivo. A tutto quest'apparecchio si dava per capo il Duca di Guisa; il quale essendo stato, contro il parere del gran contestabile Montmorency, consigliatore della guerra, si stimava doverne essere accomodato guidatore. A ciò si aggiungeva, che il Duca di Ferrara, che insino a questo tempo aveva tenuto in dubbio di quanto fosse per fare, si era tutto scoperto a favore della parte francese, ed aveva accettato il generalato della Lega con molte buone condizioni, Tutto ciò dava che pensare all' Italia, che temeva nelle sue viscere stesse una guerra molto grossa, ed ognuno biasimava l'ambizione di un Papa, che non la voleva lasciar riposare.

Già i Francesi avevano adunato tutte le loro forze in Torino, numerandosi nelle loro schiere diciotto mila fanti e tremila cavalli. Il loro primo pensiero era di andarsi ad unire col Duca di Ferrara, che già si era accostato al Parmigiano e presovi Correggio. Ma il duca Ottavio, benchè si fosse partito dall' alleanza di Francia, non volle, vedendosi in mezzo a forze tanto grosse, scoprirsi di vantaggio, ed aveva preso partito, mostrando neutralità, di dare passo e vettovaglia a chi sulle sue terre trapassasse. Muovevansi i Francesi da Torino, accompagnatosi Brissac, e le genti che dovevano restare in Piemonte, col Guisa e con quelle ordinate ad andare al soccorso del Papa. Per farsi la via libera sul Tortonese, e quindi sul Piacentino, s'approssimarono a Valenza, terra posta sulla destra del Pò tra Casale e Tortona, con inten

zione di batterla, avendo con sè molta artiglieria condotta da Torino. Era Valenza commessa alla fede del conte Alessandro Carpegna, con alcuni soldati italiani e certo numero di Grigioni, di quelli del Cardinal di Trento. Battutasi furiosamente la piazza dai Francesi, i difensori, o per viltà d'animo o per forza di corruttele, si arresero, senza molta difesa, a patti di uscirne salvi coll' armi. Fu tale dedizione ingiuriosa alla fama del conte Alessandro, il quale però vi rimase ferito, e si scusava con dire che i Grigioni ed i fanti italiani non avevano fatto il loro dovere.

La presa così subita di Valenza sbigotti il Cardinal di Trento e i capi dell' armi in Milano, non si trovando fanteria, nè cavalleria, nè animo, nè altro che bastasse a sostenere l'impeto del nemico, che se con la medesima furia si fosse gettato sopra il terreno di Milano, par da credere che vi avrebbe fatto qualche notabile acquisto. Ma il Duca di Guisa, avendo commissione dal Re di soccorrere in primo luogo alle cose del Pontefice, passato il Tanaro là dove è prossimo a sboccare nel Pò, addrizzava il cammino verso Tortona per andarsene a Reggio, dove il Duca di Ferrara stava aspettandolo con cinquemila fanti ed una grossa squadra di cavalleria si grossa che leggiera. Brissac, fatto compagnia al Guisa sino a Stradella, se ne tornava quindi con ottomila fanti e ottocento cavalli alle sue stanze nel Piemonte. Restarono col Duca di Guisa quattromila fanti francesi, sei mila Svizzeri e duemila cavalli di gente molto eletta.

Convennero in Reggio il Duca di Guisa, quel di Ferrara, e il cardinal Caraffa per consultar ivi su quanto fosse a farsi pel successo prospero della impresa. Dette varie sentenze, fu seguitata quella del Caraffa, che voleva che si corresse difilatamente al soccorso di Roma, e il regno di Napoli s'invadesse. Il Duca di Ferrara, che per speranza d'acquisto avrebbe voluto che la guerra si agitasse nei paesi vicini, malcontento della deliberazione, partissi sdegnato

da Reggio, e non volle più seguitare le insegne dei confederati, secondando in ciò le intenzioni dei Veneziani, i quali sempre lo avevano sconsigliato dal mescolarsi in questa guerra.

Mentre i Francesi marciavano per la Romagna in soccorso della Chiesa, giva sollevandosi la fortuna del Pontefice. Avendo il Duca d'Alba avuto avviso del inovimento del Duca di Guisa, dismetteva la guerra di Roma, e lasciando solamente i luoghi conquistati con le guardie convenienti, se n'era andato nel Regno per farvi gli apprestamenti necessarj d'uomini, d'armi e di munizioni. Forniva anche le fortezze di quanto loro abbisognasse per sostenere, secondo che fosse, o assedio o oppugnazione: già aveva raccolto un grosso di dodici mila soldati. Intanto Piero Strozzi, in cui l'agitarsi continuamente era natura e necessità, compiti appunto col finir dell'anno 1556 i giorni della tregua, messa insieme la maggior parte delle genti soldate dal Papa, che furono intorno a sei mila fanti, andava con essi e con grosso apparato d'artiglierie sopra Ostia, e con poca difficoltà la prendeva; il quale accidente alleggerì molto Roma, si per la facilità acquistata della vettovaglia, e sì per essere rimosso il terrore, che il nemico potesse venire di presente contro la città. Acquistava poscia con battaglia assai brava nè senza sangue Vicovaro, terra dove gli Spagnuoli tenevano un forte presidio. Nè per questo il Duca d'Alba tornava in Campagna di Roma, stando in continuo timore delle armi francesi nel Regno, ed appunto in quei giorni i Francesi avevano rotto la tregua contro gli Spagnuoli dalle parti della Fiandra, ed accesovi una fierissima guerra. Solo aveva commesso a Marcantonio Colonna, famoso guerriero, e che poscia per più illustri fatti si acquistò fama ancor maggiore, che l'onore e i vantaggi di Spagna nella campagna di Roma sostentasse.

Il Duca di Guisa frattanto venuto a Roma, vi fu accolto come un angelo tutelare, e fini di tôrre lo

299 smarrimento del popolo, che già aveva cominciato a rinfrancarsi pei prosperi successi dello Strozzi. Quivi convennero col Guisa il cardinal Caraffa, i suoi fratelli, e Luigi, principe df Ferrara, mandatovi dal padre, che non voleva scostarsi del tutto dall'amicizia francese. Consultarono insieme e col Papa delle cose comuni. Vedevano i Francesi di essere venuti in luogo di molto pericolo, perchè e il Duca di Firenze stava aderente a Spagna e bene armato, e il Duca d'Alba faceva gagliarde provvisioni a Napoli, e gli ajuti della Chiesa non riuscivano, come gli avevano promessi e magnificati i Caraffa; chè certamente si vedeva gran differenza tra i fatti e le parole magnifiche che monsignor della Casa scriveva in Francia, tanto a nome proprio, quanto a quello del Papa e del Cardinale. Per lo che i Francesi domandarono qualche altra sicurtà che della fede sola, e cercavano di ottenere Civita Vecchia ed Ancona. Ma con qualche industria o promessa e mostra di provvisione furono superate le difficoltà, e fu giudicato che la più agevole impresa contro il regno di Napoli fosse l'assaltarlo dalla parte degli Abruzzi, confinante con Ascoli e con la Marca. Mettevasi il Guisa in via, e andava a porsi ad oste a Civitella, prima frontiera del regno, posta a dieci miglia dal confine sopra la schiena d'un colle, talchè la parte più alta di lei è difesa da una ripa molto erta, e sotto si trovava ben fornita di fianchi, di baluardi e di tele di muro fra i bastioni. Vi era dentro il Conte di Santafiore con mille fanti de' migliori del Regno.

Il Papa, non contentandosi di tutti gli apparecchi fatti e dell' amicizia di Francia, pensò che fosse bene smembrar Cosimo dagli Spagnuoli ed allettarlo nella confederazione. Mandava pertanto a questo fine a Firenze un suo molto fidato per nome Francesco Villa con un Breve, dove scriveva che, amando esso il Duca sinceramente, aveva tanto adoperato col Re di Francia che gliel'aveva riconciliato, e inoltre indottolo

a dar per moglie a don Francesco, suo primogenito, una delle sue figliuole legittime, e che egli aveva autorità dal Re di poter conchiudere un tal parentado. Esortavalo infine a non lasciar fuggire questa occasione d'imparentarsi con un si grande e poderoso Principe, dal quale poteva sperare tanta sicurtà pel presente, tanta grandezza pel futuro. Se non seguiva l'effetto, il render sospetto Cosimo agli Spagnuoli, faceva al caso: tal'era l'intenzione di Paolo.

L'astuto Cosimo conobbe l'arte, e giovandogli di tenere più che si poteva la cosa sospesa, mandava a Roma Gianbattista Ricasoli, vescovo di Cortona, con dolci parole: Avrebbe ricevuto a supremo onore l'acquistar per suocero del figlio un sì gran Re; ringraziare Sua Santità dell'amorevole ufficio, ma il disunirsi dal Re Cattolico essere cosa che meritava molto matura considerazione, tanto più quanto il maritaggio non si poteva fare di presente, e ricercava molto indugio, trattandosi del figliuol suo, il quale era di tenera età, e della figliuola del Re, ancor di minore.

Ma, mentre questa pratica vegliava in Roma, avvenne caso che scompigliò ogni cosa. Aveva lo Strozzi dato Ancona in guardia ad alcuni fuorusciti Fiorentini, suoi amici, per poter accogliere in quel porto l'armata Turchesca, che vi si aspettava. Alcuni di loro, per desiderio di danaro e di patria, avevano offerto al duca Cosimo di dare quella piazza al Duca d'Alba, e d'introdurvi le milizie del Regno. Cosimo spediva per Napoli il Concino, suo segretario molto confidente, affinchè desse contezza del trattato al vicerè; ma il Concino, battuto furiosamente da venti contrarj, diede in terra a Santa Severa, vicino a cinque miglia a Civita Vecchia, dove con alcuni compagni cercava di celarsi; ma sopraggiunto da alcune guardie fu condotto a Roma, non senza prima aver gettato in mare le lettere del Medici al Duca d'Alba, in cui si conteneva tutto l'ordito della trama d'Ancona. Per

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