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Carlo, conoscendo che lo zio, che di tutt'altro si poteva biasimare fuorchè di mal costume, non le avrebbe comportate, lo aveva per tale guisa circondato che nulla a lui perveniva se non ciò che egli voleva. Le lettere stesse dirette al Papa non gli capitavano se non vedute dal Cardinale, e solo quelle che egli voleva. Poi, come suole accadere nelle Corti, essendo il Cardinale favoritissimo ed amatissimo dal Papa, chi sapeva non parlava ed anzi lusingava: così il vizio trionfava in palese, e nessuno il frenava. Chi fosse per torre il velo dagli occhi del Pontefice, quasi in sua sovranità prigione, non si vedeva, ed altra speranza gli uomini buoni non avevano se non quella che nasceva dall'età decrepita di Paolo. Pure la Provvidenza voleva che, non per caso di morte, ma per atto di giustizia, chi era reo d'infamia avesse il guiderdone che meritava. Noi già abbiamo accennato più sopra come il Duca di Guisa avesse dato del ladro pel capo al Marchese di Montebello, che con esso lui si stava al campo incontro a Civitella. Il Marchese, itosene a Roma, si era molto doluto con lo zio del procedere del Duca, accusandolo di mala amministrazione della guerra, ed accagionandolo del fine infelice ch'ella poi ebbe. Da ciò era nato che il Papa parlava con poco onore delle opere del Duca verso la Santa Sede. Seppesi il Guisa lo sparlare dei Caraffa, e siccome quegli che, di alto e generoso animo essendo, non era solito a tollerare pazientemente le ingiurie, fece proponimento di ribattere con la verità le calunnie. Ora avvenne che egli, accommiatandosi dal Papa, quando si stava sul partire per ritornarsene in Francia, gli disse contro i nipoti quanto sapeva, anzi pure quanto tutto il mondo sapeva, salvochè il Pontefice stesso; il quale ufficio ei fece con ragionamento si acceso che il Papa restò tutto maravigliato e commosso.

Questa semenza sparsa nell' animo di Paolo, sebbene molto ne fosse travagliato e gli desse grave sospetto, non partoriva però ancora frutto conforme a

quanto il Guisa si era proposto. Tanto era l'amore ch' ei portava ai nipoti; e forse in quell'anima orgogliosa la vergogna di aver errato ratteneva lo sdegno ! Altre testimonianze abbisognavano per dare il tracollo. Trovavasi il cardinal Pacecco, come Spagnuolo, in mala disposizione verso i Caraffa, sì perchè il Papa non voleva rimettere in grazia Marcantonio Colonna, quantunque più volte ne fosse stato pregato dal Re, e sì per la durezza mostrata verso Ferdinando; onde non pretermetteva occasione di pungere coloro di cui pensava sinistramente. Lamentavasi un dì il Papa di uno scandalo dato dal Cardinal del Monte, ed accendendosi nello sdegno andava gridando: Riformazione, riformazione. Queste voci usava spesso, spinto dall'indegnazione che provava pei costumi trascorsi dei cherici, massime dei frati, che, stando fuori dei conventi, facevano di ogni erba fascio. Inveiva, fulminava, ordinava, faceva decreti e Brevi contro di loro, ma spendeva l'ira e le risoluzioni indarno, perchè il vizio era più forte della papale volontà. Ora, a quell'esclamazione di riformazione, riformazione, il Pacecco, con dolcezza mista di qualche amarezza, rispose: Padre santo, convien che la riformazione cominci da noi. Intese il Papa che il Cardinale spagnuolo con quel motto accennava a quanto con libera verità gli aveva esposto in Concistoro, quando si trattò di dare vescovado al Caraffa. Questa insinuazione in un coi detti del Guisa vie più gli turbarono l'animo.

Diede l'ultima spinta Bongiovanni Gianfigliazzi, ambasciatore del Duca Cosimo. Il cardinal Caraffa gli portava odio immortale a motivo dell'inclinazione del Duca alla parte spagnuola, e per l'opinione in cui era che il Medici avesse disfavorite le cose dei Caraffi appresso al re Filippo. Perlochè non solamente il Cardinale si era dato a favorire i fuorusciti fiorentini, avendo egli medesimo continuamente in bocca la libertà di Firenze, ma ancora gl'impediva le udienze del Papa, avvegnachè il Gianfigliazzi parec

(1559) chie volte fatto istanza ne avesse. Cosimo trovò modo di far pervenire, per mezzo di un cardinale, una sua lettera al Papa, nella quale, dolendosi acerbamente degli sconci modi del cardinal Carlo, gli significava come al suo ambasciatore fosse stata tanto tempo interdetta l'udienza, il quale pure aveva commissione di conferire molte cose in onor di Dio ed a benefizio di Santa Chiesa. Risentitosi il Papa, comandava che l'ambasciatore gli fosse lasciato venire avanti. Gianfigliazzi parlò molto liberamente della scandalosa vita dei nipoti, e, per ferire più nel vivo l'animo di quel vecchio poco sofferente, soggiunse che i nipoti gli soprattenevano le udienze, non per rispetto suo, ma perchè non iscoprisse qual fosse la vita loro, e che gli facevano ingiuria e lo trattavano da rimbambito.

Il Papa, ingrossatosi maggiormente nell' ira, già era in pronto di prorompere. Ricordossi che un leremia, prete de' suoi Chietini, o Teatini che vogliam nominarli, già tempo, gli aveva gettato qualche motto di cotesto per coscienza. Mandò chiamando questo Ieremia, e comandògli, andasse dal cardinal Vitelli, • intendesse il vero, e riportasseglielo. Per questa via seppe che nel trattato col Duca d'Alba, il cardinal Caraffa, contro il suo intendimento, anzi contro le sue commissioni espresse, aveva promesso di accettare ricompensa per Paliano, cosa che riuscì molestissima al Pontefice, perchè gli pareva di aver operato giustamente e con ragione contro Marcantonio Colonna. Seppe ancora le ruberie, le rapine, le violenze e le cose disoneste molte e gravissime che di tutti tre i nipoti si dicevano per tutto; che i comuni erano gravati con immoderati arbitrj da loro; che per la loro sfrenata cupidigia in Roma nessuno che avesse danari, o religioso o laico, o ebreo o cristiano, o luogo sacro o profano fosse, era più sicuro; che i debiti privati o pubblici non si pagavano; che per le ville e nella città stessa badavano a cavarsi ogni voglia ed a prendere quanti diletti potevano, senza riguardo alcuno, o di

329 vergogna nel pubblico, o d'orrore nel privato; che mai pontefice alcuno aveva avuto nipoti nè più ladri, nè più infami di quelli ch' ei si aveva.

Ruppesi l'argine che già a gran pena ratteneva l'acceso furore. Prima cosa, Paolo mandò dicendo al cardinal Carlo, non istesse più a comparirgli innanzi, e tosto sgombrasse dal palazzo. Si sparse a volo l'inaspettata novella. Il Cardinale, a cui poco innanzi venivano avanti per corteggiarlo e raccomandarsi, come se fosse stato il Pontefice stesso, cardinali, ambasciadori, gran signori di ogni specie, rimase, secondo il solito, solo: l'onda dei salutanti, rammentata dagli antichi, andò ad altre porte.

Il Papa, che non poteva capire in sè dalla collera e dallo sdegno, teneva concistoro il dì ventisettesimo di gennajo. Fecevi, lagrimando e detestando la malvagità dei nipoti, un lunghissimo ragionamento; poi ordinò per decreto, uscissero di Roma con tutte le famiglie fra dodici giorni; fosse il Cardinale rilegato a Civita Lavinia, il Duca di Paliano a Gallese, il Marchese di Montebello al suo Marchesato in Romagna; fossero privi di tutti i magistrati ed uffizi, così militari che civili; se disubbidissero, fossero ricerchi dalla giustizia, e come ribelli castigati. Onorata risoluzione di quel vecchio superbo ed incorrotto, la quale fece vedere al mondo che se egli amava di comandare a tutti, anche ai re, detestava poi il vizio in qualunque persona esso albergasse. Volle il cardinal Sant'Angelo, fratello del Farnese, mitigare, pregando l'ira del turbato Pontefice; ma egli, Se Paolo III, disse, avesse dati di questi esempi, vostro padre non sarebbe stato strascinato dal popolo di Piacenza.

Vennero i deputati del popolo romano a ringraziare il Pontefice della presa risoluzione, portando con esso loro un monte di querele contro la passata tirannide. Paolo rispose, ciò aver fatto senza saputa sua gli scellerati nipoti.

La sdegnosa giustizia del Papa doveya fra breve

(1559) dar luogo ad una giustizia furibonda del popolo, ma diede addosso al giudice ed ai giudicati. La morte poi mandava Paolo all'altra vita, un altro giudice i Caraffa al supplizio; funesti accidenti, ma prima ne racconteremo uno lieto.

Arrivarono di Piccardia desideratissime novelle: essersi ai tre d'aprile in Castello Cambresi conchiusa la pace tra Filippo ed Enrico; che dalla parte della Fiandra e della Piccardia, convennero, si restituissero l'uno all' altro le terre prese, con ciò però che Edino rimanesse al Re Cattolico, e Teroana fosse restituita al Re Cristianissimo; che Metz restasse a quest'ultimo; che del Monferrato si rendessero da ambi i Re le terre occupate al Duca di Mantova, con patto che il Duca dovesse perdonare a tutti i suoi vassalli che avessero aderito a questa o a quella parte, e che specialmente rimettesse ogni ingiuria a quei di Casale; che Valenza fosse ceduta al Re Cattolico, come membro del ducato di Milano; che il Re Cristianissimo ricevesse a grazia i Genovesi, e si dimenticasse ogni cagione di mala volontà contro di essi, sì veramente che eglino portassero al Re quella riverenza che gli conveniva; che il medesimo Re restituisse loro tutte le terre occupate in Corsica, con patto che non potessero riconoscere ingiuria alcuna per aver ajutato in qualunque modo le parti di Francia; che il Re medesimo dovesse ritirare tutte le genti da guerra da Montalcino e dalle altre terre del Sanese, e lasciasse la protezione dei Sanesi, intendendosi che i gentiluomini e cittadini sanesi ed altri sudditi di quello Stato, che si disponessero a sottomettersi al duca Cosimo, sarebbero benignamente ricevuti, nè in alcun modo ricerchi per essersi ritirati a Montalcino o altrove, e dello aver preso le armi contro chi si volesse ; che medesimamente fosse perdonato a tutti coloro che nelle guerre di Toscana avessero seguitate l'armi cattoliche, e le cristianissime e del Duca di Firenze; che il medesimo Re di Francia restituisse ad Emanuele

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