Immagini della pagina
PDF
ePub

341 concistoro la Bolla del Concilio. Narrava che, non così tosto era stato assunto, aveva applicato l'animo all' estirpazione dell' eresie, all'estinzione delle divisioni, all'emendazione dei costumi; che vedeva con sommo suo cordoglio la religione deturpata ed in pericolo per ogni dove; che, per ovviare a tanti mali, Paolo e Giulio, suoi predecessori, già avevano congregato il Concilio, dal quale erano emanati molti santi ed utili decreti, ma che l'opera non era stata compita, essendosi dovuto per varj impedimenti sospendere quella sacra assemblea; che intanto l'eresia e la scisma avevano fatti lagrimevoli accrescimenti, ma che, avendo Iddio finalmente donata concordia ai re ed ai principi cristiani, egli si era avvisato di ricorrere senza indugio al medesimo rimedio del Concilio generale per diradicar le eresie, riunire la scisma, emendar i costumi, conservar la pace. Onde, col parer comune dei cardinali, e con averne dato contezza all' Imperatore ed agli altri re e principi cristiani, e trovatigli prontissimi all'ajuto del Concilio, l'intimava nella medesima città di Trento per la prossima Pasqua, toltane qualunque sospensione.

Tali furono i principj del pontificato di Pio IV. Ora racconteremo quei di due altri principi negli Stati da loro novellamente acquistati. Diremo prima di Cosimo, poi di Emanuele Filiberto. Il Duca di Firenze andandosene al suo viaggio di Roma, era passato per Siena. Accoltovi con onori grandissimi e dimoratovi alcuni dì, e lodata l'amministrazione del Nicolini, confermava i magistrati, ma ordinava qualche riforma. Creò un consiglio grande di buon numero di cittadini scelti da tutte le famiglie nobili, ma non più che uno per casa, fra i quali dovevano essere eletti dal Duca gli uffiziali di balìa, che fossero in uffizio un anno. Volle ancora che detto consiglio creasse a tempi opportuni la signoria e i quattro consiglieri del capitano del popolo ed altri magistrati ed uffizj per di fuori e dentro, che risedessero ai governi. Ordinò un nuovo

magistrato, chiamato conservadori dello stato, i quali avessero cura delle rendite e beni dei comuni; prescrisse che le sentenze capitali non potessero senza sua scienza e consenso eseguirsi; concedè perdono a tutti coloro che avanti alla possessione sua di quella città avessero commesso colpe gravi, conosciute o non conosciute dalla giustizia. Da tutto ciò si conosce che il Duca, conservando i magistrati popolari, diede per fondamento e, per così dire, radice e fonte comune l'aristocrazia del consiglio grande, e che sopra di loro conservò la sua autorità monarcale, quale arbitra e moderatrice di ogni cosa.

Nessun principe conobbe meglio di lui, che, a tenere in freno i sudditi, giovano principalmente le buone armi. Perlochè diede ordine che si risarcisse, ed a miglior forma si riducesse la fortezza. Provvide ancora, che in tutte le città e terre del dominio di Siena si descrivessero i soldati e si dessero loro ufficiali a modo fiorentino, concedendo loro i medesimi privilegi ed esenzioni, di cui godevano i soldati, cioè le cerne nella dizione fiorentina. Avveduto principe, che, senza aver mai maneggiato le armi, seppe ciò non ostante ordinarle per modo che, avuto riguardo alla piccolezza dello stato, era fra i principi italiani il più potente.

Minore bisogno, quanto all'ordinazione del governo, era addossato ad Emanuele Filiberto, perchè ne' suoi stati non si trattava, come in Toscana, di andare da repubblica a monarchia, ma da monarchia a monarchia, e, dallo sconcerto di una lunga ed ostinata guerra in fuori, poco restava, quanto alle forme politiche, da rassettarsi. Visitò in primo luogo la Bressa, non tocca dalla guerra, poi Nizza e Cuneo, città predilette siccome sempre fedeli, quantunque combattute più volte da nemici potentissimi. L'accoglievano i popoli in ogni luogo con grandissime dimostrazioni di allegrezza, sì perchè amavano un principe proprio, e si per vedere ch'ei fosse tanto chiaro per segnalate vit

torie. La novità del regno, poichè insin già da ventiquattro anni erano i popoli vissuti sotto dominio forestiero assai grave, sollevava gli animi a grandi speranze, promettendosi ognuno che la pace ed il governo domestico farebbero presto risorgere l'infelice provincia da tante calamità.

L'allegrezza dei popoli si raddoppiava, quando venne la seconda volta a Nizza con la sposa Margherita. Quivi vennero a fargli omaggio i deputati di tutte le città: vincitore il chiamavano; mandato da Dio a posta il predicavano per risarcire tanti danni; con esso lui dello avere ricuperato il regno non per ma per virtù, si rallegravano. Poche volte nelle grandi mutazioni dei popoli si vide, come in questa, tanta allegrezza congiunta con tanta speranza.

caso,

Tre sorti d' uomini erano nello stato: coloro che non si erano mai partiti dalla sua obbedienza e che anzi avevano usate le armi per l'antico signore in tanti casi di crudele e lunga guerra; coloro che, non pendendo nè da questa parte, nè da quella, non si erano nè allontanati dalla divozione del sovrano assente, nè accostati a quella del presente; coloro finalmente che, dall'ozio uscendo, ed il sovrano esule dimenticando, avevano contro di lui o nelle pacifiche città operato, o su i campi di battaglia combattuto. Usò il principe coi diversi diversamente. Accarezzava i primi, e dava loro le principali cariche dello stato ; vedeva volentieri i secondi, ma poco dell' opera loro si serviva; non curava i terzi, se non quanto lor perdonava, mansuetudine di cui i popoli gli restavano obbligati, perchè sebbene ella fosse ordinata dai trattati, si sa bene che i principi la schivano facilmente, quando vogliono.

Pensava agli ordini pubblici. Nominava gran cancelliere il conte Tommaso Langosco, e fondava un senato con le medesime facoltà o con poca differenza dei parlamenti di Francia. Gli dava per stanza Carignano insino a che, riacquistato Torino, il vi potesse

(1560) trasferire. Creava in Mondovì una università degli studj, destinandovi per professori, o chiamati dall'estero o nazionali, uomini eccellenti in ogni genere di disciplina. Sapeva quanto la guerra imbarberisca i costumi, e lunga pur troppo e crudele aveva contristato il Piemonte; sapeva, che le lettere e le dottrine non vi erano pullulate come in sede propria, ma venutevi d'altronde, e che perciò pel romore delle battaglie con debol lume ancora vi splendevano. Pose adunque ogni cura perchè il terreno propizio diventasse, e che dalle lettere e dai buoni ammaestramenti nascessero uomini non solamente dotti, ma civili, non solamente civili, ma gentili. Ciò intendeva di fare coll'università, ciò col chiamare, anche fuori dell'università, letterati o artefici di nome. Volle tirare a sè, come segretario proprio, Annibal Caro, assai famoso a quel tempo per questo genere d'esercizio; ma Annibale non consentì a venirvi, non volendo partirsi dal servizio dei Farnesi, al quale da lungo tempo era addetto. Guerriero, faceva Emanuele Filiberto queste cose non da guerriero, e la posterità piemontese tanto maggiore obbligo gli debbe avere, quanto egli in più romorosi e meno umani esercizj era nato e nodrito. La natura superava l'uso: tali miracoli sono pur troppo rari a vedersi; chè le spade pur troppo sormontano le penne, e i campi di battaglia prevalgono ai tranquilli recessi degli studj.

Ciò dirozzava: ma la guerra aveva guasto ogni buon ordine d'amministrazione, e diveniva, non che necessario, indispensabile di ridurla a buona forma. Vi applicava l'animo il novello Principe, tali ordinazioni facendo che ed il peculato venne impedito, e la parsimonia sostentava la larghezza in ogni ramo di servizio pubblico.

Nè le opere d'utilità, incominciate o condotte a termine dal Brissac, si trascuravano, chè anzi diligentemente si curavano con non poco benefizio della cultura dei campi e delle arti mercantili. Anche in questa

345 parte Emanuele Filiberto somigliava Cosimo, e Cosimo lui: uno più guerriero, l'altro più artifizioso, ambi bramosi del governo assoluto, ma il Toscano con maggior acerbità, perchè in terreno nuovo, Piemontese con maggior moderazione, perchè gli usi antichi, e il vittorioso grido, che l'accompagnava, il secondavano.

il

Somigliavansi Emanuele Filiberto e Cosimo anche nell'ordinare l'armi patrie, acciocchè il paese non cadesse facilmente in servitù di forestieri; ma il primo ciò seppe fare con maggior perfezione del secondo. Ambedue, ritraendo l' esempio dei Veneziani, instituirono le milizie, le quali in ciò consistevano, che ciascun distretto, e per parte sua ciascuna terra fornivano e pagavano un numero determinato d'uomini atti alle armi, che si distribuivano in regolari compagnie, in battaglioni e in colonnelli, vale a dire in reggimenti. Destinavansi i tempi delle rassegne, delle mostre, degli armeggiamenti ed esercizj militari, ogni domenica dopo messa per le squadre coi loro caporali, le centurie coi sergenti di quindici in quindici giorni, le compagnie una volta il mese i colonnelli tutte le quattro tempora dell'anno, sempre ne' giorni festivi, la battaglia generale due volte l'hanno, alla Pentecoste e verso San Martino, od almeno una volta alla Pentecoste, in campagna, dove si esercitavano le cerne in tutti i movimenti sì di stazione che di viaggio, in tutti gli armeggiamenti, nei modi di fare un alloggiamento, ed in somma in tutte le fazioni che a soldato si appartengono.

[ocr errors]

Di coteste cerne o milizie paesane, che le vogliam nominare, il Principe del Piemonte ne poteva adunare insino a trentamila; tutti soldati di fanteria. Erano loro in Piemonte, come in Toscana, conceduti, per allettargli, parecchi privilegi ed esenzioni, per sino di contribuzioni, per modo che molto volentieri si lasciavano descrivere, anzi molto volontariamente andavano ad arruolarsi sotto le insegne.

« IndietroContinua »