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dava preti e gesuiti per convertire con esortazioni e con minacce quegli eretici avvenitizj. Riuscirono a nulla, perchè i Guardianeschi, non lasciandosi në persuadere, nè intimorire, maggior ardimento prendevano, e vie più si moltiplicavano.

La materia da si lungo tempo inerte, urtata dai moti di Germania e di Francia, si muoveva ed urtava. Vennesi all'efficacia del braccio secolare. Si adoperarono in prima i magistrati ordinarj di Cosenza, ma non bastarono stimarono richiedersi medicine più forti. Il Duca d'Alcala, che in qualità di vicerè governava in quei momenti il regno, vi mandava per commissario un giudice del vicariato per nome Annibale Molez, e davagli, per conferir forza alle sue determinazioni, molti soldati si di Napoli che de' luoghi vicini alla sede del male. I preti ed i frati predicavano violentemente, un Valerio, un Malvicino, un Alfonso Urbano massimamente; molto prestava loro la forza del magistrato. Sforzavano gli avversari ad andar alla Messa, ed a conformarsi agli altri riti della Chiesa Cattolica; il che in alcuni non si poteva far senza sacrilegio. Chi non era ossequente mandavano in carcere od alla morte con confiseazione di beni, quantunque per la Bolla di Pio III la confiscazione contro gli eretici fosse interdetta nel regno di Napoli. San Sisto ne fu desolato in morti ed in ruine: i superstiti o andavano alla Messa, o si salvavano con le famiglie nei più cupi recessi delle selve. Poteva lo stato ed era anche suo dovere, se il confinargli a modo di Emanuel Filiberto non era possibile) bandire questi eretici dal regno, posciachè nè cambiar religione, nè astenersi dal turbar quella d'altrui volevano: ma si amò meglio ammazzarli. Le crudeltà di San Sisto gli fecero prorompere in ribellione. Diedero di mano all' armi con quella costanza e furore che sogliono provenire dallo zelo religioso, siccome quelli che credevano che, se in difesa di sì santa causa perissero, sarebbero incontanente saliti in cielo per godervi in

357 mezzo agli angeli e per le mani del rimuneratore Iddio la ricompensa del sopportato martirio. Crebbero a tal segno il loro numero e il furore che fu necessità per le truppe regie di combatterli in battaglia giusta alla aperta campagna. Contrastarono con coraggio ostinatissimo, fecesi molto sangue, molti perirono da ambe le parti. Ma superava il numero maggiore e la miglior disciplina; i dissidenti furono vinti e dispersi.

Scemati di forze, nè potendo più correre la campagna si ritirarono nella Guardia, che munirono e fortificarono per tale guisa che era divenuta fortezza quasi inespugnabile. Prato della Torre in Piemonte, la Guardia Lombarda in Calabria, la Roccella in Francia, furono i propugnacoli della fede protestante, e gli scrittori ne fecero comparazione.

Dura impresa pareva l'espugnar la Guardia per forza. Scipione Spinelli, signore del luogo, per conforto del Duca d'Alcala, macchinava insidie. Sotto colore di mandar dentro prigionieri di guerra, v' introduceva uomini scelti e pronti di mano, i quali, come prima si videro in numero sufficiente, diedero all'impensata addosso ai capi degli avversarj, e gli uccisero. Gli altri, sorpresi del caso improvviso, e non avendo più chi gli guidasse, non poterono resistere: fu fatta di loro una carnificina orribile. Dei sopravviventi alcuni fra quella confusione scamparono, i più fatti prigionieri; ma i più felici i morti, perchè i presi crudelmente erano tormentati, sì perchè abjurassero, si perchè per forza dei tormenti confessassero che nelle loro assemblee notturne, appunto come i pagani facevano ai cristiani dei primi secoli, si davano in preda, spenti i lumi, ad ogni più brutta infamia. I renitenti mandati a morte: chi era gittato a precipizio dalle alte torri a rompersi in terra, chi con pali di ferro ammaccati ed infranti. Ottanta in presenza dello Inquisitore Pansa, e per ordine suo scannati con coltella da pagati beccaj a quel modo che e'scannano le be stie: da Montalto a Castro Villari orride le strade per

(1561) membra dei miseri uccisi affisse a pali; uno Stefano Negrini fatto morir di fame in carcere. S'accendevano i soliti e crudeli roghi: un Luigi Pascale, piemontese, condotto a Roma, vi fu arso vivo; un Bernardino Corte, menato a Cosenza, il condussero tutto nudo in sulla piazza, poi l'impeciarono, poi, dato fuoco alla pece, acciocchè i supplizj neroniani non mancassero all'età, il bruciarono vivo come una candela. Le fiamme consumarono sì in Cosenza che in Montalto gli altri. A chi veniva su per l'età, furono vietati i matrimonj dai sicarj dell'Inquisizione, crudeli anche contro le creature che non erano ancora venute al mondo. Or qui faremo fine al doloroso volume.

FINE DEL LIBRO DECIMO.

AL

LIBRO DECIMO

ALLA pag. 321. Sul finire dell'anno 1558, morta la re

gina d'Inghilterra Maria, figliuola legittima di Arrigo VIII e di Caterina di Spagna, e salita sopra quel trono Elisabetta, figliuola della Bolena, moglie, o piuttosto druda di Arrigo, che aveva preteso di sposarla durante il primo matrimonio, costei, quantunque già grandemente sospetta di essersi data alla eresia, si fece consecrare da un Vescovo Cattolico, e dette parte al Papa della propria esaltazione, promettendo che nessuno sarebbe violentato per causa di Religione. Ma Maria di Scozia, nepote di Arrigo per canto di sorella, e sposata al Delfino di Francia, pretendeva anch'essa quel regno, allegando la nascita illegittima di Elisabetta, e il Re Francese aveva dichiarato al Papa qualmente intendeva di sostenere le gravissime ragioni della sua nuora. Il papa Paolo IV rispose dunque ad Elisabetta che non poteva riconoscerla nella qualità di Regina, anche perchè il regno d'Inghilterra era beneficiale della Santa Sede, e non si doveva andarne al possesso senza di lei, ma tuttavia intendeva di procedere con essa paternamente; e qualora si volesse stare nei termini della ragione e rimettersi al suo giudizio, egli l'avrebbe distinta con ogni sorta di onesto favore. Certo è che la fiera Elisabetta non fu paga di tale risposta; e, o per l'irritamento che ne prese, o piuttosto per il vecchio proponimento, che intendeva palliare soltanto nei primi momenti, ruppe affatto col Papa, e si diede tutta alla eresia e alla persecuzione dei Cattolici; ma considerando che in quei tempi la ricognizione del Papa, era un atto d'importanza indicibile, che le ragioni della Scozzese erano gravissime, e molto più perchè sostenute da un Re di Francia, e che nel secolo XVI la distinzione fra i re di diritto e i re di fatto era tuttavia sconosciuta alla diplomazia, tulti

converranno che alla bastarda di Arrigo non poteva darsi altra risposta dal Papa. Il Botta però, inflessibile nel suo proposito di calunniare i Pontefici Romani e dipingerli al mondo come le cause di tutte quante le pesti, dopo avere attribuito a Clemente VII la prima apostasia dell'Inghilterra, mette a debito di Paolo IV la sua nuova rovina, e conclude la narrazione di questi fatti con dire: Così Paolo perdette per superbia ciò che Clemente aveva perduto per doppiezza. Tali sono l'imparzialità di uno storico, il raziocinio di un filosofo, e la pietà di un cristiano, che campeggiano da capo a fondo in tutta la Storia del Botta.

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