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- Bonfadio felicissimo, se gli studj delle caste muse solo avesse avuto in cale! Ma uno schifoso verme il rodeva. La santa natura ebbe in dispregio, e fattala sviare, in vergognoso peccato cadde. Sconciamente peccò; onde si conobbe che un brutto vizio contaminava una bella mente. Leggi vigorose castigavano allora in Genova così fatte infamie. Il misero Jacopo fu dannato ad essere arso vivo pubblicamente. Tutta la Città si commosse, e dolente rimase alla orribil fine, che si apprestava ad un uomo chiaro di lettere, chiaro d'ingegno, chiaro d'alte amicizie: deploravano la miseranda mistura di quanto è più lodevole, e di quanto è più dannabile. Oh, quanto è labile e fievole, e forse inesplicabile l'umana natura !

Sorsero per salvare il condannato i suoi devoti amici, ed il governo ne pregarono, Azzolino Sauli, Giambattista Grimaldi, Domenico Grillo, Cipriano Pallavicino: a loro s'unirono nella pietosa opera molti altri personaggi fra i primi dell'inclita Città, così del Portico Vecchio, come del Nuovo. Spesero le fatiche indarno, quanto a salvargli la vita; solo impetrarono, che in carcere si decollasse, e morto alle fiamme si desse. Chinò Bonfadio la fronte, ed inclinò l'animo alla volontà del cielo manifestatasi per le offese leggi. Poco innanzi al supplizio, e già presso a morte essendo, scrisse al Grimaldi una lettera, che non fu letta senza lagrime dai contemporanei, nè forse fia dai posteri, ed è quest'essa: «Mi pesa il « morire, perchè non mi pare di meritar tanto; eppur « m'acqueto al voler d'Iddio: e mi pesa ancora, per«chè moro ingrato, non potendo render segno a << tanti onorati gentiluomini, che per me hanno sudato «ed angustiato, e massimamente a V. S., del grato << animo mio. Le rendo con l'estremo spirito grazie « infinite, e le raccomando Bonfadino, mio nipote, ed «al signor Domenico Grillo, ed al signor Cipriano « Pallavicino. Seppelliranno il corpo mio in San Lo«renzo; e se dal mondo di là si potrà dar qualche

« segno amico senza spavento, lo farò. Restate tutti « felici. >>

Porgendo egli medesimo spontaneamente il collo al carnefice, rimase scemo del capo in carcere addì diciannove di luglio del 1550, ed il medesimo di bru

ciato.

Tale fu la fine di Jacopo Bonfadio, e tale la cagione della sua fine. Il suo amico Paolo Manuzio il pianse in versi latini elegantissimi, in cui però non tacque il fallo, che il condusse a così cruda morte.

Nè è da attendersi l'opinione di coloro che credono, che o gelosia di stato, o astio di alcuni nobili genovesi, massime dei Fieschi, di cui aveva scritto con sincerità nel fatto della congiura, l'abbiano spinto a quel terribil passo; poichè nè i Fieschi, e chi aveva operato con loro (in odio essendo al governo, ed in bassa fortuna caduti) avevano di ciò possanza, nè Bonfadio scriveva per diletto, ma per comandamento della Signoria, nè i suoi scritti erano per essere mandati alle stampe, ma sì, come osserva il dotto Giambattista Spotorno nella sua Storia letteraria della Liguria, per essere consegnati al Senato, e custoditi negli archívj segreti con quelli del Caffaro, del Senarega e di Paolo Partenopeo. S'aggiunge, siccome continua a dire lo stesso Spotorno, che se i patrizj genovesi avessero avuto tanto in orrore la storia del Bonfadio che dannassero a morte l'innocente autore, non si sarebbero poi affaticati in mandarla alla luce con farla anche trasportare in italiano dal Paschetti.

Così per una sucida tristizia fu spento in Genova uno dei più risplendenti lumi della letteratura italiana.

D'ambagi in ambagi, e tutte brutte, io mi debbo ravvolgere. Pierluigi di Piacenza, instigatore di Gianluigi di Genova, non così tosto ebbe avviso come la congiura fosse spenta, che mandava un suo gentiluomo a Milano, perchè il Gonzaga certificasse, quanto dispiacere egli aveva sentito della ribellione di Genova,

ed al tempo stesso lo assicurasse, che, conoscendo in quel subito scompiglio qualche provvisione necessaria per mettere in sicuro le cose dell' Imperatore, egli si offeriva con la persona e con tutte le forze del suo stato a concorrervi. Della quale esibizione don Ferrante, che, come persona astuta, non più si fidava di Pierluigi che Pierluigi di lui, molto il ringraziava, non usandola.

Oltre a ciò, qual fosse la coscienza del Farnese verso i Fieschi, ch'egli aveva messi su e chiamati suoi amici, manifestamente il dimostrava un altro accidente. Erano Borgo di Val di Taro, e Calestano, luoghi soggetti ai Fieschi. Il Signor di Piacenza, mandatovi i suoi soldati, gli riduceva all'ubbidienza, prendendone possesso per mezzo di un suo commissario. Poi, dubitando dello sdegno dell' Imperatore, mandava Ottavio Bojardi a scusarsi del fatto con don Ferrante. Ma la cosa fu sentita molto sinistramente: mandossegli dicendo, che toccava a Cesare il castigare l'indegna memoria del Fieschi con la confiscazione, e che non si vedeva come si potesse arrogare tale autorità il signor Pierluigi Farnese. Pure Pierluigi, tanto pertinace, quanto astuto, continuava nella contumacia e a dir sue ragioni. Già il fato gli dava di mano, e le coltella si forbivano per iscannarlo.

FINE DEL LIBRO SESTO..

AL

LIBRO SESTO

ALLA pag. 23, trattandosi dell'attentato con cui Gianluigi

Fieschi di Genova voleva assassinare i Doria, sovvertire il governo della Repubblica, e usurpar la signoria della patria, ci dice il Botta qualmente la prima sera del 1547 il Fieschi, già radunati i complici e vicino il momento di dar mano all'impresa, tutto già spirando concitazione e rabbia, nelle segrete stanze di Eleonora moglie se ne giva, che trepida e di non so che presaga per quell'istinto, che l'uomo ha quando gli sovrastano le disgrazie grandi, se ne stava col Pansa sinistramente augurando, e di qualche imminente male lamentandosi. Le quali parole ci sembrano oltremodo singolari in uno scrittore come il Botta; imperciocchè oggidì, non che gli uomini saggi, ma neppure le vecchierelle credono più ai presentimenti e agli avvisi dell'istinto. Tutti sanno oramai che il corso delle circostanze antecedenti, e la concorrenza di molti piccoli indizj, raccolti dalla memoria e combinati dalla sagacità, suggeriscono quei prognostici che una volta passavano presso il volgo come voci del cuore; e se il cuore e l'istinto parlassero, ci avviserebbero quando stanno per caderci il suolo sotto i piedi e il tetto sopra la testa, fintantochè queste sventure grandi, e mortali ci arrivano all'improvviso, e quell'istinto, che l'uomo ha, non ce ne dice niente. Ma tali contraddizioni non sono rare nei dominj della odierna filosofia, e non è solo il Botta che se la ride degli esorcismi, degli scapulari e degli agnusdei, e poi crede ai presagi dell'istinto, e alle voci del cuore.

Bolla, vol. II.

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SOMMARIO.

Amarezze tra il Papa e l'Imperatore. Segue la materia della Sinodo Tridentina, e quali decreti vi si prendano. Scabrose controversie che vi si sollevano circa l'autorità della Santa Sede, e nel titolo della residenza. Il Papa ed i Legati del Concilio, sospettosi dell' Imperatore, desiderano la traslazione del Concilio in altro luogo. Una infermità di petecchie ne dà loro un colorito pretesto. Perciò i Padri del Concilio decretano coi più voti, solo contraddicendo i Prelati spagnuoli, ch'ei sia trasferito in Bologna. Pensieri del cardinal Cervino sopra la traslazione. L'Imperatore si sdegna, e scrive risentitamente a Roma: come il Papa risponde. Solenni proteste fatte dagli ambasciatori Cesarei in Roma alla presenza del Papa contro la traslazione. Spediente prudentissimo suggerito dal Cervino al Papa per strigarsi da queste difficoltà. L'Imperatore s'acqueta, e perchè. Il Papa sospende il Concilio di Bologna. Che cosa fosse l'Interim conceduto dall' Imperatore nella Dieta d'Augusta ai dissidenti. Il Pontefice se ne sdegna, e si risente. Discorso sull'Inquisizione. Semi di protestantisıno in Napoli. Il vicerè Toledo vuole introdurvi l'Inquisizione al modo di Spagna; i Napoletani egregiamente vi si oppongono, anche con l'arini. Caso lagrimevole di tre giovani napoletani. Deliberazioni di Cesare. Fine del tumulto. Congiura in Piacenza contro Pierluigi Farnese: è scannato, e come il suo cadavere serve di ludibrio: Piacenza si dà all' Imperatore. Come papa Paolo sente l'atroce caso di Piacenza. Congiura di Giulio Cibo coutro Genova, e il principe Doria. Si tratta di una Lega tra il Papa e il Re di Francia, contro l'Imperatore. Bellissima Orazione di Giovanni della Casa per la Lega al cospetto del Senato veneziano. Risposta del Senato. Accidenti di Piombino. Cosimo di Toscana freme della soggezione in cui vive verso la Spagna, e vorrebbe svincolarsene. Perseguita Lorenzino, uccisore di Alessandro, e come il fa ammazzare a Venezia. Viaggio di

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