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delle Repubbliche Lombarde, viveva la Repubblica di Genova; l'ultima fine di quella di Firenze, in cui furono mescolate tante fatiche con tanto sangue, mostrava con una rappresentazione, quasi ancora agli occhi presente, e pur troppo terribile, quante forze aggiungano all' uomo la carità della patria, la rabbia partigiana, e la discordia cittadina; e siccome l'età era soprammodo corrotta pei cattivi esempj sì dei popoli che dei grandi, ma ancor più dei grandi che dei popoli, vizio o virtù, delitto o innocenza, inganno o sincerità, che si usasse, purchè al desiderato fine, o buono o reo, si pervenisse, poco importava. Questi voleva opprimere la patria libera e farsene tiranno ; quegli uccidere un tiranno per sottentrare in luogo di lui; l'uno tirava i forestieri in Italia, per vendicarsi di un principe, o di un popolo italiano, che da lui si teneva offeso, l'altro li chiamava per lo sfrenato appetito di signoreggiar Italiani col ferro altrui; peggio poi che tutti pretendevano alle infamie loro more della libertà; il moversi era necessità dei tempi, ma il moversi a male costume, tempeste che non sanavano l'aria, ma la corrompevano. Ciò si faceva con pretesti di religione, ciò con pretesti di stato, e quando i principi avevano voglia di quietare, la religione gl'incitava, e quando la religione comandava che quietassero, gl'interessi mondani gli spingevano a straziarsi, ed a straziar con loro i popoli. Ciò durò finchè le lettere, passate appoco appoco più avanti, e più generalmente nel cuore degli uomini, addolcirono i costumi, mostrarono la funesta strada, e fecero accorto altrui, ché la religione era data, non per istrazio, ma per consolazione, il reggere, non per saziare la sete del comando, ma per felicitare chi obbedisce, l'obbedire non per legge di servitù, ma per necessità dell'ordine l'amor della patria, non per soggiogar le aliene, ma per far fiorire la propria; le lettere dovevano ammollire le ruvide scorze, e mansuefare i duri cuori dei feroci e frodolenti uomini. Ma assai fere voglie, assai

a

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lacerazioni avrò io a raccontarmi innanzi che a più felici condizioni m' accosti. Genova, Napoli, Toscana, Piacenza daran principio al lagrimevole argomento.

Viveasi Genova, anzi felicemente che no, col patrocinio delle leggi promulgate sotto l'ombra di Andrea Doria, contentandosi la Spagna ch'ella si godesse una moderata libertà, siccome quella che era sicura, per la fedeltà e divozione del Doria, che mai quello stato non si sarebbe mosso a farle danno. Così l'Imperatore Carlo, autore di reggimento assoluto in Firenze, fomentava la libertà in Genova, perchè così quello, come questa importavano alla sicurtà delle cose sue in Italia. Ciò non ostante, e malgrado del vivere libero, e della quiete apparente, vi covavano secrete faville, capaci di prorompere con l'occasione in un grave incendio. La parte francese vi era sempre viva, e tutti coloro che della presente condizione non si contentavano, a lei si accostavano sperando da sovvertimento potenza; la quale disposizione di volontà la Francia andava con segrete arti continuamente secondando. Oltre a ciò l'accomunare che vi si era fatto dei nobili e dei popolani, affinchè tutti ugualmente fossero partecipi dello stato, aveva scoperto quella radice di male che sempre vivrà dove si vorrà ordinare una egualità politica tra chi è nobile e chi non è. Quest' era, che le famiglie nobili più ricche, ed il cui nome da maggior tempo era stalo venerato dal popolo, si erano acquistata più potenza nel maneggio delle faccende pubbliche; e siccome in loro era maggiore sperienza di quanto importa allo stato, così quella preminenza, che ad esse veniva dal nome e dalle ricchezze,`sapevano conservare con la perizia. Da ciò nasceva che le altre famiglie nobili, e così ancora le popolane, vedendosi private in fatto di quanto loro dava il diritto, vivevano in mala soddisfazione, e desideravano novità. Costoro abbominavano e con ardenti parole detestavano l'avarizia e la prepotenza spagnuola, nè minore asprezza od odio

mostravano contro la tirannide presente, come la chiamavano, d'Andrea Doria, e la futura di Giannettino, cui Andrea andava tirando ad altezza, e che si vedeva dover fra breve succedere alla sua grandezza, essendo oggimai Andrea assai vecchio, e da dover presto cedere al comune destino degli uomini. Nè che Giannettino avesse ad usare la medesima moderazione dello zio non era per tutti chiaro e manifesto; che anzi si osservavano in lui spiriti alti, i quali, sebbene per una parte generosi fossero, dall' altra erano anche superbi, e davano timore ch'egli non istesse contento a quanto all'illustre vecchio era piaciuto di contentarsi, cioè di un patrocinio esente da tirannide ; i funesti esempi di Firenze erano impressi nella mente d'ognuno; indicavano i modi da tenersi per conculcare la libertà, e dimostravano quanto facilmente i giovani padroni di patrie libere vogliano e possano ridurle in servitù; imperciocchè nei giovani cuori la sfrenata cupidigia di avere il supremo dominio produce ciò che nei vecchi nasce dalla temenza di perderlo. Tale procedere con maggior fondamento si sospettava in Giannettino, perchè siccome del Fiorentino niuna qualità eminente prima che assunto fosse era conosciuta, così molte si vedevano abili a fargli scala nel Genovese, poichè l'adornavano una singolar perizia delle cose di mare, ed una illustre fama di valorosi fatti in guerra a giovamento della patria, al quale splendore sogliono i popoli andare così facilmente presi a pregiudizio della loro libertà, parendo, che per un fatale decreto di chi ordinò queste umane cose, l'uomo sia inclinato a più dare a chi già di per sè stesso più gli può torre; il che non è solamente principio di adulazione, ma ancora di

servitù.

Di tutti questi sospetti era piena Genova; i eittadini prudenti del futuro dubitavano.

Gli uomini fanno gli accidenti, ma più spesso ancora gli accidenti fanno gli uomini. Ciò accadde nel

l'egregia città, affinchè il mondo vedesse che quivi e allora, come sempre, e in ogni luogo, accanto ad un gran bene, cioè ad Andrea Doria, nasceva il suo contrario, cioè Gianluigi de' Fieschi, conte di Lavagna. Gianluigi, nato per dimostrare che anche all' età più vicine a noi non mancarono i Catilina, apparteneva ad una delle famiglie nobili più principali di Genova, o che si risguardi all'antichità della stirpe, o alla moltitudine dei clienti, od al valore e prudenza degli antenati. Fra questi massimamente risplendeva Sinibaldo, padre di Gianluigi, dico padre per natura, perchè il secondo, del tutto dissimile dal primo, nulla ritraeva da lui se non per la discendenza del sangue. Era stato Sinibaldo uno dei più benemeriti cittadini della genovese patria, avendo non poca parte nell'ordinazione presente della Repubblica, e per questa ragione Andrea Doria molto l'aveva ed accarezzato ed onorato. Ma l'esempio paterno non giovò a Gianluigi, postosi del tutto al fermo di turbare la patria per farla serva, e corrompere, eziandio con danno e infamia propria, il bene universale. Così feri e velenosi frutti nascono alcuna volta da dolci fiori!

in

Ogni cosa dava favore al barbaro desiderio del Fieschi. Francesco, re di Francia, che ancora sul principiar di quest'anno viveva, sebbene già infermo di quel male fosse che poco stante il condusse a morte, desiderava di far sentire di nuovo il suono delle sue armi in Italia. Genova, vicina a Francia, e parteggiante per inclinazione di non pochi per lei, pareva disposta a riceverle. Ciò sapeva, ciò agognava Fieschi, collocando la grandezza propria nel patrocinio altrui. Trovomi anche fra le mani autorità non lievi, per cui apparisce, ch' egli, disordinato nelle domestiche cose per ispensieratezza, e per dilettamenti così leciti, come illeciti, fosse stipendiario del Re, e tirasse, come sostentamento, e come allettamento, pensione da lui. Francesco, oltre i molti e forti luoghi che possedeva in Piemonte, bramava specialmente di ricu

(1547) perare il poco innanzi perduto dominio di Genova si per l'importanza della città in sè stessa e de' suoi traffichi di mare, che per l' opportunità che dava di ferire in sul fianco lo Stato di Milano, e di accennare a più segnalate imprese nell'ulteriore Italia. Non aveva ancora il Re animo d'insorgere con le forze di tutto il regno contro Cesare, non avendo ancora apprestate le armi necessarie ad un tanto sforzo, e trovandosi Carlo in sull'impeto della vittoria di Germania; ma il tener vivo un fuoco in Genova, e procurarvi, se fosse possibile, un incendio senza troppo avventurar sè e i suoi, gli pareva conferire a' suoi disegni.

Queste suggestioni, promesse e sussidj maravigliosamente incitavano l'animo ambizioso e torbido del giovane Genovese, e facevano sì che più si promettesse de' suoi pensieri che convenevol fosse, e già andava augurandosi la signoria di Genova con istrignerla con le catene di Francia.

Nè stimoli mancavano da altre parti. Papa Paolo già era entrato in gran sospetto contro l'Imperatore ; del che varie e molte erano le cagioni. Cesare sul finire del precedente anno già correva vincitore l'Alemagna, e quantunque la sua vittoria non fosse ancora compita, stando tuttavia allora in piedi l'Elettore di Sassonia, si vedeva nondimeno a tutti i segni, che avrebbe rotto quell' ultimo impedimento, e posto in mano sua la signoria di quella potente provincia; il che dava timore al Papa ch'egli avrebbe potuto anche in Italia quanto avrebbe voluto. Nè molto si confidava nelle intenzioni del vincitore, di cui non poche sinistre apparenze già andava raccogliendo; i soldati mandati da lui in Germania in virtù della Lega negletti, ed in rimote terre ed in misera condizione lasciati; non isforzati i vinti a riconoscere la Santa Sede, nè a conformarsi alle opinioni ed ai riti cattolici ; la larghezza di pensare e di vivere conceduta ai renitenti; non chiamati í Pontificj a parte dei frutti della

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