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I deputati, udita la benigna risposta di don Pietro, e ne tornarono allegri in Napoli, dove la riferirono alle piazze. Fu la novella ricevuta con generale contentezza. Tuttavia non erano gli animi intieramente gombri da timore, perchè l'aver usato il Vicerè quelle parole di castigare i colpevoli, sebbene avesse detto di volerlo fare per la via ordinaria, dava sopetto ch' egli non avesse la mente del tutto aliena dall'Inquisizione. Temevano che, cominciando con giusta apparenza, trascorresse poi a cose più ardue e gradatamente s'introducessere i terribili ordini dí Spagna. Tale era veramente l'intenzione del Toledo a ciò confortato principalmente da Gianpietro Caraffa, eardinal teatino, arcivescovo di Napoli, il quale, facendo professione di ottimo cattolico, e di natura aspra e severa essendo, avrebbe consentito prima ad ogni altra cosa che a non perseguitar gli eretici.

Ciò non ostante, la città si quietò, ma le promesse dello Spagnuolo riuscirono secondo il sospetto; perciò si proruppe in una gravissima sedizione. Era stato affisso alla porta dell'arcivescovato, addì undici di maggio, un altro editto molto più chiaro del precedente e formidabile, e che parlava alla scoperta d'Inquisizione, benchè ancora non fosse quella, di cui il popolo avesse temenza. In un subito si sollevò per tutta la città un gran rumore, e cominciò a farsi raunanza di gente, gridando tutti: Armi, armi; viva l' Imperatore; muoja l'Inquisizione. A questa voce uscì fuori in folla il popolo con armi di ogni sorta, e correndo a furia per le contrade con uno schiamazzo orribile, giunsero alla porta dell' arcivescovato, donde Tommaso Anello, Sorrentino, uno dei capi di quel tumulto, impetuosamente e con una rabbia indicibile levò l'editto. Gli Spagnuoli sparsi per la città si ripararono frettolosamente ai castelli, temendo d'essere ammazzati, perchè già fra i Napoletani udivasi questa voce: Uccidansi, uccidansi questi marrani. Il popolo adunato sulla piazza di Sant'Agostino depose l'e

letto Terracina, i capitani e i consultori, come partigiani del Vicerè e venduti a quanto ei volesse : nominò in loro luogo uomini della parte popolare, un Giovanni da Sessa, medico, personaggio audacissimo, Antonio d'Acunto, Gianvincenzo Falangone, e Gianantonio Cecere. I deposti, restati in grandissimo odio del popolo, andar non potevano per la città senza che insin í fanciulli non gridassero loro dietro, e traditori della patria non gli chiamassero.

I nobili, preso animo dalle disposizioni tanto ardenti del popolo, si congiunsero a lui, chiamando i popolani col nome di fratelli. Detestavano del pari l'Inquisizione, ma ancor più detestavano il Vicerè per le ragioni da noi in altro luogo raccontate. Aizzavano la gente del popolo, come se avesse ancora avuto bisogno di pungoli, con dire che era indubitabile, che il Vicerè voleva a qualunque costo introdurre l' Inquisizione, che non bisognava punto fidarsi delle sue promesse, che niuna Inquisizione, o fosse di Spagna, o fosse di Roma, era da tollerarsi, che alla forza faceva mestiero resistere con la forza, e che ciò si poteva effettuare senza offesa del rispetto ed obbedienza a cui erano tenuti verso il principe, loro signore.

Pervenute a notizia del Vicerè le novelle della sedizione, e come il popolo si fosse ardito di deporre il Terracina, molto suo confidente, ed appunto perchè suo confidente era, si risolvette a mostrar il viso a quegli uomini tumultuosi, e, pieno di sdegno, quantunque i deputati s'ingegnassero di calmarlo, diede ordine che si arrestassero e processassero Tommaso Anello sopraddetto, e Cesare Mormile, nobile del seggio di Porta Nuova, giovane molto esercitato nelle armi, ed in molta grazia del popolo. Il Vicerè il vo leva ricercare per giustizia, perchè il popolo era in quelle turbolenze ricorso a lui, ed egli si era loro offerto col sangue e con la vita per tutelargli e preservare la patria dalla peste che la minacciava. Pensava il Toledo, uomo fiero ed inflessibile, di fermar col terrore di due supplizj quegli spiriti mossi a novità. Botta, vol. II.

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Anello e Mormile, citati dal Reggente di vicaría bensì vi andarono, ma il primo accompagnato da tal folla, il secondo da quaranta suoi compagni di tale animo, che il Reggente ebbe per lo meglio non che di non querelarli, di accarezzarli ed onorarli. Licenziati dalla giustizia, furono portati in trionfo. Il Vicerè dissimulava l'affronto, ben sicuro che ne vedrebbe la vendetta.

In tanta sollevazione di animi, ogni accidente, benchè piccolo e non premeditato, poteva far sorgere casi di grande entità. Il Vicerè, per premunirsi contro quanto potesse accadere, aveva dai vicini presidj chia‣ mati tremila Spagnuoli, ottimi soldati, ed alloggiatigli nei castelli. Ed ecco levarsi all' improvviso il grido, che gli Spagnuoli usciti dal castello tiravano archibugiate ai cittadini, e che essendo corsi insino rua Catalana, quivi saccheggiavano le case, ed uccidevano persone di ogni sorta, uomini, donne e fanciulli. Che fossero usciti era vero, qual ne fosse la cagione; dei saccheggi ed omicidj fu vero poi, perchè i cittadini, vedendo i soldati con le schiere fatte e con le armi ammontate sulla piazza, e dubitando di qualche maltrattamento, serrarono a furia le botteghe, s'armarono a gara, e corsero popolarmente contro di loro. Gli Spagnuoli si mossero, ed arrivati insino a rua Catalana, commisero tutte quelle enormità di cui poco sopra si è favellato. In su questo il campanile di San Lorenzo cominciava a suonar campana a martello. In un subito tutta Napoli fu in armi. S'attaccarono in una feroce zuffa Napoletani e Spagnuoli, con molte morti da ambe le parti. In questo mentre i castelli, udito il suono terribile della campana di San Lorenzo, ed il romore delle archibugiate, si misero a trarre contro la città, ancorchè con poco danno; gli Spagnuoli sparsi su per le taverne furono tutti senzą remissione alcuna tagliati a pezzi. Durò la sangninosa mischia sino alla notte: ogni civile negozio restava interrotto, i tribunali cessavano gli uffizj.

Pretendeva il Vicerè, che la città aveva commesso ribellione; i Napoletani, all'incontro, protestavano, che, assaliti e chiamati a morte dai soldati del Vicerè, era loro stato lecito difendersi ; che, del resto, volevano serbare la debita ubbidienza e fedeltà verso l'Imperatore. Così dicevano popolo e nobili: ne fecero anche rogare atto solenne col parere di dotti giureconsulti, massimamente di Gianangelo Pisanello, uomo molto riputato per sapere in quei tempi.

Risoluto che si potevano difendere legittimamente, ed avvisando che nè le parole, nè le armi tumultuarie bastavano, vennero in sull'ordinar battaglioni. Diedero di ciò il carico a Gianfrancesco Caracciolo, priore di Bari, Pasquale Caracciolo, suo fratello, Cesare Mormile, tutti nobili, e Giovanni da Sessa, eletto del popolo.

Il Vicerè intanto bravava: giva gridando, che gli avvocati della città avevano mentito col dire che non fosse ribellione, e che presto avrebbe nelle mani tanti avvocati che vorrebbe, e gli farebbe strascinare e squartare per le piazze.

La fortuna nemica diede occasione a don Pietro di sfogare il suo crudele talento, principalmente contro ai nobili, che egli odiava quant'essi l'odiavano, e non era poco. Occorse che fu preso dagli aguzzini della vicaría Cesare Capuano, nobile di Porta Nuova, sotto pretesto che avesse dato la baja al Reggente dopo la liberazione di Tommaso Anello: era preso e sel portavano. Scontrossi in Gianluigi Capuano, suo fratello ed alcuni altri giovani nobili: perchè andasse legato il domandarono. Il giovane, ridotto a mal partito, rispose gridando, esser preso per ordine dell'Inquisizione. Non istettero a sentir altro, ma tostamente dato addosso agli aguzzini, Cesare liberarono.

Senti gravemente il Reggente della vicaría l'affronto fatto alla giustizia, e fattone informazione, la mandò al Vicerè. Ordinò che Gianluigi Capuano Fabbrizio d'Alessandro e Antonio Villamarino, il

(1547 primo colpevole del fatto, i due ultimi solamente corsi al romore, fossero presi e condotti in castello, poi si facesse loro il processo; il che fu eseguito. Voleva don Pietro che fossero impiccati, non tanto perchè il delitto meritasse così grave pena, ma per l'esempio ; il che è un singolar modo di giustizia. Il presidente del Consiglio, Cieco Loffredo, non volle mai firmare il decreto di morte; Giovanni Marziale, reggente di cancelleria, si peritava, ma infine sforzato sottoscrisse. Scipione di Somma, creatura del Vicerè, consigliere di guerra, concluse che i querelati giovani morire dovessero. Fecero crudele spettacolo alla già sanguinosa Napoli. Il ventiquattro maggio, un'ora dopo mezzogiorno, videsi un panno nero avanti il ponte del Castello Nuovo, e poco dopo uscirono i tre infelici giovani, circondati da soldati e da sbirri, e fatti inginocchiare sopra quel panno cogli occhi bendati furono da uno schiavo del Vicerè a guisa di mansueti agnelli orribilmente con una falce scannati. Seguíta la crudele giustizia, o piuttosto l'abbominevole ingiustizia, i corpi loro, poichè l'ira dello Spagnuolo non era ancora spenta, e voleva incrudelire contro i cadaveri, furono lasciati sovra quel panno, con bando fierissimo, che nessuno s'ardisse levarli; poi verso la sera andarono strascinati per un piede alla cappella di Monferrato all'incontro del castello.

A tale orrenda vista tutta la città concorse, e nacque ad ogni persona tanto timore e sdegno che, chiuse le case e le botteghe e tolte le armi con grandissima rabbia ed ardire, non sapendo che farsi, gridando e minacciando, quasi usciti di senno andavano or quinci or quindi errando.

Il Vicerè, visto il sangue dei tre giovani, se non innocenti, certamente non meritevoli di sì fiero castigo, vie più bravava. Con gran comitiva intorno di eavalieri spagnuoli e napoletani e di molti soldati a piè, cavalcò per tutta la città. Guardavanlo i cittadini sdegnosi e disperati, e l'avrebbero fatto a pezzi, se il

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