XL. All'imperatore Carlo quinto. Dopo tante onorate e sante imprese, Cesare invitto, in quelle parti e in queste; Tante e si strane genti, amiche e infeste, Tante volte da voi vinte e difese; Fatta l' Affrica ancella, e l'armi stese Oltre l'occaso, poi ch'in pace aveste La bella Europa; altro non so che reste A far vostro del mondo ogni paese, Ch'assalir l'oriente, e 'ncontr' al sole Gir tant' oltre vincendo, che, d'altronde Giunta l'aquila al nido ond'ella uscio, Possiate dir, vinta la terra e l'onde, Qual umil vincitor, che Dio ben cole: Signor, quanto il Sol vede, è vostro e mio. XLI. Canzone amorosa di un pescatore. Caro. [glio. O sorda più del mar nata di scoglio, Nutrita di velen da le balene; Deh ferma il passo, e rompi il duro orgoL'istoria de le lunghe aspre mie pene Non ti dirò; ch'annoverar sarebbe Tutte di Libia le minute arene: Basti saper che ben mi si dovrebbe Giusta pietà da que' begli occhi onesti, Onde la fiamma al cor ne venne e crebbe. So che conosci Alcippe, che intendesti Quanto ardea già di me; nè mai la volli: Così l'anima mia legar sapesti. Omai ti san chiamare i sassi, i colli: Tante volte io ti chiamo, e così spesso Son da quest'occhi il dì bagnati e molli. Io son Sebeto tuo; se pur me stesso Conosco bene, e tu 'l conosci: ascolta: Io son quel ch'era dianzi, io son quel desso. Questa colomba che a la madre ho tolta Staman nel nido, e tra fior bianchie gialli Questa ghirlanda in mille nodi avvolta Io t'ho serbato, e questi bei coralli, Purpurei e bianchi, che del nostro mare Colsi l'altr'ier ne'lucidi cristalli. Eombra, anzi non è quel ch'esser pare, Quel ch'ir ti fa superba: è men d'un fiore, Che non sarà diman com'oggi appare. Non vive sempre il bel vivo colore Del giglio; e in un matlin la spina perde Il tesor de le rose, il breve onore, 'Resti, Appena vien tra noi, che si disperde, E quasi insieme appare e si nasconde, Mortal beltà, ch'a un punto è secca e verde. Nettuno è il padre mio,re di quest'onde; Ne pescator è qui presso o lontano, Che più di me di nasse o reti abbonde. Chi nuota più? chi più destra la mano Tiene al pescar; sia pur la notte o'l giorno; Sia pur turbato il mar, sia queto e piano? Dehvieni ormai:lapioggia, il litointorno Ti chiama meco a l'ombra; ed io ti chiamo, Di questo lauro di bei rami adorno: Poichè lasciai per te già l'esca e l'amo. Rota, Egloghe pescatorie, Egloga VII, XLII. Le bugie. Di bugie da diverse bocche uscite, Donne, compost'oggi è la schiera nostra: Che, preso corpo e forma, insieme unite Ci siam, per farvi una leggiadra mostra. E, per narrarvi apertamente il vero, Sopra noi altre, son quelle che fuori A varii effetti, i principi e signori: Noi, quantunque d'origine men chiara, State pur siam prodotte Da begli ingegni, e da persone dotte, Veste, e si ricca d'ostro e gemme ed oro, Nè d'arte o di saver cediamo a loro. Di quanto giace qui sotto la luna, Poche cose ci son che non sien piene Mirate a l'arti: i medici, i mereanti, E fino gli scrittori Dell' istorie, si adornan tutti quanti Convien pur che noi siam cosa perfetta. Ma chi farne di voi può più verace Fede, donne amorose? Quante volte a che scandoli, a che cose, Al mondo tanto, fu colui ch'a' suoi [no, Siccome son men ricche d' ornamenti, Di lor poc'oltre si distenhe il grido; Fra 'l volgo iguaro, ov'ebber prima il nido; Or qual lingua si pronta, o quale stile, Oggi si trova, o fu mai, che facesse Che del nostro valor non si valesse? XLIII. La testuggine. FAVOLETTA Cini. Pria che'l poder sia nostro,non solo esso Noi dobbiamo e mirare e squadrar bene, Ma ancor le terre che gli stan da presso: Perchè, se quelle splendon, ne dan speAnzi certezza, che sia buon il clima. [ne, Sappiasi ancor l' uom che vicin si tiene. E quai siano i vicini inquirer prima Che gli alberghi oi poderi abbiam noi tolti, Edi momento assai più ch'uom non stime. E vi potrei contar popoli molti Che per fuggir vicini ladri infidi, Si son da più contrade insieme accolti, E da le patrie lor, da i dolci nidi › Adoj rasse. In volontario esilio si son messi, Nuove terre cercando e nuovi lidi. Nel principio del mondo fur concessi A gli animai da Dio quei privilegi E quei doni che chiesero egli stessi. Come nuovi vassalli a nuovi regi, Gran popolo di loro ivi convenne; Quali a i comodi intenti, e quali a i fregi. Tra gli altri la testuggine vi venne; E chiese il poter sempre, o vada o seggia, Trar seco la sua casa; e'l dono ottenne. Dimandata da Dio perchè gli chieggia Mercè che a lei più grave ognor si faccia: Non è, diss'ella, ch'io'l mio mal non veggia; Ma vo' piuttosto addosso e su le braccia Tor questo peso tutti gli anni miei, Che non poter schifar quando mi piaccia Un mal vicin. Che dunque dir potrei De' tempi nostri, se da quei d' Adamo Già s'ebbe tema de' vicini rei? Tansillo, Podere, capitolo I. Ne lascia intatti i prati, nè gli strami. XLV. Necessità della industria; valore e benefizii della medesima. Da che gli uomini in cielo e in paradiso, L'un furò 'I foco, e l'altro colse il pomo, Volgendo in pianto il proprio e l'altrui riso; Fe Dio compagni eterni al miser uomo I morbi, il mal, le cure e le fatiche; E fu 'l furto punito, e l'ardir domo. Onde,abbia quanto vuol le stelle amiche, Bisogna ch'uom patisca in tutte etadi, E con sudor si pasca e si nudriche 2. Ma vi son poi le differenze e i gradi: Cui più, cui men ne tocca. E tuttavia Son color che n'han poco, e pochi e radi. Vuol Dio che stato sotto il ciel non sia Ov'uom s'acqueti; e men chi ha miglior [sorte; Nè basta a l'altrui invidia che dimandi: Ond'è che tanto renda il poder tuo, Che è tal che un manto il copre che vi [spandi? Ma, accusandol, più d'uno e più di duo Dicean che con incanti e con malie Le biade altrui tirava al terren suo. Venne al giudizio il destinato die, Che si dovea por fine a le tenzoni, E scoprir l'altrui vero e le bugie. Il buon uom, per difender sue ragioni, Al tribunal de'giudici prudenti Non meno ne dottori ne patroni. Recò tutti i suoi rustici strumenti, E tutti i ferri onde il terren s'impiaga, Ben fatti, e per lungo uso rilucenti; Suoi grassi buoi, sua gente d'oprar vaga. Questi, dice (già posti in lor presenza), Son gl'incantesmi miei, l'arte mia maga. Le vigilie, il sudor, la diligenza Trar qui non posso, come fo di questi: Benchè de l'una io mai non vada senza. Subito, senza dar luogo a protesti Ed a calunnie, o porvi indugio sopra, Dichiararon lui buono e quei scelesti. E la sentenza fu, che più può l'opra Nel terren, che 'l dispendio ch'ivi fassi; E tanto val poder quanto uom v'adopra. D'oprar dunque in sul campo uom mai [non lassi; Chè 'l frutto è 'l ver tesor sotterra posto. Tansillo, Podere, capitolo II. XLVI. Lodi della vita rustica. In villa al gran dispendio si pon briglia: Nè senz'affanno abbia uom quel che desia. Il più de l'ore in opra si dispensa; Un saggio contadin, venendo a morte, E pochissima noja vi si piglia. Acciò che i figli in coltivar la terra S'esercitasser dopo lui più forte; Figli, lordisse, io moro: ed ho sotterra E ne la vigna il più de'beni ascoso; Ne mi sovvien del cespo ove si serra. Morto il padre, i fratei senza riposo A zappare e vangar tutto il dì vanno, Ciascuno del tesoro desioso. La vigna s'avanzò dal primiero anno; E i giovanetti inteser con diletto Del provido vecchion l'utile inganno. Aveva un buon Romano un poderetto, Dal qual traea più frutto, che da i grandi Non traean quei da cauto o di rimpetto. 'Intendasi il padrone. 2 Nutrichi. Poco mal vi si fa, men vi si pensa; E se hanno le città più passatempi, Hanno anche di perigli copia immensa. Cercan gli uomini d'oggi il passar tempi; Ed io, che son d'opinion diversa, Vorrei cosa che fosse arrestatempi. L'ambizione, al viver santo avversa, Che'l più de'nostri di fa men sereni, In villa raro alberga nè conversa. O troppo fortunati, se i lor beni Conoscesser color che si stan fora ' Tra colti poggi, e valli, e campi ameni! Cui da benigna terra d'ora in ora Quel che altrui fa bisogno agevolmente: 'Fuori. Ne suon di tromba i volti ivi scolora: E se non han gl'inchini de la gente, O felice colui che intender puote Ma in villa, ch'è sua tutta, si ricovra; Cosi potess'io tra Sebeto e Sarno Menare omai la vita che m'avanza, Con le ninfe del Tevere e de l'Arno, Da le quai fei si lunga lontananza: E de'signor sgannato di qua giuso, Fondar nel Re del cielo ogni speranza. Il mio cor,che languendo egro si duole, Tu ne sterpa i pensieri, e di giocondo XLVIII. Alla duchessa di Ferrara: Sposa regal, già la stagion ne viene Deh sarà mai, pria che giù cada il fuso. La verginella; e lui tra morte e vita Soave inforsa, e 'n dolce guerra il tiene. E con la mia dolcissima compagna, Or seco a l'ombra, or sovra il prato assiso, E con le care figlie, e (se 'l Ciel vuole) E di mia man fra lor parta e divida Suonano i gran palagi, e i tetti adorni, Di canto: io sol di pianto il carcer tetro Fo risonar. Questa è la data fede? Son questi i miei bramati alti ritorni? Lasso! dunque prigion, dunque ferétro Chiamate voi pietà, donna, e mercede? Torquato Tasso, XLIX. Sopra un cagnolino. Pargoletto animal, di spirto umano, Bianco come la fede onde sei pegno; Ch'in si bel grembo di seder sei degno, E prendi il cibo da sì bella mano; Teco albergo cangiar tenta, ma invano, Quel can che splende nel celeste regno; E prende il ciclo e le sue stelle a sdegno Mentre te mira e l'onor tuo sovrano. Forse ne le tue forme Amor converso Scherza teco così, come già fece Quand'oppresse a Didone il casto seno. Ma co'teneri morsi a lui ben lece Stringer di quella man l'avorio terso; Pur non ne passa al cor fiamma o veleno, Torquato Tasso, I Consoli. 3 L. Amore che fa nido. Tu parti, o rondinella, e poi ritorni Usat'ho per trovarlo, ed uso, ogni arte. È luogo alcuno ov'ei s'asconda o celi. Dove so che sovente ei fa soggiorno: LI. Amore e la zanzara. Mentre in grembo a la madre Amore Una zanzara zufolava intorno Disse allor, desto a quel susurro, Amore: Com'esce si gran voce e tal rumore, Con maniere vezzose, E tu picciolo sei; Mapur gli uomini in terra col tuo pianto, Torquato Tasso. LII. Amore fuggitivo. Scesa dal terzo cielo, lo che sono di lui regina e Dea, Cerco il mio figlio fuggitivo, Amore. Nel mio grembo scherzando, O fosse elezione o fosse errore, Mi punse il manco lato; E poi fuggì da me ratto volando, Nè so dove sia gito. lo, che madre pur sono, E son tenera e molle, promesse. Ma non risponde alcun? ciascun si tace? E la faretra ancor deposto e l'arco, E gli altri arnesi alteri e trionfali. Che conoscere ad essi Ancor che di celarsi a voi s'ingegni. E d'astuzia e d'etade, Picciolo è sì, che ancor fanciullo sembra E 'n guisa di fanciullo, Ne par che luogo trove 2 in cui s'appa ghi; Ma il suo scherzar è pieno Dee. Deve. 2 Trovi. |