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eccessiva forza non gli è tolto. E certamente si può stimare, che se Roma sortiva per terzo suo Re un uomo, che non sapesse con l'armi renderle la sua riputazione, non arebbe mai poi, o con grandissima difficultà, potuto pigliar piede, nè fare quelli effetti ch' ella fece. E così, mentre ch' ella visse sotto i Re, la portò questi pericoli di rovinare sotto un Re o debole, o tristo.

CAPITOLO XX.

Due continue successioni di Principi virtuosi fanno grandi effetti; e come le Repubbliche bene ordinate hanno di necessità virtuose successioni; e però gli acquisti ed augumenti loro sono grandi.

Poi che Roma ebbe cacciati i Re, mancò di quelli pericoli, i quali di sopra sono detti, che la portava, succedendo in lei uno Re o debole, o tristo. Perchè la somma dello imperio si ridusse ne' Consoli, i quali non per eredità, o per inganni, o per ambizione violenta, ma per suffragi liberi veni vano a quello imperio, ed erano sempre uomini eccellentissimi, dei quali godendosi Roma la virtù, e la fortuna di tempo in tempo, potette venire a quella sua ultima grandezza in altri tanti anni, che la era stata sotto i Re. Perchè si vede come due continue successioni di Principi virtuosi sono sufficienti ad acquistare il mondo, come Mach, Vol. II.

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furono Filippo di Macedonia, e Alessandro Magno. Il che tanto più debbe fare una Repubblica, avendo il modo dello eleggere non solamente due successioni, ma infiniti Principi virtuosisşimi che sono l'uno dell'altro successori; la quale virtuosa successione fia sempre in ogni Repubblica bene ordinata.

CAPITOLO XXI.

Quanto biasimo meriti quel Principe, e quella Repubblica che manca d'armi proprie.

Debbono i presenti Principi, e le moderne, Repubbliche, le quali circa le difese ed offese mancano di soldati propri, vergognarsi di loro medesime, e pensare, con lo esempio di Tullo, tale difetto essere non per mancamento d'uomini atti alla milizia, ma per colpa loro, che non hanno saputo fare i loro uomini militari. Perchè Tullo sendo stata Roma in pace quaranta anni, non trovò, succedendo lui nel Regno, uomo che fusse stato mai alla guerra. Nondimeno disegnando lui fare guerra, non pensò di valersi ne di Sanniti, nè di Toscani, nè d'altri che fussero consueti stare nell' armi; ma deliberò, come uomo prudentissimo, di valersi de' suoi. E fu tanta la sua virtù che in un tratto sotto il suo governo gli potè fare soldati eccellentissimi. Ed è più

verò che alcuna altra verità, che se dove sono uomini non sono soldati, nasce per difetto del Principe, e non per altro difetto o di sito, o di natura; di che ce n'è uno esempio freschissimo. Perchè ognuno sa come ne' prossimi tempi il Re d'Inghilterra assalto il Regno di Francia, nè prese altri soldati, che i Popoli suoi; e per essere stato quel Regno più che trenta anni senza far guerra, non aveva nè soldato, nè capitano che avesse mai militato: nondimeno ei non dubitò con quelli assaltare un Regno pieno di capitani, e di buoni eserciti, i quali erano stati continuamente sotto l'armi nelle guerre d'Italia. Tutto nacque da esser quel Re prudente uomo, e quel Regno bene ordinato; il quale nel tempo della pace non intermette gli ordini della guerra. Pelopida ed Epaminonda Tebani, poichè egli ebbero libera Tebe, trattola dalla servitù dello Imperio Spartano, trovandosi in una città usa a servire, e in mezzo di Popoli effeminati, non dubitarono, tanta era la virtù loro, di ridurgli sotto l'armi, e con quelli andare a trovare alla campagna gli eserciti Spartani, e vincergli e chi ne scrive dice, come questi due in breve tempo mostrarono, che non solamente in Lacedemonia nascevano gli uomini di guerra, ma in ogni altra parte, dove nascessino uomini, pure che si trovasse chi gli sapesse indirizzare alla milizia, come si vede che Tullo seppe indirizzare i Romani. E Virgilio non potrebbe meglio

esprimere questa opinione, nè con altre parole mostrare di aderirsi a quella dove dice:

Desidesque movebit

Tullus in arma viros.

CAPITOLO XXII.

Quello che sia da notare nel caso dei tre Orazi Romani, e dei tre Curiazi Albani.

Tullo Re di Roma, e Mezio Re d'Alba convennero che quel Popolo fusse signore dell'altro, di cui i soprascritti tre uomini vincessero. Furono morti tutti i Curiazi Albani, restò vivo uno degli Orazi Romani; e per questo restò Mezio Re Albano con il suo Popolo suggetto ai Romani. E tornando quello Orazio vincitore in Roma, e scontrando una sua sorella, che era ad uno dei tre Curiazi morti maritata, che piangeva la morte del marito, l'ammazzò. Donde quello Orazio per questo fallo fu messo in giudizio, e dopo molte dispute fu libero più per li prieghi del padre, che per li suoi meriti. Dove sono da notare tre cose: una, che mai non si debbe con parte delle sue forze arrischiare tutta la sua fortuna; l'altra, che non mai in una città bene ordinata li demeriti con li meriti si ricompensano; la terza, che non mai sono i partiti savi, dove si debba, o possa dubitare della inosservanza. Perchè gl' importa tanto a una

città lo essere serva, che mai non si doveva credere ch' alcuno di quelli Re, o di quelli Popoli stessero contenti, che tre loro cittadini gli avessero sottomessi, come si vede che volle fare Mezio; il quale benchè subito dopo la vittoria de' Romani si confessasse vinto, e promettesse la ubbidenza a Tullo; nondimeno nella prima espedizione che eglino ebbono a convenire contra i Veienti, si vide come ei cercò d'ingannarlo, come quel lo che tardi si era avveduto della temerità del partito preso da lui. E perchè di questo terzo notabile se n'è parlato assai, parleremo solo degli altri due ne' seguenti duoi capitoli.

CAPITOLO XXIII.

Che non si debbe mettere a pericolo tutta la fortuna, e non tutte le forze ; e per questo spesso il guardare i passi è dan

noso.

Non fu mai giudicato partito savio mettere a pericolo tutta la fortuna tua, e non tutte le forze. Questo si fa in più modi. L'uno è facendo come Tullo e Mezio, quando ei commissono la fortuna tutta della patria loro, e la virtù di tanti uomini, quanti avea l'uno e l'altro di costoro negli eserciti suoi alla virtù e fortuna di tre de' loro cittadini, che veniva ad essere una minima parte delle forze di ciascuno di loro. Nè si

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