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te in Francia ch'egli ebbero in Italia da Annibale, senza dubbio erano spacciati; perchè non si sarebbono valuti dei residui degli eserciti, come si valsero in Italia, non arebbero avuto a rifarsi quelle comodità, nè potevano con quelle forze resistere al nimico che poterono. Non si trova che per assaltare una provincia loro mandassino mai fuora eserciti che passassino cinquantamila persone; ma per difendere la casa ne misero in arme contra ai Francesi, dopo la prima guerra Punica, diciotto centinaja di migliaja. Nè arebbono potuto poi romper quelli in Lombardia, come gli ruppero in Toscana; perchè contra a tanto numero d'inimici non arebbono potuto condurre tante forze si discosto, nè combattergli con quella comodità. I Cimbri ruppero uno esercito Romano in la Magna, nè vi ebbero i Romani rimedio. Ma come egli arrivaroro in Italia, e che poterono mettere tutte le loro forze insieme, gli spacciarono. I Svizzeri è facile vincergli fuori di casa, dove e' non possono mandare più che un trenta o quarantamila uomini; ma vincergli in casa, dove e' ne possono raccozzare centomila, è difficilissimo. Conchiudo adunque di nuovo, che quel Principe che ha i suoi popoli armati e ordinati alla guerra, aspetti sempre in casa una guerra potente e pericolosa non la vada a rincontrare. Ma quello che ha i suoi sudditi disarmati, ed il paese

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inusitato alla

guerra,

se la discosti sempre

da casa il più che può. E così l'uno l'altro, ciascuno nel suo grado, si difenderà meglio.

CAPITOLO XIII.

Che si viene di bassa a gran fortuna pi con la fraude, che con la forza.

lo stimo essere cosa verissima che rado, o non mai intervenga, che gli uomini di piccola fortuna venghino a gradi grandi, senza la forza e senza la fraude purchè quel grado, al quale altri è pervenuto, non ti sia o donato o lasciato per eredità. Nè credo si truovi mai che la forza sola basti, ma si troverà bene che la fraude sola basterà; come chiaro vedrà colui che leggerà la vita di Filippo di Macedonia, quella di Agatocle Siciliano, e di molti altri simili, che d' infima, ovvero di bassa fortuna sono pervenuti o a Regno, o ad Imperi grandissimi. Mostra Senofonte nella sua vita di Ciro questa necessità dello ingannare, considerato che la prima ispedizione, che fa fare a Ciro contra il Re di Armenia, è piena di fraude e come con inganno, e non con forza, gli fa occupare il suo Regno. E non conchiude altro per tale azione, se non che ad un Principe che voglia fare gran cose, è necessario imparare a ingannare. Fagli, oltra Mach, Vol. II. 18

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DE' DISCORSI

di questo, ingannare Ciassare Re dei Medi suo zio materno in più modi; senza la quale fraude mostra che Ciro non poteva pervenire a quella grandezza che venne. Nè credo, che si trovi mai alcuno costituito in bassa fortuna, pervenuto a grande imperio, solo con la forza aperta, e ingenuamente, ma si bene solo con la fraude; come fece Giovanni Galeazzo per tor lo stato e lo imperio di Lombardia a Messer Bernabò suo zio. E quel che sono necessitati fare i Principi ne' principii degli augumenti loro, sono ancora necessitate a fare le Repubbliche, infino che le sieno diventate potenti, e che basti la forza sola. E perchè Roma tenne in ogni parte, o per sorte, o per elezione, tutti i modi necessari a venire a grandezza, non mancò ancora di questo. Nè potè usare uel principio il maggior inganno, che pigliare il modo di sopra discorso da noi, di farsi compagni, perchè sotto questo nome se gli fece servi; come furono i Latini, eď altri popoli all' intorno. Perchè prima si valse dell' armi loro di domare i popoli convicini, e pigliare la riputazione dello Stato; dipoi domatigli, venne in tanto augumento, che la poteva battere ciascuno. Ed i Latini non si avvidero mai di essere al tutto servi, se non poi che videro dare due rotte ai Sanniti, e costrettigli ad accordo. La qual vittoria, come ella accrebbe gran riputazione ai Romani co' Principi longin

qui, che mediante quella sentirono il nome Romano e non l'armi; così generò invidia e sospetto in quelli che vedevano e sentivano l'armi, trai quali furono i Latini. E tanto potè questa invidia e questo timore, che non solo i Latini, ma le colonie che essi avevano in Lazio, insieme con i Campani stati poco innanzi difesi, congiurarono contra al nome Romano. E mossero questa guerra i Latini nel modo che si dice di sopra che si muovono la maggior parte delle guerre, assaltando non i Romani, ma difendendo i Sidicini contra a i Sanniti, a'quali i Sanniti facevano guerra con licenza de' Romani. E che sia vero che i Latini si movessero per avere conosciuto questo inganno, lo dimostra T. Livio nella bocca di Annio Setino Pretore Latino, il quale nel consiglio loro disse queste parole: Nam si etiam nunc sub umbra foederis equi servitutem pati possumus, etc. Vedesi pertanto i Romani ne' primi augumenti loro non essere mancati eziam della fraude; la quale fu sempre necessaria ad usare a coloro che di piccoli principii vogliono a sublimi gradi salire, la quale è meno vituperabile, quanto è più coperta, come fu questa de' Romani.

CAPITOLO XIV.

Ingannansi molte volte gli uomini, credendo con la umilità vincere la superbia .

Vedesi molte volte come la umilità non solamente non giova, ma nuoce, massimamente usandola con gli uomini insolenti, che o per invidia, o per altra cagione hanno concetto odio teco. Di che ne fa fede lo istorico nostro in questa cagione di guerra tra i Romani e i Latini. Perchè dolendosi i Sanniti con i Romani, che i Latini gli avevano assaltati i Romani non vollono

proibire ai Latini tal guerra, desiderando non gli irritare; il che non solamente non gl' irritò, ma gli fece diventare più animosi contra a loro, e si scopersono più presto inimici. Di che ne fanno fede le parole usate dal prefato Annio Pretore Latino nel medesimo concilio, dove dice: Tentastis patientiam negando militem: quis dubitat exarsisse eos? Pertulerunt tamen hunc dolorem. Exercitus nos parare adversus Samnites foederatos suos audierunt, nec moverunt se ab urbe. Unde hæc illis tanta modestia, nisi a conscientia virium et nostrarum, et suarum? Conoscesi pertanto chiarissimo per questo testo, quanto la pazienza de' Romani accrebbe l'arroganza de Latini. E però mai un Principe debbe volere mancare del grado suo, e non debbe mai la

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