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CAPITOLO XXVII.

Ai Principi e Repubbliche prudenti debbe bastare il vincere; perchè il più delle volte, quando non basti, si perde.

e con

Lo usare parole contra al nimico poco onorevoli nasce il più delle volte da una insolenza che ti dà o la vittoria, o la falsa speranza della vittoria; la quale falsa speranza fa gli uomini non solamente errare nel dire, ma ancora nello operare. Perchè questa speranza quando la entra nei petti degli uomini, fa loro passare il segno, e perdere il più delle volte quella occasione d'avere un bene certo, sperando d'avere un me glio incerto. E perchè questo è uno termine che merita considerazione, ingannandocisi dentro gli uomini molto spesso, e danno dello stato loro; e' mi pare di dimostarlo particolarmente con esempi antichi e moderni, non si potendo con le ragioni così distintamente dimostrare. Annibale poich' egli ebbe rotti i Romani a Canne, mandò suoi oratori a Cartagine a significare la vittoria, e chiedere sussidi . Disputossi nel Senato di quello s' avesse a fare. Consigliava Annone, un vecchio e prudente cittadino Cartaginese, che si usasse questa vittoria saviamente in far pace co' Romani, potendola avere con condizioni oneste, avendo vinto, e non s'aspettasse di averla a fare

dopo la perdita; perchè la intenzione de'Cartaginesi doveva essere, mostrare ai Romani come e' bastavano a combattergli, ed avendosene avuta vittoria, non si cercasse di perderla per la speranza d'una maggiore. Non fu preso questo partito, ma fu bene poi dal Senato Cartaginese conosciuto savio, quando l'occasione fu perduta. Avendo Alessandro Magno già preso tutto l'Oriente, la Repubblica di Tiro, nobile in quelli tempi e potente, per aver la loro città in acqua, come i Viniziani, veduta la grandezza d'Alessandro, gli mandarono oratori a dirgli, come volevano essere suoi buoni servitori, e dargli quella ubbidienza voleva, ma che non erano già per accettare nè lui, nè le sue genti nella terra: doude sdegnato Alessandro che una città gli volesse chiudere quelle porte che tutto'l mondo gli aveva aperte, gli ributtò; e, non accettate le condizioni ro, vi mandò a campo. Era la terra in acqua, e benissimo di vettovaglie e d'altre munizioni necessarie alla difesa munita; tantochè Alessandro dopo quattro mesi s'avvide, che una città gli toglieva quel tempo alla sua gloria che non gli avevano tolti molti altri acquisti, e deliberò di tentare l'accordo, e concedere loro quello che per loro medesimi avevano domandato. Ma quelli di Tiro insuperbiti, non solamente non volsero accettar l'accordo, ma ammazzarono chi venne a praticarlo. Di che Alessandro sdegnato, con tanta

speranza,

forza si mise alla espugnazione, che la prese, e disfece, ed ammazzò e fece schiavi gli uomini. Venne nel millecinquecentododici uno esercito Spagnuolo in su il dominio Fiorentino per rimettere i Medici in Firenze, e taglieggiare la città, condotti da' cittadini dentro, i quali avevano dato loro che subito fussero in su'l dominio Fiorentino, piglierebbono l'armi in loro favore, ed essendo entrati nel piano, e non si scoprendo alcuno, ed avendo carestía di vettovaglie, tentarono l'accordo; di che insuperbito il popolo di Firenze, non l'accettò; donde ne nacque la perdita di Prato, e la rovina di quello Stato. Non possono pertanto i Principi che sono assaltati, far il maggiore errore, quando l'assalto è fatto da uomini di gran lunga più potenti di loro, che ricusare ogni accordo, massime quando egli è offerto; perchè non sarà mai offerto sì baso, che non vi sia dentro in qualche parte il bene essere di colui che lo accetta, e vi sarà parte della sua vittoria. Perchè e' doveva bastare al Popolo di Tiro che Alessandro accettasse quelle condizioni ch'egli aveva prima rifiutate, ed era assai vittoria la loro, quando con l'armi in mano avevano fatto condescendere un tanto uomo alla voglia loro. Doveva bastare ancora al Popolo Fiorentino, e gli era assai vittoria, se lo esercito Spagnuolo cedeva a qualcuna delle voglie di quello, e le sue non adempiva tutte; perchè l'intenzione di quelle

esercito era mutare lo Stato in Firenze, e levarlo dalla devozione di Francia, e trarre da lui danari. Quando di tre cose e'ne avesse avute due, che sono l'ultime, ed al popolo ne fusse restata una, che era la conservazione dello Stato suo, ci aveva dentro ciascuno qualche onore e qualche satisfazione; nè si doveva il popolo curare delle due cose, rimanendo vivo; nè doveva, quando bene egli avesse veduta maggior vittoria, e quasi certa, voler mettere quella in alcuna parte a discrezione della fortuna, andandone l'ultima posta sua, la quale qualunque prudente mai arrischierà se non necessitato. Annibale partito d'Italia, dove era stato sedici anni glorioso, richiamato da' suoi Cartaginesi a soccorrere la patria, trovò rotto Asdrubale e Siface; trovò perduto il Regno di Numidia; ristretta Cartagine tra i termini delle sue mura, alla quale non restava altro rifugio, che esso e l'esercito suo; e conoscendo come quella era l' ultima posta della sua patria, non volle prima metterla a rischio, ch' egli ebbe tentato ogni altro rimedio, e non si vergognò di domandare la pace, giudicando s'alcun rimedio aveva la sua patria, era in quella e non nella guerra; quale sendogli poi negata, non volle mancare, dovendo perdere, di combattere, giudicando ppter pur vincere,

perdendo, perdere gloriosamente. E se Annibale, il quale era tanto virtuoso, ed aveva il suo esercito intero, cercò prima

la pace che la zuffa, quando ei vide che perdendo quella, la sua patria diveniva serva, che debbe fare un altro di manco virtù e di manco isperienza di lui? Ma gli uomini fanno questo errore, che non che non sanno porre termini alle speranze loro, e in su quelle fondandosi, senza misurarsi altrimenti, rovinano.

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Quanto sia pericoloso ad una Repubblica o ad un Principe non vendicare una ingiuria fatta contra al pubblico, o contra al privato.

Quello che facciano fare agli uomini gli sdegni, facilmente si conosce per quello che avvenne ai Romani, quando e' mandarono i tre Fabi oratori a' Francesi, ch'erano venuti ad assaltare la Toscana, ed in particolare Chiusi. Perchè avendo mandato il popolo di Chiusi per ajuto a Roma, i Romani mandarono ambasciatori a' Francesi, che in nome del Popolo Romano significassero a quelli, si astenessino di far guerra ai Toscani. I quali oratori, sendo in sul luogo, e più atti a fare che a dire, venendo i Francesi e i Toscaui alla zuffa si misero tra i primi a combattere contra a quelli; onde ne nacque che essendo conosciuti da loro, tutto lo sdegno che avevano contra a' Toscani, volsero contra a' Ro

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