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Spendere lunghe parole in lode dell'opera, è

superfluo; chè unica cosa concessa, credo sia il far eco agli encomii che i più illustri luminari dell'italiana letteratura le impartirono. Poco posso soggiugnere a quanto Gravina, Tiraboschi, Pertica ri e Parini scrissero a di lei favore. Le doti di spirito e di corpo di cui esser deve un Cortigiano fregiato, il modo con cui guidarsi in corte, come diportarsi nel campo, quali scienze, quali arti debba egli prediligere e seguire, quali affettazioni accuratamente schivare, come rendersi grato al principe, quale finalmente l'ottimo principe, quale il migliore governo; ecco la meta che il Castiglione si prefisse in quest' aureo libretto. E di vero ei la aggiunse, e perfetto Cortigiano riesce chi a' suoi dettati si attiene; dettati ch' egli con tal nitidezza, eleganza e purità di lingua seppe esporre che, quantunque protesti di volere scriver lombardo piuttosto che toscano, pure dagli Accademici è messo nel novero degli scrittori che maggiormente meritarono degli studii e tra quelli le cui opere formano il sacrario da cui attinsero i moderatori dell'italiana favella. E della preferenza da lui data al comune italiano in confronto all' affettato toscano, veggansi le ragioni che a dilungo adduce ne' cap. X ed XI del libro Primo. Ottimo divisamento e tale che a paro di Dante, d'Ariosto, del Tasso, di Segneri, e, a parlare di alcuni recenti, insieme a Monti, a Parini, a Perticari, lo pose tra coloro che osarono colle eterne lor carte levare l' interdetto lanciato sugli

scrittori che nelle rive dell'Arno non videro il giorno; e dato esilio da' loro scritti aʼriboboli ed agli idiotismi toscani non altri confini prescrissero alla bellissima delle lingue, che i naturali del paese in cui viene scritta ed intesa.

Uomini tali che, atterrato il dispotismo provinciale, affratellarono gl'Italiani nella comunione dei pensieri e degli affetti; che, coll'unità del linguaggio dalle Alpi al Lilibeo, vollero alzar l'Italia a nazione; uomini tali meritano bene le cure degli studiosi e di chi ama dar opera a conservarne e diffonderne gli scritti. Senonchè pur troppo levarono alcuni saccenti la mano sacrilega sulle lor opere. E questo, oltre che di tant' altri, fu il destino del Cortigiano; que' profani alla meglio ne recisero qua e là alcuni brani da cui troppo caste orecchie rifuggivano, soppressero alcune voci e frasi che subodoravano di gentilesimo, ne corressero l'ortografia e la grammatica. Sdegnai se guirne l'esempio, e, parchissimo nelle rappezzatu re, consultai le migliori edizioni, le une colle altre collazionando, e il Ciccarelli e il Comino e il Silvestri mi furono guide principali sì nello omettere le facezie e i periodiin realtà troppo liberi, e sì nella riduzione dell' ortografia all'uso presente. Quanto alle voci divino, influsso delle stelle, e simili, ridicolo il sopprimerle.

Le cure che spesi e che di continuo io spendo e intorno a questa e intorno alle altre Edizioni dei Classici che di continuo escono dal mio Stabilimento, le accettino gli studiosi, e sarà a me grata ricompensa il compatimento ch'Eglino mi dimostrano, valevole ad accalorarmi sempre più nel proseguimento sì di questa che delle altre Opere che` imprendo a dare alla luce.

DI BALDASSAR CASTIGLIONE

SCRITTA DA PIERANTONIO SERASSI.

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BALDASSAR CASTIGLIONE, nacque a Casatico, sua villa nel Mantovano, il 6 di dicembre, l'anno 1478. Ebbe per genitori Cristoforo da Castiglione, nobilissimo e valoroso cavaliere, e Luigia Gonzaga della linea de' marchesi di Mantova, dama di gran senno e di maravigliosa accortezza. Da giovanetto fu mandato a studiare a Milano, dove apprese le lettere latine da Giorgio Merula, e le greche da Demetrio Calcondila. Fioriva allora grandemente la corte di Lodovico Sforza, perciocchè, essendo questo principe dotato di maraviglioso ingegno e d' un finissimo gusto, dava volentieri ricetto e favore agli uomini, nell' armi o nelle lettere segnalati. Per questo il Castiglione s'invogliò ardentemente di entrare a' servigi del duca, ove accolto di leggeri a riguardo della sua nobiltà e bellis sima indole, cominciò ad esercitarsi nel cavalca. re e nell' armeggiare con tanta buona grazia e destrezza, ch' ei s' acquistò l'amore e la stima di tutta la corte. Trovava però egli il suo maggior contento nello studio delle buone lettere, senza le quali conosceva non potere altri essere nè gentile, nè valoroso cavaliere. Quindi e colla 'scorta del proprio giudicio, e con l'indirizzo di Filippo Beroaldo il Vecchio si diè tutto alla let

tura degli antichi Greci e Latini, facendovi sopra diverse osservazioni e note eruditissime ; per le quali ben si vedeva quanto innanzi penetrasse fin d'allora coll' acutezza del suo felicissimo ingegno. Più d'ogni altro però si rese famigliari Cicerone, Virgilio e Tibullo; sopra de'quali fece tanto e così ordinato studio, ch'ei ne divenne col tempo piuttosto emolo che imitatore. Nè lasciava per questo di leggere ancora i migliori Italiani, e particolarmente i poeti; giacchè ammirò sempre in Dante l'energia e la dottrina, la dolcezza e la eleganza nel Petrarca, e in Loren⚫ zo de Medici e nel Poliziano la facilità e la naturalezza.

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Un sì bel corso di piacevoli studii venne al Castiglione interrotto, prima dalla perdita del padre, che, ferito nella battaglia del Taro, indi a pochi giorni si morì; poi dalla rovina dello Sforza, a cui dai Franzesi fu tolto miseramente quel fioritissimo stato. Convennegli pertanto ridursi a Mantova, ove il marchese Francesco lo accolse .con molta amorevolezza; e dovendo poco dappoi ire incontro al re di Francia a Pavia, volle che il Castiglione l'accompagnasse tra i cavalieri del suo seguito; e così trovossi ancora egli al superbo ingresso che il re fece in Milano li 5 ottobre del 1499.

In tale occasione il marchese, benchè non molto innanzi avesse combattuto contro di Carlo VIII, seppe talmente insinuarsi nella grazia del re Lodovico, che meditandosi da lui la conquista del reame di Napoli, lo dichiarò generale e suo luogotenente per quella impresa. Non so se il Castiglione se ne andasse a dirittura verso Napoli con l'armata francese; trovo bensì, che egli intervenne uel 1503 col marchese di Mantova alla battaglia del Garigliano, la quale es

sendo riuscita sinistramente per la poca obbedienza a lui prestata da' Franzesi, il Gonzaga disgustato si partì dall' esercito, concedendo intanto a Baldassare di venir, com' egli desiderava, a Roma.

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Quivi tra i molti principi e signori, che per la creazione di Giulio II, poco prima succeduta, ci erano concorsi, trovò esserci venuto Guidubaldo da Montefeltro duca d' Urbino col fiore de' suoi cortigiani. Stava già da qualche tempo a' suoi servigi Cesare Gonzaga; il quale per essere figliuolo di Giovampietro, fratel cugino della madre di Baldessare, e bene esercitato nelle buone lettere era a lui fin da' primi anni congiuntissimo non men d'animo, che di sangue. Per suo mezzo adunque, e per l'attinenza che avea con la duchessa, s' introdusse nella conoscenza e nella grazia di questo raro e sapientissimo principe; e fu tanto.il piacere e la meraviglia che il Castiglione prese del valore e della virtù, così del duca, come de' suoi cavalieri, ch' ei s'invaghi di volere ad ogni modo servirlo, e militare nel suo esercito. Tornato per tanto a Mantova, ne fece chiedere licenza al marchese, il quale, benchè non gliela negasse, trattandosi di servire un suo cognato, pure il soffri di mala voglia, e per molt'anni l' ebbe in odio e in abborrimento.

Partitosi adunque nella state del 1504 se ne venne al campo sotto Cesena, la qual teneasi per il duca Valentino; e fu subito da Guidubaldo ricevuto con condizioni molto onorate, essendo posto al governo di cinquanta uomini d'arme con 400 ducati l'anno di provisione. Quivi, essendogli caduto il cavallo, gli si smosse per sì fatta maniera un piede, che penò poi molto a riaversene. Intanto il duca, ricuperate le citCastiglione fasc. 104.

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