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Roma, l'indipendenza delle città democratiche, e i dittatori municipali in Italia. Assegnando sufficiente motivo della proscrizione incredibilmente protratta sino alla quinta generazione contro la memoria di Dante, mi riporto alla fede di scrittori toscani che ne lessero i documenti. Tuttavia finchè non siano accertati di nuovo, e pubblici tuttiquanti, avrò il fatto per dubbio.

CLXXVIII. Non lo trascuro; perchè s'uniforma al silenzio de' commentatori meno lontani dall'età del poeta, e agevola il modo d'interpretarlo. Il Boccaccio, sì nella vita e sì nel commento, rinfacciando acremente i vizi de' Fiorentini, e la crudeltà della patria contro al maggiore de' suoi cittadini, e deplorando gli effetti della discordia, si astiene da circostanze e da fatti, e da nomi, e da dottrine politiche; onde gli venne immeritamente e gli rimane indelebile fino a' di nostri la taccia d'ignoranza delle storie della sua città, e delle cagioni notabili dell'esilio di Dante (1). Più interessati a dissimulare quelle cagioni, vivevano i suoi figliuoli, e in maggiori pericoli, ed obbligati dall' imminente necessità. Avanzavano ad essi alcune facoltà indivise, assegnate più tempo innanzi dal loro padre a Francesco suo fratello maggiore, che sopravvissegli; e furono in parte vendute per intercessione d'arbitri a compensare il zio di ducento fiorini d'oro, prestati a Dante (2): e pagavangli inoltre trenta staia di grano annualmente in via di censo d'un residuo di debito che promettevano di saldare allorchè il loro patrimonio fosse redento dal fisco. Jacopo infatti nel 1342, riebbe

(1) LEONARDO ARETINO, Vita di Dante, pag. 10.

(2) Dall'Archivio generale de' Rogiti, presso il Pelli, Mem. pag. 28-29, nota (4).

alcuni poderi e case «non bruciate e bruciate » e non pare che pagasse al comune più di fiorini quindici d'oro (1), che ragguagliati anche alla carestia di denaro, non era somma capitale nè pure a que' tempi. Nè perchè la sentenza del bando rimanesse ancor valida, gli fu negato di ritornarsi in Firenze e di starvi a dimora; e vi resta ancora memoria di una sua figliuola nominata Aleghiera (2). Chi da ciò s' argomenta a mostrare che Jacopo non uscì mai di Firenze, e vi lasciò legittima successione (3), e chi invece contende che fermasse il suo domicilio in Verona (4), l'uno e l'altro danno al Boccaccio una nuova mentita che si ritorce contro essi. Perchè, se Jacopo non uscì mai di Firenze, e visse oltre al 1342, il Boccaccio che scriveva la vita verso que' tempi (5), sarebbesi egli attentato di narrare che l'ombra del padre suo fu veduta in sogno da quel figliuolo in Ravenna? E se fermò il suo domicilio in Verona, com'è che le carte dov'è ricordato non sono da riscontrarsi documentate fuorchè da notari in Firenze? Bensi credo ch'ei non vi morisse; e da che il notaro tralasciò la formola del nome della madre della figliuola, non pare che fosse nata di nozze legittime. Ma il vero di questo fa poco al proposito.

(1) Presso il Manni, Sigilli, vol. XVIII, pag. 77, che primo riferi il documento e fu poscia avverato e pubblicato con alcune varianti di nessun rilievo in più libri, e da poco in qua fra le note al Tiraboschi, e all' Aretino, Ediz. Rom. e Fior., vol. IV, e nel V della Padovana, pag. 119.

(2) Domina Aleghiera filia olim Iacobi Dantis de Aldighieris, et uxor olim Agnoli Joannis Balducci Populi S. Fidriani de Florentia per instrumentum rogalum sub die 6 Februarii, 1403 presso il Pelli, pag. 58.

(3) Annotaz. a? documenti, loc. cit., pag. 56. (4) MAFFEI, Scritt. Veron., pag. 52.

(5) Qui dietro, sez. cxxvii.

CLXXIX. E parmi evidente oggimai che a' figli di Dante non sarebbe stato mai conceduto di raccogliere in Firenze alcune reliquie d'eredità, se avessero divolgato il poema a viso aperto, e si fossero costituiti complici delle vendette paterne su la repubblica. Che abbiano alterato parole nel testo, non credo, nè trovo indizio veruno; nè pochi, se pur ne apparissero, basterebbero a dar fondamento all'accusa. Ma come dar conto delle dedicatorie che mancano, e delle parole FLORENTINUS NATIONE non moribus scemate al nome dell' autore? E da che l'autografo rimase in cura a' suoi figli, e le prime copie furono fatte fuor di Toscana, chi, se non essi, o poteva o si sarebbe pigliata mai la fatica di sopprimere ogni cosa, che tolta non danneggiava l'integrità del poema; ma lasciatavi esacerbava le invettive aspre per sè, e ritorceva sovra de' figliuoli i sospetti e le animosità tuttavia fresche de' guelfi ? Indi la perplessità e il lungo indugio a dar fuori il testo; indi l' aneddoto de' tredici canti smarriti, e della notturna rivelazione dall'alto che ricongiunseli agli altri già stati mandati tutti al principe ghibellino in Verona e diffusi in più copie assai prima che l'autore morisse; racconti che per avventura trovavano uomini anzi conniventi che creduli; ma che non lasciandosi facilmente smentire sviavano dagli eredi dell' esule le inquisizioni della fazione predominante in Toscana e in Romagna, e l'odio di tanti individui potenti, e famiglie, e congregazioni e città diffamate nella Commedia. Il nome di Cane imponeva ammirazione e terrore, tanto più quanto la realtà de' fatti agitava l'immaginazione a que' tempi più che non farebbe oggi la poesia. E n' è prova Giovanni Villani, nato forse vent'anni innanzi Cane, e morto vent' anni dopo, e osservatore attentissimo a registrare quasi ora per ora gli eventi :

e non sapeva determinare quanta fosse la potenza dello Scaligero, e si riporta alla fama (1). Ma nè il Villani, non che i figliuoli dell'autore, avrebbe potuto non avvedersi chi fosse il Veltro inseguitore mortale della Lupa a cacciarla d'Italia. Ne tacquero anche da poi che fu morto, perchè Mastino della Scala ereditò gli stati, la ferocia ghibellina, e l'anatema; e lo meritò peggiormente. Sconfisse i crociati guelfi (2), assali nemici ed amici in tutta l'Italia (3), trucidò di sua mano il vescovo di Verona che gli era congiunto di sangue (4); e fece lega d'armi e di parentado con l'arcivescovo di Milano, cardinale d'un antipapa (5) ed era quel Visconti che con la croce nella mano sinistra e la spada nuda nella diritta, rispose al legato del successore legittimo di san Pietro Diretegli che quest' una sarà difesa a quest' altra (6). Se dotti, adunati da quell' arcighibellino esposero la Divina Commedia: e se vero è che il loro libro sia tuttavia da vedersi nella libreria Laurenziana (7), forse che n'uscirebbero dichiarazioni più libere d'allusioni toccate timidamente o trasandate dagli interpreti destituti di protettori. Ma fors' anche paleserebbesi il pessimo de' commenti ; quanto è fatale a' letterati, qualvolta seggano in concistoro, d'essere chi più chi meno, codardi tutti: non per natura, ma perchè ove anche ciascuno fosse disposto a professare le proprie dottrine da martire, chi mai vorrebbe stare a pericoli per le altrui ?

(1) Croniche, lib. X, 139.
(2) Annali d'Ital. 1533.
(3) Ivi, an. 1334, seg.
(4) Ivi, an. 1337-1359.

Ivi, an. 1350-1340.
Ivi, an. 1351.

(7) MEHUS, Vit. Ambr. Camald.

CLXXX. L'autenticità del commento latino di Pietro Allighieri è impugnata (1), perciò che non vi si trova nè il figlio di Dante, nè il cittadino fiorentino, nè l'uomo intendente di poesia, e nè pure gli squarci più nobili del poema. »>-A me di questo commento, se bene moltiplicato in più codici, non è toccato di leggere se non pochi squarci riferiti ne' libri altrui, e mi sono riportato anche qui all'antiquario che lo divorò tutto intero (2): e gli credo. Non però fido nel suo giudizio, quando anzi le lacune che dopo l'età della stampa disanimarono editori dal pubblicarlo, mi sono indizii che il commento era autentico. Che se non fosse stato per que' difetti, non tutti, nel secolo XIV e XV, in Toscana lo avrebbero ricopiato liberamente. Però la tradizione antichissima dell' origine degli esemplari oggimai concatenasi per tanto ordine di testimonii e di tempi, che le prove congetturali allegate a distruggerla (3), ove fossero ammesse, ogni nome d'autore starebbe a rischio d'essere cancellato dall' opere sue. Che? a togliere il poco merito di quel commento a Pietro Allighieri, e a dargli lode d'un altro men indegno di lui, ma perdutosi, gli ritolgono anche il sepolcro in Treviso; e vanno filologizzando a trovare ch' ei moriva in Verona, e che quindi i versi dell' epitafio,

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sono imposture (4). -Ma così fatte erudizioni nuovissime, sono vergognose e a chi gode di dirle, e

(1) TIRABOSCHI, Stor. della lett., vol. V, pag. 402, nota (a), attenendosi al Dionisi.

(2) Vedi sopra sez. vi.

(3) DIONISI, Preparazione Istorica-critica, cap. 3, e spesso altrove. Loc. cit., cap. 31.

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