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come di tutte le altre arti dell'immaginazione, importa che le astrazioni siano rigorosamente inibite. Quando anche i primordii, e i progressi visibili, e il compimento d'un'opera potessero determinarsi con ordine certo e non interrotto di tempo, non però si starebbero meno invisibili e ignotissime sempre le date necessarie a spiare un raggio di lume fra le tenebre della mente. La mente, quantunque talor fecondissima nelle sue produzioni, non è mai conscia nè delle ingenite forze, nè degl'impulsi, nè degli accidenti, nè delle guise della sua fecondità; e comechè s'avveda del frutto che ella produce, e trovi alle volte alcuni espedienti a perfezionarlo, non sa nè quando n'accolse i primi semi, nè come cominciarono a germogliare ed a propagarsi. Gli egregi lavori del genio dell'uomo non saranno mai probabilmente stimati da chi guarda il genio diviso dall'uomo, e l'uomo dalle fortune della vita e de'tempi. I moti dell'intelletto sono connessi a quelle passioni che di e notte, e d'ora in ora, e di minuto in minuto, alterate da nuovi accidenti esterni, provocano, frenano e perturbano il vigore d'azione e di volontà in tutti i viventi. Nè per essere taluni individui dotati di forti facoltà intellettuali, son essi privilegiati dalle infermità e dalle disavventure che spesso attraversano e indugiano, chi più, chi meno, ma tutti, nel sentiero al quale ciascheduno è sospinto o dalla natura o dal caso. Alcuni ostacoli irritano, e invigoriscono gl' ingegni arditissimi a sormontarli; ed altri li prostrano. Le vicissitudini pubbliche dell'Italia, le ire delle parti, il dolore dell'esilio, e la avidità di vendetta e di fama erano sproni al poema di Dante. Ma le case signorili, dov'ei rifuggivasi a continuarlo, lo stringevano ad interromperlo; perchè erano ospizii per lui di « turpezza ;

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« Andava,

le corti massimamente d'Italia (1). mendicando,» e scrivendo, urget me rei familiaris angustia, ut hæc et alia utilia reipublicæ derelinquere oporteat (2) e sono apparito agli occhi a molti che forse per alcuna fama in altra forma m'aveano immaginato; nel cospetto de' quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera si già fatta come quella che fosse a fare. » Così con la vergogna, contro alla quale gli uomini alteri sono più pusillanimi e smarriscono forza e coraggio, congiuravano spesso gli assalti e gli assedii della povertà:

Pectora nostra duas non admittentia curas

Sed vatem egregium cui non sit publica vena,
Qui nihil expositum soleat deducere, nec qui
Communi feriat carmen triviale moneta:

Hunc, qualem nequeo monstrare et sentio tantum,
Anxietate carens animus facit, omnis acerbi
Impatiens, cupidus silvarum, aptusque bibendis
Fontibus Aonidum. Neque enim cantare sub antro
Pierio, thyrsumve potest contingere sana.
Paupertas, atque aeris inops, quo nocte, dieque
Corpus eget.

I varii modi co' quali la fortuna, agitatrice della nostra natura, favori o indugiò i lavori de' grandi ingegni in ogni arte, sono per avventura le norme meno ingannevoli a stimare le forze divine, se divine pur sono, o le umane, com'io sono costretto a presumerle, della mente.

XXV. Ed ora che la questione non trovasi, a quanto parmi, impedita dalla autorità di molte e diverse opinioni, procederò a dimostrare come Dante, non che aver mai dato al mondo il poema per lavoro

(1) Convito, p. 126, p. 71.
(2) Lett. a Cane della Scala.

DANTE

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compiuto, intendeva di alterarlo e sottrarre ed aggiungere molti versi fino all'estremo della sua vita. Però dianzi accennai che tutti i testi scritti e stampati derivarono da due o tre originali smarriti. Or se fosse avverato che l'autore non decretò finito il lavoro, e non lo fe' pubblico mai, ne risulterebbe emendazione ed interpretazione guidate da storiche norme. Le varianti non s'avranno da apporre ad interpolazioni ed errori altrui tutte quante; bensì parecchie, e le più luminose, al poeta. E infatti le si dividono, a chi le guarda, in tre specie chiaramente distinte. La prima consiste di accidenti di penna o di stampa, innestatisi invisibilmente nel testo. La seconda, di glossemi ne' codici antichi, che soltentrarono spesso alle vere lezioni. La terza, di alterazioni notate dall'autore, intorno alle quali, o si rimaneva perplesso, o la morte gl'impedì di cancellarle da' suoi manoscritti, per adottare le sole ch'ei s'era proposto di scegliere. Ciascuna di queste tre specie palesa contrassegni tutti suoi proprii, in guisa che le diversità loro risaltano in un subito agli occhi. Ed oltre all'utilità che l'emendazione e l'arte derivano dall'esame della terza specie di varianti, tutte le difficoltà di penetrare nella mente dell'autore non si rimarranno prossime alla impossibilità; e tutte le illustrazioni avranno meta più certa. Le allusioni a' fatti degli anni 1518 e 1319, nel principio della prima cantica e del 1314, nel mezzo della seconda — e del 1313, negli ultimi canti dell'ultima, e cent'altre si fatte, non saranno esplorate più come tracce a ordinare cronologicamente la storia della composizione della Divina Commedia; nè l'inutile disputare perpetuo che deriva da quelle date, ridurrà l'uomo a guardare la lor confusione come fenomeno inesplicabile.

XXVI. Dopo avere narrato il come gli amici di Dante gli fecero capitare dopo l'esilio i sette primi canti dell'Inferno composti in Firenze, il Boccaccio continua« Ricominciata dunque da Dante la magnifica opera, non forse, secondochè molti stimarebbono, senza più interromperla, la produsse al fine; anzi più volte che secondo la gravità de' casi sopravvegnenti richiedea, quando mesi, quando anri, senza potere operare alcuna cosa, mise in mezzo; nè tanto si potè avacciare, che prima non lo sopraggiungesse la morte, che egli tutta pubblicare la potesse. Egli era suo costume, qualora sei o otto canti fatti n'aveva, quelli, primachè alcun altro li vedesse, dove che egli fosse, mandarli a messer Cane della Scala, il quale egli oltre ad ogni altro aveva in riverenza; e poichè da lui eran veduti, ne faceva copia a chi la volea: ed in così fatta maniera avendo egli tutti fuor che gli ultimi tredici canti mandati, e quelli avendo fatti e non ancor mandati, avvenne che senza avere alcuna memoria di lasciarli, si mori. E cercato da quelli che rimasono figliuoli e discepoli più volte e in più mesi ogni sua scrittura, se alla sua opera avesse fatto alcuna fine, nè trovandosi per alcun modo i canti residui; essendo generalmente ogni suo amico corruccioso, che Iddio non l'aveva almeno al mondo tanto prestato, che egli il piccolo rimanente della sua opera avesse potuto compire, dal più cercare, nè trovandoli, s'erano disperati rimasi. Eransi Jacopo e Pietro, figliuoli di Dante, de' quali ciascuno era dicitore in rima, per persuasione d'alcuni loro amici messi a volere, quanto per loro si potesse, supplire la paterna opera, acciocchè imperfetta non rimanesse. Quando a Jacopo, il quale in ciò era più fervente che l'altro, apparve una mirabil visione, la quale non solamente dalla stolta presunzione il tolse, ma gli mostrò dove fos

sero li tredici canti, li quali alla Divina Commedia mancavano e da loro non saputi trovare. Raccontava un valentuomo ravegnano, il cui nome fu Piero Giardino, lungamente stato discepolo di Dante, che dopo l'ottavo mese dopo la morte del suo maestro, era vicino una notte all' ora che noi chiamiamo mattutino, venuto a casa il predetto Jacopo, e dettogli: Sè quella notte, poco avanti a quell' ora, avere nel sonno veduto Dante suo padre vestito di candidissimi vestimenti e d'una luce non usata risplendente nel viso, venire a lui, il qual gli pareva domandare: Se egli viveva? e udir da lui per risposta di sì; ma della vera vita, non della nostra. Per che oltre a questo gli pareva ancora domandare: Se egli aveva compiuto la sua opera anzi il suo passare alla vera vita? e se compiuta l'aveva, dove fosse quello vi mancava, da loro mai non potuto trovare? A questo gli pareva la seconda volta udire per risposta: Sì, io la compiei; e quinci gli pareva che lo prendesse per mano, e menasselo in quella camera ove era uso di dormire quando in questa vita viveva; e toccando una parete di quella, dicea: Egli è qui quello che tanto avete cercato; e questa parola detta, a un'ora Dante e il sonno gli pareva che si partissono. Per la qual cosa affermando, sè non esser potuto stare senza venire a significargli ciò che veduto aveva, acciò che insieme andassero a cercare nel luogo mostrato a lui, il quale egli ottimamente avea segnato nella memoria, a vedere se vero spirito o falsa delusione questo gli avesse disegnato. Per la qual cosa, restando ancora gran pezzo di notte, mossisi; ed insieme vennero al dimostrato luogo, e quivi trovarono una stuoja confitta al muro, la quale leggermente levatane, vidono nel muro una finestra da niuno di loro mai più veduta nè saputo che la vi fosse; ed in quella trovarono alquante scritture

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