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XXXIX. Per idem tempus, quum in arce Tarentina vix inopia tolerabilis esset, spem omnem praesidium, quod ibi erat, Romanum praefectusque praesidii atque arcis M. Livius in commeatibus ab Sicilia missis habebant. Qui ut tuto praeterveherentur oram Italiae, classis viginti ferme navium Rhegii stabat. Praeerat classi commeatibusque D. Quintius, obscuro genere ortus, ceterum multis fortibus factis gloria militari illustris. Primo quinque naves, quarum maximae duae triremes a Marcello ei traditae erant, habuit: postea rem impigre saepe gerenti tres additae quinqueremes: postremo ipse a sociis Rheginisque, et a Velia et a Paesto debitas ex foedere exigendo, classem viginti navium, sicut ante dictum est, effecit. Huic ab Rhegio profectae classi Democrates, cum pari classe navium Tarentinarum numero, quindecim millia ferme ab urbe ad Sacriportum obvius fuit. Velis tum forte, improvidus futuri certaminis, Romanus veniebat. Sed circa Crotonem Sybarimque suppleverat remigio naves, instructamque et armatam egregie pro magnitudine navium classem habebat; et tum forte sub idem fere tempus et venti vis omnis cecidit, et hostes in conspectu fuere, ut ad componenda armamenta, expediendumque remigem ac militem ad imminens certamen satis temporis esset. Raro alias tantis justae concurrerunt classes: quippe quum in majoris discrimen rei, quam ipsae erant, pugnarent. Tarentini, ut, recuperata urbe ab Romanis post centesimum prope annum, arcem etiam liberarent, spe commeatus quoque hostibus, si navali proelio possessionem maris ademissent, interclusuros; Romani, ut, retenta possessione arcis, ostenderent, non vi ant virtute, sed proditione ac furto. Tarentum amissum. Itaque ex utraque parte signo dato quum rostris concurrissent, neque retro navem inhiberent, nec dirimi ab se hostem paterentur, quam quis indeptus navem erat, ferrea injecta manu; ita conserebant ex propinquo pugnam, ut non missilibus tantum, sed gladiis etiam prope collato pede gereretur res. Prorae inter se junctae haerebant; puppes alieno remigio circumagebantur. Ita in arcto stipatae erant naves, ut vix ullum telum in mari vanum intercideret. Frontibus velut pedestris acies urgebant, perviaeque naves pugnantibus erant. Insignis tamen inter ceteras pugna fuit duarum, quae primae agminis concurrerant inter se. In Romana nave ipse Quintius

in fine perirono combattendo, e non più di cinquanta caddero vivi in potere dei nemici; e la perdita di questa banda di cavalli recò più danno ad Annibale, che la perdita di Salapia; nè il Cartaginese mai dappoi fu superiore di cavalleria, nella quale era stato dianzi assai gagliardo.

XXXIX. Verso quel tempo medesimo, non potendo più quasi la rocca Tarentina reggere alla carestia, non altra speranza aveva il presidio Romano, che vi era, e Marco Livio prefetto del presidio stesso e della rocca, che nelle vettova- glie mandate dalla Sicilia; e perchè passassero sicuramente lungo la costa d'Italia, stavasi armata in Reggio una flotta di circa venti navi. Presiedeva alla flotta ed alle vettovaglie Decio Quinzio, di oscuro lignaggio, del resto chiaro in guerra per molti fatti valorosi. Ebbe dapprima cinque navi da Marcello, delle quali le due maggiori eran triremi: poscia, essendosi diportato più volte con gran coraggio, se gli aggiunsero tre quinqueremi: egli poi altre esigendone dagli alleati, da quei di Reggio e di Velia e di Pesto, debite pei trattati, si avea formata, come s'è detto, una flotta di venti navi. A questa flotta, partitasi da Reggio, si fe' incontro con egual numero di navi Tarentine Democrate a Sacriporto, alla distanza quasi di quindici miglia dalla città. Il Romano allora veniva a vele, non s'imaginando di dover combattere; ma nelle vicinanze di Crotona e di Sibari avea rinforzate le navi di remiganti, e rispetto alla grandezza di queste, si trovava avere una flotta egregiamente provveduta ed armata; ed allora quasi al medesimo istante mancò interamente il vento, ed il nemico fu a vista, sì che s'ebbe tempo bastante a disporre tutto l'armamento, e a preparare i remiganti ed i soldati all'imminente battaglia. Di rado altre volte due giuste flotte si affrontarono con tanto ardore; perciocchè combattevano per maggior cosa, che non eran esse medesime. I Tarentini, ricuperata dopo un secolo dai Romani la lor città, per liberarne eziandio la rocca, sperando anche, se gli potean torre con battaglia navale, la possessione del mare, d'intercludere al nemico ogni speranza di vettovaglie; i Romani per mostrare, mantenendosi nella rocca, che avean perduto Taranto non per altrui forza o valore, ma per tradimento e per furto. Quindi, al dato segnale, corsi d'ambe le parti ad urtarsi colle prore, nessun legno ritraendosi indietro, nè soffrendo che il nemico si discostasse, aggrappando la nave, in che si abbattevano, cogli uncini di ferro, combattevano sì da vicino, che non solo adopravano i giavellotti, ma pur anche le spade, quasi da corpo a corpo. Le prore stavano strettamente appiccate le une alle altre, e le poppe

erat, in Tarentina Nico, cui Perconi fuit cognomen, non publico modo, sed privato etiam odio invisus atque infestus Romanis ; quod ejus factionis erat, quae Tarentum Hannibali prodiderat. Hic Quintium, simul pugnantem hortantemque suos, incautum hasta transfigit: ille atque praeceps cum armis procidit ante proram. Victor Tarentinus, in turbatam duce amisso navem impigre transgressus, quum submovisset hostes, et prora jam Tarentinorum esset, puppim male conglobati tuerentur Romani; repente et alia a puppi triremis hostium apparuit. Ita in medio circumventa Romana navis capitur. Hinc ceteris terror injectus, ut praetoriam navem captam videre ; fugientesque passim, aliae in alto mersae, aliae in terram remis abreptae, mox praedae fuere Thurinis Metapontinisque. Ex onerariis, quae cum commeatu sequebantur, perpaucae in potestatem hostium venere: aliae, ad incertos ventos hinc atque illinc obliqua transferentes vela, in altum evectae sunt. Nequaquam pari fortuna per eos dies Tarenti res gesta: nam ad quatuor millia hominum frumentatum egressa, quum in agris passim vagarentur, Livius, qui arci praesidioque Romano praeerat, intentus in omnes occasiones gerendae rei, C. Persium, impigrum virum, cum duobus millibus armatorum ex arce emisit. Qui, vage effusos per agros palatosque adortus, quum diu passim cecidisset, paucos ex multis, trepida fuga incidentes semiapertis portarum foribus, in urbem compulit, ne urbs eodem impetu caperetur. Ita aequatae res ad Tarentum; Romanis victoribus terra, Tarentinis mari. Frumenti spes, quae in oculis fuerat, utrosque frustrata pariter.

XL. Per idem tempus Laevinus consul, jam magna parte anni circumacta, in Siciliam, veleribus novisque sociis exspectatus, quum venisset, primum ac potissimum omnium ratus, Syracusis nova pace inconditas componere res. Agrigentum inde (quod belli reliquum erat, tenebaturque a Carthaginiensium valido praesidio) duxit legio

erano aggirate dai remi delle altre navi; e queste eran così serrate insieme, che quasi nessun dardo cadeva a vôto in mare: a fronte s'incalzavano come in battaglia pedestre, e i combattenti passavano da nave a nave. Fu però osservabile tra l'altre la pugna di due navi, che prime della fila s'erano azzuffate insieme. Era nella nave Romana lo stesso Quinzio, nella Tarentina Nicone, cognominato Percone, oltre che qual pubblico nemico, odioso anche personalmente ai Romani, perchè era della fazione, che avea dato Taranto ad Annibale per tradimento. Costui coll'asta passò da parte a parte Quinzio, che senza guardarsi combatteva e incoraggiava i suoi; e questi tombolò con tutte l'armi davanti alla prora. Mentre il Tarentino vincitore, saltato coraggiosamente nella nave Romana, sbigottita per la perdita del comandante, avea rimossi i nemici, e già impadronitisi i Tarentini della prora, i Romani affastellati mal ne difendevano la poppa, ecco improvvisa apparire alla poppa stessa altra trireme nemica. Così la nave Romana, tolta in mezzo, vien presa. Quindi tutte l'altre, vista presa la Capitana, furon colte da terrore, e fuggendo alla sfilata qua e colà, altre furono sommerse in mare, altre, a forza di remi sospinte in terra, rimasero poi preda dei Turini e dei Metapontini. De' navigli da carico, che venivan dietro colle vettovaglie, pochissimi vennero in potere dei nemici; gli altri, qua e là girando obliquamente, secondo il vario spirar dei venti, furono trasportati in alto mare. Non andò a Taranto la cosa con eguale fortuna. Perciocchè, essendo usciti da quattro mila uomini a foraggiare, mentre divagavano qua e là pe' campi, Livio, prefetto della rocca e del presidio Romano, intento a cogliere tutte le occasioni propizie, mandò fuori Caio Persio, uomo risoluto, con due mila armati; il quale piombando addosso a coloro, disordinati e vagamente sparsi per la campagna, poi che n'ebbe lungamente fatto macello, gli altri pochi, di molti ch'erano, li rispinse fuggenti dentro la città per le porte, ch'erano mezzo aperte, onde in quell' impeto medesimo la città stessa non fosse presa. Così le cose a Taranto restavan pari, vincendo i Romani per terra, i Tarentini per mare. La speranza del frumento, che aveano avuto dinanzi agli occhi, fallì egualmente e gli uni e gli altri.

XL. E così pure in quel tempo, passata già gran parte dell' anno, il console Levino venuto essendo in Sicilia aspettato dai vecchi e dai nuovi alleati, ebbe a principale e prima cura l'assestare le cose di Siracusa pe' nuovi avvenimenti ancora incomposte. Di là condusse le legioni ad Agrigento, ch'era tenuto dai Cartaginesi con valido

nes: et adfuit fortuna incepto. Hanno erat imperator Carthaginiensium, sed omnem in Mutine Numidisque spem repositam habebant. Per totam Siciliam vagus praedas agebat ex sociis Romanorum: neque intercludi ab Agrigento vi aut arte ulla, nec quin erumperet, ubi vellet, prohiberi poterat. Haec ejus gloria, quia jam imperatoris quoque famae officiebat, postremo in invidiam vertit; ut ne bene gestae quidem res jam Hannoni propter auctorem satis laetae essent. Propter quae postremo praefecturam ejus filio suo dedit, ratus, cum imperio auctoritatem quoque ei inter Numidas erepturum : quod longe aliter evenit: nam veterem favorem ejus sua insuper invidia a uxit. Neque ille indignitatem injuriae tulit, confestimque ad Laevinum occultos nuncios misit de tradendo Agrigento. Per quos ut est facta fides, compositusque rei gerendae modus, portam ad mare ferentem Numidae quum occupassent, pulsis inde custodibus, aut caesis, Romanos ad id ipsum missos in urbem acceperunt. Et quum agmine jam in media urbis ac forum magno tumultu iretur, ratus Hanno non aliud, quam tumultum ac secessionem (id quod et ante acciderat) Numidarum esse, ad comprimendam seditionem processit. Atque ille, quum ei multitudo major, quam Numidarum, procul visa, et clamor Romanus haudquaquam ignotus ad aures accidisset, prius quam ad ictum teli veniret, capessit fugam. Per aversam portam emissus, assumpto comite Epicyde, cum paucis ad mare pervenit; nactique opportune parvum navigium, relicta hostibus Sicilia, de qua per tot annos certatum erat, in Africam trajecerunt. Alia multitudo Poenorum Siculorumque, ne tentato quidem certamine, quum caeci in fugam ruerent, clausique exitus essent, circa portas caesa. Oppido recepto Laevinus, qui capita rerum Agrigenti erant, virgis caesos securi percussit: ceteros praedamque vendidit: : omnem pecuniam Romam misit. Fama Agrigentinorum cladis Siciliam quum pervasisset, omnia repente ad Romanos inclinaverunt. Prodita brevi sunt viginti oppida; sex vi capta: voluntaria deditione in fidem venerunt ad quadraginta: quarum civitatium principibus quum pro cujusque merito consul pretia poenasque exsolvisset, coëgissetque Siculos, positis tandem armis, ad agrum colendum animos convertere, nt esset non incolarum modo alimentis frugifera insula, sed urbis Romae atque Italiae (id quod multis saepe tempestatibus fecerat) annonam levaret; ab Agathyrna inconditam multitudinem secum in Italiam transvexit. Quatuor millia hominum erant, mixti ex omni colluvione exsules, obaereti, capitalia ausi plerique; et quum in civitatibus suis ac sub legibus vixerant, et post

presidio, sola parte di guerra, che restava; e la fortuna arrise all' impresa. Annone era il comandante dei Cartaginesi, ma tutta la loro speranza era posta in Mutine e nei Numidi. Costui, scorrendo tutta la Sicilia, menava prede dalle terre degli alleati Romani; nè si potea per forza o, per ingegno escluderlo da Agrigento, nè impedirgli che ne uscisse fuori quando il volesse. Questa sua gloria, perchè nuoceva alla fama del supremo comandante, in fine si convertì in invidia, sì che Annone non si allegrava nè anche de' buoni successi per rispetto di chi n'era l'autore; per lo che in ultimo diede la prefettura dei Numidi al proprio figlio, onde col comando torgli anche il credito presso di loro; il che accadde assai diversamente; perciocchè coll'odio suo non fe' che accrescere a Mutine l'antico favore. Nè sopportò egli l'indegnità dell'affronto, e tosto mandò segreti messi a Levino a trattare di dargli Agrigento. Come s'ebbe la fede da questi, e si convenne del modo di condur la cosa, avendo i Numidi occupata la porta, che mette al mare, scacciandone e trucidandone le guardie, introdussero in città i Romani, ch'erano stati mandati a quest'oggetto; e già inoltrandosi essi in ordinata schiera nel mezzo della città e nella piazza con gran tumulto, stimando Annone, che altro non fosse che un ammutinamento, una sommossa dei Numidi (com'era accaduto altre volte), si fe' innanzi per comprimere la sedizione; ma come vide da lontano ch'erano assai più gente, che i Numidi, e gli venne all'orecchio il grido Romano da lui ben conosciuto, innanzi di giungere a tiro d'arco, prende la fuga. Uscito per la porta opposta, toltosi a compagno Epicide, giunse al mare con pochi; e trovato opportunamente picciolo naviglio, abbandonata ai nemici la Sicilia, per la quale s'era combattuto tant'anni, passarono in Africa; l'altra moltitudine dei Cartaginesi e dei Siciliani, senza nè anche combattere, datisi ciecamente a fuggire, ed essendo chiusi gli egressi, fu tagliata a pezzi in sulle porte. Levino, ricuperata la fortezza, fe' battere colle verghe e percuotere di scure i principali di Agrigento: vendè gli altri e la preda, e mandò a Roma tutto il denaro, che ne trasse. Divolgatasi per la Sicilia la fama della strage degli Agrigentini, tutto subitamente piegò a favore dei Romani. Si ebbero in breve tempo venti castelli per tradimento: sei ne furon presi colla forza, e quaranta volontariamente si son dati. Il console poi ch'ebbe distribuiti e premii ai capi di queste città, e pene, secondo il merito di ciascuno, e costretti i Siciliani, finalmente posate l'armi, a rivolgersi alla coltivazion delle terre, acciocchè l'isola non solamente fruttasse

quam eos ex variis causis fortuna similis conglobaverat Agathyrnam, per latrocinia ac rapinam tolerantes vitam. Hos neque relinquere Laevinus in insula, tum primum nova pace coalescente, velut materiam novandis rebus, satis tutum ratus est: et Rheginis usui futuri erant ad populandum Bruttium agrum, assuetam latrociniis quaerentibus manum. Et, quod ad Siciliam attinet, eo anno debellatum est.

XLI. In Hispania principio veris P. Scipio, navibus deductis, evocatisque edicto Tarraconem sociorum auxiliis, classem onerariasque ostium inde Iberi fluminis petere jubet. Eodem legiones ex hibernis convenire quum jussisset, ipse cum quinque millibus sociorum ab Tarracone profectus ad exercitum est. Quo quum venisset, alloquendos maxime veteres milites, qui tantis superfuerant cladibus, ratus, concione advocata, ita disseruit: « Nemo ante me novus imperator militibus suis prius, quam opera eorum usus esset, gratias agere jure ac merito potuit. Me vobis prius, quam provinciam aut castra viderem, obligavit fortuna: primum, quod ea pietate erga patrem patruumque meum vivos mortuosque fuistis: deinde, quod amissam tanta clade provinciae possessionem, integram et populo Romano et successori mihi virtute vestra obtinuistis. Sed quum jam benignitate deûm id paremus atque agamus, non ut ipsi maneamus in Hispania, sed ne Poeni maneant, nec ut pro ripa Iberi stantes arceamus transitu hostes, sed ut ultro transeamus, transferamusque bellum; vereor, ne cui vestrum majus id audaciusque consilium, quam aut pro memoria cladium nuper acceptarum, aut pro aetate mea, videatur. Adversae pugnae in Hispania nullius in animo, quam meo, minus obliterari possunt; quippe cui pater et patruus intra triginta dierum spatium, ut aliud super aliud cumularetur familiae nostrae funus, interfecti sunt. Sed ut familiaris pene orbitas ac solitudo frangit animum; ita publica quum fortuna tum virtus desperare de summa rerum prohibet. Ea fato quodam data nobis sors est, ut magnis omnibus bellis victi vicerimus. Vetera omitto, Porsenam, Gallos, Samnites: a Punicis bellis incipiam. Quot classes, quot duces, quot exercitus priore bello amissi sunt? Jam quid hoc bello

alimenti agli abitanti, ma somministrasse, occorrendo, grani a Roma ed all'Italia (il che avea fatto sovente in varii tempi ), dall'Agatirna trasportò seco in Italia un ammazzo di gente d'ogni sorte. Erano da quattro mila uomini, sozza mescolanza di banditi, di falliti, la maggior parte rei di colpe capitali, e che mentre eran vissuti nelle loro città e sotto le leggi, e così dappoi che una comune fortuna gli avea dopo varii casi agglomerati in Agatirna, avean sempre vissuto di ladronecci e di rapina. Non istimò Levino che fosse cosa secura lasciar costoro, quasi fomite di novità, in un' isola, che cominciava allora per la fresca pace ad assodarsi; oltrechè sarebbero stati utili ai Reggiani, che cercavan gente avvezza ai ladronecci per saccheggiar le terre dei Bruzii. E quanto alla Sicilia, ebbe in quell'anno fine la guerra.

XLI. In Ispagna sul principio di primavera Publio Scipione, tratte fuori le navi, e chiamati a Tarracona con editto gli aiuti degli alleati, ordina che la flotta e i legni da carico vadano all' imboccatura del fiume Ibero. Avendo comandato che le legioni, uscendo da' quartieri d'inverno, colà pure si radunassero, egli partì da Tarracona con cinque mila alleati alla volta dell'esercito. Dove essendo arrivato, giudicando che fosse bene far parole specialmente ai vecchi soldati, ch'erano avanzati da tante stragi, chiamato parlamento, così arringò : « Nessuno nuovo comandante avanti me potè giustamente e meritamente render grazie a'suoi soldati, innanzi che avesse fatta prova dell'opera loro. Hammi la fortuna obbligato a voi innanzi che vedessi la provincia e il campo; primieramente perchè foste affezionati tanto a mio padre e zio, vivi e morti; poi perchè questa provincia con tanta strage perduta, voi col valor vostro la riconquistaste intera al popolo Romano, e a me, che a quelli succedo. Ma poscia che per la bontà degli dei pensiamo e miriamo, non a rimanere noi nella Spagna, ma sì a fare che i Cartaginesi non ci stieno, e non a fermarsi sulle sponde dell' Ibero a vietare il passo a'nemici, ma sì a varcarlo noi stessi, e portar oltre la guerra, temo che questa impresa non sembri a talun di voi grande ed ardita più, che non comporta la memoria de' recenti nostri disastri o l'età mia. Nessuno manco di me potè cancellare dall'animo le sconfitte nostre nella Spagna, di me, il cui padre e zio nello spazio di trenta giorni, accumulandosi l'un sopra l'altro i mortorii nella nostra famiglia, perirono. Ma se, rimasto quasi l'unico di tutti i miei, la domestica solitudine mi abbatte l'animo, d'altra parte la fortuna e virtù pubblica non mi lasciano disperare della somma delle cose.

memorem? Omnibus aut ipse adfui cladibus, aut, quibus abfui, maxime unus omnium eas sensi. Trebia, Trasimenus, Cannae, quid aliud sunt, quam monumenta occisorum exercituum consulumque Romanorum? Adde defectionem Italiae, Siciliae majoris partis, Sardiniae. Adde ultimum terrorem ac pavorem, castra Punica inter Anienem et moenia Romana posita, et visum prope in portis victorem Hannibalem. In hac ruina rerum stetit una integra atque immobilis virtus popoli Romani: haec omnia strata humi erexit ac sustulit. Vos omnium primi, milites, post Cannensem cladem vadenti Hasdrubali ad Alpes Italiamque, qui si se cum fratre conjunxisset, nullum jam nomen esset populi Romani, ductu auspicioque patris mei obstitistis: et hae secundae res illas adversas sustinuerunt. Nunc, benignitate deûm, omnia secunda, prospera, in dies laetiora ac meliora in Italia Siciliaque geruntur. In Sicilia Syracusae, Agrigentum captum, pulsi tota insula hostes, receptaque provincia in ditione populi Romani est. In Italia Arpi recepti, Capua capta. Iter omne ab urbe Roma trepida fuga emensus Hannibal, in extremum angulum agri Bruttii comnpulsus, nihil jam majus precatur deos, quam ut incolumi cedere atque abire ex hostium terra liceat. Quid igitur minus conveniat,milites, quam, quum aliae super alias clades cumularentur, ac dii prope ipsi cum Hannibale starent, vos hic cum parentibus meis ( aequentur enim etiam honore nominis) sustinuisse labantem fortunam populi Romani; nunc eosdem, quia illic omnia secunda laetaque sunt, animis deficere? Nuper quoque quae acciderunt, utinam tam sine meo luctu, quam vestro, transissent! 'Nunc dii immortales imperii Romani praesides, qui centuriis omnibus, ut mihi imperium juberent dari, fuere auctores, iidem auguriis auspiciisque, et per nocturnos etiam visus omnia laeta ac prospera portendunt. Animus quoque meus, maximus mihi ad hoc tempus vates, praesagit nostram Hispaniam esse: brevi extorre hinc omne Punicum nomen, maria terrasque foeda fuga impleturum. Quod mens sua sponte divinat, idem subjicit ratio haud fallax. Vexati ab iis socii nostram fidem per legatos implorant: tres duces discrepantes, prope ut defecerint alii ab aliis, trifariam exercitum in diversissimas regiones distraxere. Eadem in illos ingruit fortuna, quae nuper nos afflixit: nam et deseruntur ab sociis, ut prius ab Celtiberis nos, et diduxerunt exercitus; quae patri patruoque meo causa exitii fuit. Nec discordia intestina coire eos in unum sinet, neque singuli nobis resistere poterunt. Vos modo, milites, favete nomini Scipionum, soboli imperatorum vestrorum, velut accisis recrescenti stirpibus. Agite, milites vete

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questa la sorte nostra, per non so quale destino, che in tutte le guerre d'importanza vinti avessimo a riuscire vincitori. Lascio le antiche, Porsena, i Galli, i Sanniti; comincierò dalle guer→ re Cartaginesi. Quante flotte non si son perdute, quanti capitani, quanti eserciti nella prima guerra? E che dirò di questa? O mi son trovato presente a tutte codeste rotte, o quelle, dove non intervenni, m'hanno più vivamente che altri percosso. Trebbia, Trasimeno e Canne, che altro sono, se non se monumenti di eserciti e consoli Romani trucidati? Aggiungete la defezion dell'Italia, della maggior parte della Sicilia, della Sardegna. Aggiungete l'ultimo terrore e spavento, il campo Cartaginese piantato tra l'Aniene e le mura di Roma, e il visto quasi alle porte Annibale vincitore. In mezzo a così immensa rovina sola stette intera ed immobile la virtù del popolo Romano: questo rilevò e rinfrancò quanto giaceva prostrato al suolo. Voi primi, o soldati,dopo la strage di Canne,sotto la condotta e gli auspizii di mio padre, faceste fronte ad Asdrubale, che veniva all' Alpi ed in Italia; il quale se si fosse congiunto col fratello, già sarebbe spento il nome Romano; e questi prosperi successi ci dieron forza di reggere a codeste altre calamità. Ora per la clemenza degli dei tutto ci riesce a bene, prosperamente, tutto va ogni dì più lietamente ed alla meglio nella Sicilia e nell'Italia. In Sicilia si è ripresa Siracusa ed Agrigento, si son cacciati dall' Isola tutti i nemici, e la provincia è tornata in dominio del popolo Romano. In Italia si è riavuto Arpi, si è presa Capua. Annibale, misurando tutta la via con fuga precipitosa, onde scostarsi da Roma, respinto nell'angolo estremo del paese de' Bruzii, non altro chiede tanto agli dei, quanto che gli si dia di trarsi salvo, ed uscire dal territorio nemico. Che altra cosa dunque si converrebbe meno, o soldati, quanto che l'aver voi, quando accumulavansi le rotte l'una sull'altra, e quasi gli stessi dei stavano alla parte di Annibale, sostenuta quivi insieme co' padri miei (e mi sia lecito pareggiarli a voi per onore del nome) la vacillante fortuna del popolo Romano, ed ora, che le cose tutte son qui prospere e liete, perdervi d'animo? Anche le sciagure testè accadute, fossero pur passate non tanto senza il mio, quanto senza il vostro danno! Ora però gli dei immortali, proteggitori del Romano impero, i quali ispirarono a tutte le centurie che mi si desse il comando, essi stessi e cogli augurii e cogli auspizii ed anche colle notturne visioni ci promettono eventi lieti e felici. Lo stesso animo mio, che fino a questo di non mi fu mai fallace indovino, mi presagisce, che la Spagna sarà nostra, e che tra breve tutto

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