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del tutto, non vi si metta per modo alcuno: perché, non facendo bene, non si può escusare che questa non sia la profession sua. Appresso dee considerar molto, in presenzia di chi si mostra e quali siano i compagni; perché non saría conveniente che un gentilomo 25 andasse ad onorare con la persona sua una festa di contado, dove i spettatori ed i compagni fossero gente ignobile.

X. Disse allor il signor Gasparo Pallavicino: Nel paese nostro di Lombardia non s'hanno questi rispetti; anzi molti gentilomini giovani trovansi, che le feste ballano tutto 'l dí nel sole coi villani, e con essi giocano a lanciar la barra, lottare, correre e saltare: ed 5 io non credo che sia male, perché ivi non si fa paragone della nobilità, ma della forza e destrezza, nelle quai cose spesso gli omini di villa non vaglion meno che i nobili; e par che quella domestichezza abbia in sé una certa liberalità amabile. Quel ballar nel sole, rispose messer Federico, a me non piace per modo alcuno, né 10 so che guadagno vi si trovi. Ma chi vuol pur lottar, correr e saltar coi villani, dee, al parer mio, farlo in modo di provarsi, e come si suol dir, per gentilezza, non per contender con loro; e dee l'omo esser quasi sicuro di vincere; altramente non vi si metta; perché sta troppo male e troppo è brutta cosa e fuor della dignità vedere un 15 gentilomo vinto da un villano, e massimamente alla lotta: però credo io che sia ben astenersene, almeno in presenzia di molti, per ché il guadagno nel vincere è pochissimo, e la perdita nell' esser vinto è grandissima. Fassi ancor il gioco della palla quasi sempre

21. Perché, non facendo bene ecc. Questo passo fu probabilmente suggerito all'A. da uno analogo del De oratore (lib. I, XXVII, 124-125).

X. 1. Nel paese nostro di Lombardia ecc. E non nella Lombardia soltanto e da semplici gentiluomini giovani si usavano simili esercizî. Sappiamo, ad esempio, che nel gennajo del 1502, mentre cingeva Cesena di assedio, il duca Valentino soleva andare travestito sui colli vicini, dove si divertiva a fare la lotta, la corsa e il salto con quei villani (V. Alvisi, Cesare Borgia, Imola, 1878, p. 155).

3. Nel sole; piú comune al sole, che qui riuscirebbe forse meno proprio ed efficace.

6. Ma della forza e destrezza. Come appunto faceva Cesare Borgia, che godeva di dare saggio di quella sua forza muscolare veramente straordinaria, per la quale sapeva infrangere un'asta con le mani, o troncare una fune o spezzare un ferro di cavallo. (Alvisi, Op. cit., p. 156).

8. Una certa liberalità amabile. È quella virtú, cosí rara in un principe, della quale era dotato in sommo grado Federico, duca d' Urbino. Di lui appunto scriveva Vespasiano da Bisticci nella vita che ce ne lasciò,

che spesso « andava a uno convento di Santo Francesco, dove era un bellissimo prato grande, e una bella veduta. Giunto quivi, si ponea a sedere, e trenta ovvero quaranta giovani de' sua si spogliavano in farsetto, e facevano a gittare la verga, di poi o al pome o alle braccia, che era cosa degna a vedere. Il Signore quando non correvano bene, o quando nel pigliare non erano destri, li riprendeva, e tutto faceva perché eglino si addestrassero е non istessino oziosi ».

14. Un gentilomo vinto ecc. Eppure non mancò un poeta, Francesco Uberti, che in un suo epigramma Ad victorem rusticum celebrò la vittoria riportata da un villano, che, nella lotta, aveva abbattuto uno dei famigliari del duca Valentino. (Alvisi, Op. cit. p. 156).

18. Il gioco della palla. Si sono ricor dati piú sopra (lib. I, xxII, 12) alcuni do cumenti, i quali confermano il grande fa vore di cui godeva questo classico giuoco presso la miglior Società del Cinquecento, presso le corti stesse di Mantova e di Ur bino. Qui ricordo che Antonfrancesco Doni, dando nella sua Attavanta (Firenze, Le Monnier, 1857, p. 30) il disegno d'una villa

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in publico; ed è uno di quei spettaculi, a cui la moltitudine apporta assai ornamento. Voglio adunque che questo e tutti gli altri, dal- 20 l'armeggiar in fora, faccia il nostro Cortegiano come cosa che sua professione non sia, e di che mostri non cercar o aspettar laude alcuna, né si conosca che molto studio o tempo vi metta, avvenga che eccellentemente lo faccia; né sia come alcuni che si dilettano di musica, e parlando con chi si sia, sempre che si fa qualche pausa nei 25 ragionamenti, cominciano sotto voce a cantare; altri camminando per le strade e per le chiese vanno sempre ballando; altri, incontrandosi in piazza o dove si sia con qualche amico, si metton subito in atto di giocar di spada o di lottare, secondo che più si dilettano. Quivi disse messer Cesare Gonzaga: Meglio fa un cardinale giovane 30 che avemo in Roma, il qual, perché si sente aiutante della persona, conduce tutti quelli che lo vanno a visitare, ancorché mai piú non gli abbia veduti, in un suo giardino, ed invitagli con grandissima instanzia a spogliarsi in giuppone e giocar seco a saltare.

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XI. Rise messer Federico; poi suggiunse: Sono alcun altri esercizii, che far si possono nel publico e nel privato, come è il danzare; ed a questo estimo io che debba aver rispetto il Cortegiano; perché danzando in presenzia di molti ed in loco pieno di populo parmi che si gli convenga servare una certa dignità, temperata però con leg- 5 giadra ed aerosa dolcezza di movimenti; e benché si senta leggie

signorile anzi principesca, raccomandava

di non dimenticarvi « il pallatojo da corda e spazio accomodato da fare altri giuochi, come si costuma signorilmente ai luoghi di spasso, di contento e d'allegrezza». E piú oltre (p. 38) fra questi giuochi annoverava gli scacchi, tavole... palla, pallone, pallamaglio, trucco, biliardo, caselle, rulli, morelle, zoni, aliossi, lacchetta, mestola e pallottole ». Del resto la prova piú eloquente della importanza che nella vita cortigiana e signorile del sec. XVI aveva questo gioco alla palla, ci è offerta dal Trattato del Giuoco della Palla di messere Antonio Scaino da Salò (In Vinegia, presso il Gioliti, 1555), composto dallo Scaino, filosofo illustre, per una questione insorta mentre a quel gioco si esercitava Alfonso II, allora principe di Ferrara, al quale il libro è dedicato.

26. Cominciano sotto voce a cantare ecc. Assai più breve era il passo corrispondente nella redazione primitiva di mano del copista, nel cod. Laurenz.: « Cosi sotto voce cantare, ut, re, mi, fa, sol, la, altri in pubblico, et in privato, caminando per le strade e per le chiese, si vanno facendo represe, e continenzie e seguiti: Sono alcuni altri exercitij che far si ponno in publico et in privato, come è il danzare.... ». Dove le

riprese, le continenze ed i seguiti sono espressioni tecniche usate a designare certi movimenti nel ballo; le prime due annoverate fra i nove movimenti dai quali nasce la vaghezza del ballo, nel Libro dell'Arte di danzare di Antonio Cornazano (1465) (V. Nota di G. Zannoni nei Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, Cl. di scienze morali, stor. e filol. Estr. dal vol. VI, 1890, p. 287). Più tardi il C. diede maggiore estensione a questo passo inserendovi l'accenno ad un cardinale giovane, che forse è quello stesso Galeotto della Rovere, Cardinale di S. Pietro in Vincula, che mori in età giovanissima nel 1508 e che in questo medesimo libro (cap. XLIV) ci apparisce come amante di piacevolezze in compagnia di fra Mariano e del Bibbiena.

31. Aiutante. Più usata, sebbene piú arcaica, è la forma aitante.

XI. 6. Aerosa dolcezza ecc. Questo aggettivo aerosa e il sostantivo corrispondente aere, applicati alla danza ricorrono spesso, fra gli altri, nel Trattato dell'Arte del ballo di Guglielmo Ebreo pesarese, testo ined. del sec. XV (Bologna, 1873, Disp. 131 della Scelta di curios. letter.), dove troviamo appunto un Capitolo dell'Aiere. Quivi (p. 17 sg.) è detto che l'aiere « è un atto de aierosa presenza et elevato movimento, con la

rissimo, e che abbia tempo e misura assai, non entri in quelle prestezze dei piedi e duplicati rebattimenti, i quali veggiamo che nel nostro Barletta stanno benissimo, e forse in un gentilomo saríano 10 poco convenienti: benché in camera privatamente, come or noi ci troviamo, penso che licito gli sia e questo, e ballar moresche e brandi; ma in publico non cosí, fuorché travestito, e benché fosse di modo che ciascun lo conoscesse, non dà noja; anzi per mostrarsi in tai cose nei spettaculi publici, con arme e senza arme, non è 15 miglior via di quella; perché lo esser travestito porta seco una certa libertà e licenzia, la quale fra l'altre cose fa che l'omo pò pigliare forma di quello in che si sente valere, ed usar diligenzia ed attila

propria persona mostrando con destreza nel danzare un dolce et umanissimo rilevamento: imperò che, faciendo alcuno nel danzare un passo sciempio o uno doppio o ripresa o continenza o scossi o salterello, è di bisognio fare alcuno aieroso rilevamento, e porgiere destramente nel battere dei tempi, perché tenendoli bassi e sanza rilievo e sanza aiere, mostraria imperfetto e fuori di sua natura el danzare, né parria anche a circunstanti degnio di grazia né di vera laude. Questo atto adunque del rilievo è

aiere... ».

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7. Misura. Cosi è definita da Guglielmo Ebreo nel Capitolo de Misura (Op. cit. pp. 12 sg.); Misura, in questa parte et all'arte del danzare appartenente, s'intende una dolcie e misurata concordanza di vocie e di tempo partito con ragione et arte, il quale principalmente consiste nel strumento citarizante o altro suono, el quale in tal modo sia concordante e temperato, che tanto sia il suo pieno, quanto il suo voto... >> E piú innanzi si legge che la misura » ti mostra il tempo de' passi sciempi e de' passi doppi e di tutti li altri tuoi movimenti et atti alla detta arte conducenti et necessari ».

12. Brandi. Come il branle dei Francesi (V. Henri Estienne, Deux dialogues ecc. ed. cit. vol. II, p. 88 sg. e la nota del Ristelhuber), il brando era il nome d'un ballo usato spesso nel sec. XVI; e lo stesso C. nella celebre sua lettera già citata (ed. Serassi, vol. I, p. 158) in cui descrive la prima rappresentazione urbinate della Calandria (1513), parlando della quarta intromessa o intermezzo, dice che a un certo punto s'avanzò « un carro di Giunone... tirato da due pavoni tanto belli, e tanto naturali che io stesso non sapea, come fosse possibile, e pure li avevo visti, e fatti fare. Inanti due aquile e due struzzi: dietro dui uccelli marini, dui gran pappagalli di quei tanto macchiati di diversi colori.... tutti questi uccelli baliavano ancor loro un brando con tanta

grazia, quanto sia possibile a dire, né imaginare ». Un accenno importante a questo ballo ci è dato da G. B. Doni (De' trattati di Musica, tomo II della Lyra Barberina, Firenze, 1763, p. 93) nel passo che segue: ".... il ballo è detto da' Latini saltatio; ancorché abusivamente si chiami anco ballo quel passeggio, che si fa comunemente, e a tempo di musica con varie figure, e moti delle gambe e de' piedi, come in quella sorte di danze, che si dicono brandi, tordiglioni, bassedanze, pavaniglie e simili ». Fuorché travestito. Da questo passo possiamo farci un' idea della vera passione che si aveva a quel tempo per l'andar mascherati, specialmente nelle Corti e nelle grandi città, in Roma, in Ferrara, in Urbino, in Modena, dov'era la fabbrica più celebre di maschere. Lo stesso C. cosi scriveva da Roma, il 22 gennajo del 1505: "Molte maschere si fanno per Roma: questi Signori Cardinali e Prelati non ne perdono oncia». E soggiungeva: «Io per me di queste non ne piglio molto piacere ». (Lett. famil. ed Serassi, vol. I, n. x, p. 13). Ma tre anni dopo, il nostro Baldassarre prendeva parte in Urbino alle mascherate di Corte, e di una di esse ci lasciò ricordo egli medesimo in una lettera scritta alla madre, dove troviamo accennato anche un incidente toccato a m. Cesare Gonzaga: « L'altro di essendosi fatto maschera il sig. Prefetto e m. Cesare ed io, e andando con Sua Signoria a spasso a cavallo per queste nevi scherzando, la disgrazia volse che il cavallo di m. Cesare cascò, e gli ruppe un poco una gamba, la quale gli è stata benissimo acconcia.... » (Lett. del 15 gennaio 1508, in Lett. famil., vol. I, n. xxxvп, рagina 35).

17. Usar diligenzia ecc. Darsi tutto l'impegno in ciò che gli sta piú a cuore e in cui vuol far mostra di sé, ed usare invece una certa noncuranza verso ciò che non gli interessa.

tura circa la principal intenzione della cosa in che mostrar si vole, ed una certa sprezzatura circa quello che non importa, il che accresce molto la grazia: come saría vestirsi un giovane da vecchio, 20 ben però con abito disciolto, per potersi mostrare nella gagliardia; un cavaliero in forma di pastor selvatico o altro tale abito, ma con perfetto cavallo, e leggiadramente acconcio seconda quella intenzione: perché subito l'animo de' circunstanti corre ad imaginar quello che agli occhi al primo aspetto s'appresenta; e vedendo poi riuscir 25 molto maggior cosa che non prometteva quell'abito, si diletta e piglia piacere.

Però ad un principe in tai giochi e spettaculi, ove intervenga fizione di falsi visaggi, non si converría il voler mantener la persona del principe proprio, perché quel piacere che dalla novità viene ai 30 spettatori manchería in gran parte, ché ad alcuno non è novo che il principe sia il principe; ed esso, sapendosi che, oltre allo esser principe, vuol aver ancor forma di principe, perde la libertà di far tutte quelle cose che sono fuor della dignità di principe; e se in questi giochi fosse contenzione alcuna, massimamente con arme, 35 poría ancor far credere di voler tener la persona di principe per non esser battuto, ma riguardato dagli altri; oltra che, facendo nei giochi quel medesimo che dee far da dovero quando fosse bisogno, levaría l'autorità al vero, e parería quasi che ancor quello fosse gioco: ma in tal caso, spogliandosi il principe la persona di principe, 40 e mescolandosi egualmente con i minori di sé, ben però di modo che possa esser conosciuto, col rifiutar la grandezza piglia un' altra maggior grandezza, che il voler avanzar gli altri non d'autorità ma di virtú, e mostrar che 'l valor suo non è accresciuto dallo esser principe.

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XII. Dico adunque che 'l Cortegiano dee in questi spettaculi d'arme aver la medesima avvertenzia, secondo il grado suo. Nel volteggiar poi a cavallo, lottar, correr, e saltare, piacemi molto fuggir la moltitudine della plebe, o almeno lasciarsi veder rarissime volte; perché non è al mondo cosa tanto eccellente, della quale gli igno- 5 ranti non si sazieno, e non tengan poco conto, vedendola spesso. Il medesimo giudico della musica: però non voglio che 'l nostro Cortegiano faccia come molti, che subito che son giunti ove che sia, e alla presenzia ancor di signori de' quali non abbiano notizia alcuna, senza lasciarsi molto pregare si mettono a far ciò che sanno, e spesso 10

29. Fizione di falsi visaggi. Cioè mascherate, mascheramenti. Qui abbiamo due parole arcaiche, ma che probabilmente furono suggerite all'A. dall'uso francese.

39. Levar l'autorità. Togliere il prestigio, o, come Dante direbbe, dismagar l'onestate.

XII. 3. Fuggir la moltitudine ecc. Da

questo passo, come dall'altro più innanzi (gente ignobile ecc.) come dalla fine del cap. IX traspare tutto quel disdegno aristocratico dell'A. e della società da lui rappresentata, disdegno che del resto s'era manifestato abbastanza fin dal principio del primo libro nella questione della nobiltà del cortegiano.

ancor quel che non sanno; di modo che par che solamente effetto siano andati a farsi vedere, e che quella sia la lor professione. Venga adunque il Cortegiano a far musica co per passar tempo, e quasi sforzato, e non in presenzia di g 15 bile, né di gran moltitudine; e benché sappia ed intenda in questo ancor voglio che dissimuli il studio e la fatica cessaria in tutte le cose che si hanno a far bene, e most poco in sé stesso questa condizione, ma, col farla eccell la faccia estimar assai dagli altri.

XIII. Allor il signor Gaspar Pallavicino, molte sorti disse, si trovan, cosí di voci vive, come d'instrumenti: piacerebbe intender qual sia la miglior tra tutte, ed a debba il Cortegiano operarla. Bella musica, rispose m 5 rico, parmi il cantar bene a libro sicuramente e con bell ma ancor molto più il cantare alla viola, perché tutta consiste quasi in un solo, e con molto maggior attenzion intende il bel modo e l'aria non essendo occupate le ore che in una sol voce, e meglio ancor vi si discerne ogni pic 10 il che non accade cantando in compagnia, perché l'uno a Ma sopra tutto parmi gratissimo il cantare alla viola p il che tanto di venustà ed efficacia aggiunge alle parole maraviglia. Sono ancor armoniosi tutti gli instrumen perché hanno le consonanzie molto perfette, e con facilit

XIII. 2. Instrumenti. Sugli strumenti musicali piú in uso nel secolo XVI si sono già date alcune indicazioni (lib. I, cap. XLVII); qui voglio soltanto ricordare un passo assai notevole di Anton Francesco Doni (La seconda Libraria, Vinegia, MDLI, c. 20r-21r), il quale, dopo aver citato i suoi Dialogi della musica da lui dedicati a Mons. Rev.mo Catelano Triulzio vescovo di Piacenza, giunto al nome di Andrea Naccheri, nota che « nello studio mirabile del Mag.co M. Lorenzo M. si può vedere una opera stupenda, questo è un libro dove sono disegnati non solamente li instrumenti da suonare antichi, ma moderni ancora ». Poscia il Doni fa una lunga enumerazione di strumenti musicali, per la cui conoscenza sarebbe riuscita preziosa l'opera del Naccheri, ora, ch'io sappia, perduta, se pure (ma è poco probabile) essa non esistette che nella fervida fantasia dello scrittor fiorentino. Al quale dobbiamo, com'è noto, quattro opuscoli in forma di dialogo e intitolati appunto Dialoghi della musica, canto, alto, tenore, basso, Vinegia, Girolamo Scotto, 1544, che sono vere rarità bibliografiche; tanto che la sola copia intiera che sia in Europa è forse quella recentemente acquistata per la biblioteca del Liceo musicale di Bologna.

6. Alla viola. Della pred pel cantare alla viola, che pratutto gratissimo », abbia dizî nelle sue stesse lettere appassionato suonatore, eg cune viole e violette, che gl ste in prestito dagli amici, e mo, si faceva mandare da M Per es. il 24 ottobre del 1. madre: «V. S. sarà conter Ercule nostro una mia vid mio Camerino ». (Lett. fan n. 102) e nella lettera segue zo 1522: « Il Cavalier Val lettera mi prega ch' io g viola; io gli ho risposto c pigliarla per servirmene, o la facesse dimandare, V. perché penso mandare pr questo effetto (Ibid. p. 82, C. si dilettasse spesso di apparisce evidente anche Elegia qua fingit Hippoly ipsum scribentem: « Utque vivia laeta frequenti, Et c mista jocis. Aut cithara a cantuque calorem ». Per fi cit.) parlando del libro m cheri, sopra citato, ci dà

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