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d'uno che si voleva partir di Roma: Al parer mio, costui pensa male; perché è tanto scelerato, che stando in Roma ancor col tempo potria esser cardinale. Di questa sorte è ancor quello che disse Alfonso Santacroce; il qual avendo avuto poco prima alcuni oltraggi 20 dal Cardinale di Pavia, e passeggiando fuori di Bologna con alcuni gentilomini presso al loco dove si fa la giustizia, e vedendovi un omo poco prima impiccato, se gli rivoltò con un certo aspetto cogitabondo, e disse, tanto forte che ognun lo senti: Beato tu, che non hai che fare col Cardinal di Pavia.

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LXXIII. E questa sorte di facezie che tiene dell'ironico pare molto conveniente ad omini grandi, perché è grave e salsa, e puossi usare nelle cose giocose ed ancor nelle severe. Però molti antichi, e dei più estimati, l' hanno usata, come Catone, Scipione Africano minore; ma sopra tutti in questa dicesi esser stato eccellente So- 5 crate filosofo, ed a' nostri tempi il re Alfonso Primo di Aragona;

di quello che si legge in Cicerone (de orat. II, 67): « ut noster Scaevola Septumuleio illi Anagnino, cui pro C. Gracchi capite erat aurum repensum, roganti, ut se in Asiam praefectum duceret: Quid tibi vis, inquit, insane? Tanta malorum est multitudo civium, ut tibi ego hoc confirmem, si Romae manseris, te paucis annis ad maximas pecunias esse venturum ».

21. Cardinale di Pavia. Si tratta assai probabilmente di Francesco Alidosi, discendente dei Signori di Imola, il quale nel 1504 era stato eletto da Giulio II vescovo di Mileto, indi vescovo di Pavia, e l'anno seguente innalzato all'onor della porpora. Nel 1507 papa Giulio, di cui era il favorito, gli affidava la legazione nel Patrimonio e l'anno successivo quella di Romagna e nel 1510 lo eleggeva arcivescovo di Bologna. In questi suoi ufficî egli si mostrò violento, tirannico, persecutore accanito e sanguinario specialmente dei Bolognesi fautori dei Bentivogli; tanto che nel 1511 i Bolognesi si sollevarono contro di lui e lo costrinsero a fuggire. E appunto della odiosità che s' era accumulata sul capo del cardinale, è un' eco in questo e in un altro (cap. LXXVIII del lib. II) passo del nostro libro, dove par quasi di scorgere nell'A. l'intenzione di giustificare con le sue parole l'uccisione dell' Alidosi commessa nel maggio del 1511 dal duca Francesco Maria, suo signore. Del resto un altro cardinale, amico, è vero, del C. e del duca d' Urbino, il Bembo, dà questo giudizio dell'Alidosi: « turpis et flagitiosae vitae vir, cui nulla fides, nulla religio, nibil tutum, nihil pudicum, nihil unquam sanctum fuit» (Histor. veneta, lib. x, p. 461). Recentemente il Müntz volle provare, e mi

sembra con forti ragioni, che quel celebre quadro di Raffaello esistente nel Museo di Madrid, nel quale parecchi vedevano il ritratto del cardinale Bibbiena, anzi l'originale di quello posseduto dalla Galleria Pitti, raffigura invece al vivo l'imagine del famigerato Cardinale di Pavia (Vedasi l'Archivio stor. dell'arte, A. IV 1891, pp. 328-32).

22. Al loco ecc. Al luogo dove si giustiziavano i condannati a morte; forse le Salse di cui parlano i commentatori di Dante (Inf. XVIII, 51)?

LXXIII. 1. E questa sorte ecc. Tratto da Cicerone (de orat. II, 67): «....... uti ferunt, qui melius haec norunt, Socratem opinor in hac ironia dissimulantiaque longe lepore et humanitate omnibus praestitisse. Genus est perelegans et cum gravitate salsum, quumque oratoriis dictionibus tum urbanis sermonibus accomodatum ». Cfr. il Brutus, capp. LXXXV e LXXXVII. Anche il nostro A. sapeva adoperare efficacemente l'ironia, e, per citare un esempio, riboccante d'amara ironia è una lettera, o meglio un poscritto di lettera (Lett. di negozi, vol. II, lib. vi p. 112) da lui indirizzata da Granata, nel 1526, all'Arcivescovo di Capua, dove si parla di Roberto Acciajuoli, Nunzio del pontefice in Francia, il quale pretendeva dargli lezione di diplo mazia e indurlo a passi dannosi e ridicoli.

6. Alfonso. Alfonso I d'Aragona, detto il Magnanimo, re di Napoli dal 1442 al 1450. Liberale, protettore dei letterati, fu celebrato dai nostri umanisti, i quali nelle loro biografie citano numerosi esempi della liberalità, della umanità e gentilezza sua, nonché del suo umore faceto (V. Bartholomei Facii de rebus gestis ab Alphonso primo Neapolitanor Rege, Commentariorum Libri

il quale essendo una mattina per mangiare, levossi molte preziose anella che nelli diti avea per non bagnarle nello lavar delle mani, e cosí le diede a quello che prima gli occorse, quasi senza mirar 10 chi fosse. Quel servitore pensò che 'l re non avesse posto cura a

cui date l'avesse, e che, per i pensieri di maggior importanzia, facil cosa fosse che in tutto se lo scordasse: ed in questo più si confermò, vedendo che 'l re piú non le ridomandava; e stando giorni e settimane e mesi senza sentirne mai parola, si pensò di certo esser si15 curo. E cosí essendo vicino all'anno che questo gli era occorso un' altra mattina, pur quando il re voleva mangiare, si rappresentò, e porse la mano per pigliar le anella; allora il re, accostatosegl all'orecchio, gli disse; Bastinti le prime, ché queste saran bone per un altro. Vedete come il motto è salso, ingenioso e grave, 20 e degno veramente della magnanimità d'uno Alessandro.

LXXIV. Simile a questa maniera che tende all'ironico è ancora un altro modo, quando con oneste parole si nomina una cosa viziosa. Come disse il Gran Capitano ad un suo gentilomo, il quale dopo la giornata della Cirignola, e quando le cose già erano in securo, gli 5 venne incontro armato riccamente quanto dir si possa, come apparecchiato di combattere; ed allor il Gran Capitano, rivolto a don Ugo di Cardona, disse: Non abbiate ormai più paura di tormento

X, la cui prima edizione usci tardi, nel 1560, in Lione; il De dictis et factis Alphonsi Regis ecc. del Panormita; il Commentario della vita del Sereniss. Re Alfonso di Vespasiano da Bisticci pubbl. con documenti e note dal Del Furia nell'Arch. stor. ital. S. I, vol. IV, 1843, pp. 383-427). E proprio nel 1509 vedeva la luce un opuscolo, ora assai raro, intitolato Margarita Facetiarum e dove, accanto agli Alfonsi Aragonum Regis vafre dicta, si leggono i Proverbia dell' urbinate Polidoro Virgilio, dedicati al duca Guidobaldo. Anche il Pontano nel de Sermone narra parecchi aned. doti e argute risposte del re Alfonso (lib. IV). Si vedano poi le pagine che a lui consacra il Voigt (Op. ed. cit. vol. I, pp. 458-61), il quale scrisse che « il re Alfonso d'Aragona a buon diritto è dagli Umanisti esaltato come il tipo ideale di un principe mecenate, e come tale fu proclamato non solo dalla turba de' prezzolati suoi adoratori, ma anche da' suoi sinceri e schietti ammiratori ».

LXXIV. 1. Simile a questa ecc. Cosi Cicerone (de orat. II, 67): « Est huic finitimum dissimulationi, quum honesto verbo vitiosa res appellatur ».

3. La giornata della Cirignola. È la famosa battaglia combattuta nelle Puglie il 28 aprile 1503; nella quale il gran Capitano

diede una fiera sconfitta ai Francesi comandati da Luigi d'Armagnac, duca di Ne. mours, che vi perí insieme con quattromila dei suoi.

6. Don Ugo di Cardona. Era un capitano spagnuolo che militava sotto le bandiere di Consalvo di Cordova, e che nella battaglia di Seminara, nelle Puglie (21 aprile 1503), comandava insieme con Manuel Benavides, le milizie spagnole. Nel 1525, alla battaglia di Pavia, dove combatté in qualità di luogotenente addetto alla banda del Marchese del Vasto, rimase ucciso di mano di re Francesco I di Francia (V. P. Giovio, La vita di Don Ferrando Davalo Marchese di Pescara, tradotta per m. Lodovico Domenichi, in Fiorenza, Torrentino, 1556, p. 235). Dovette essere parente di quel Ioanni di Cardona che s'è incontrato nel cap. LXXII, 16, di questo libro, e parente di quel Raimondo II Cardona, generale spagnolo, che nel 1509 venne nominato Vicerè di Napoli da Ferdinando il Cattolico, e fu competitore di Gaston de Foix alla battaglia di Ravenna. Si noti che nella redazione primitiva del Cod. laurenz. si legge, invece di Cardona, Mendoza.

7. Tormento, per tempesta, burrasca di mare, è oggi fuori d' uso; è adoperato, ma nella forma femminile (tormenta), per denotare la tempesta o turbine di montagna.

di mare, ché Santo Ermo è comparito; e con quella onesta parola lo punse, perché sapete che Santo Ermo sempre ai marinari appar dopo la tempesta, e dà segno di tranquillità; e cosí volse dire il 10 Gran Capitano, che essendo comparito questo gentilomo, era segno che il pericolo già era in tutto passato. Essendo ancor il signor Ottaviano Ubaldino a Fiorenza in compagnia d'alcuni cittadini di molta autorità, e ragionando di soldati, un di quegli addimandò se conosceva Antonello da Forli, il qual allor si era fuggito dal stato 15

8. Santo Ermo. È una delle forme volgari (S. Elmo. S. Eramo ecc.) con cui viene designato nel territorio neo-latino, ma specialmente in Italia, in Ispagna e nel Portogallo, S. Erasmo, che circa il 304, pati il martirio a Formies. Questo santo era vescovo al tempo degli imperatori Domiziano e Massimiliano, ma ben poco si sa della sua vita. Si pretende che il suo corpo sia sepolto a Gaeta. Esso è invocato dai marinai del Mediterraneo contro le tempeste e gli altri pericoli del mare, e perciò appunto furono designati col suo nome quei fuochi elettrici che, in forma di pinnette brillanti, compariscono nelle notti burrascose sulle punte degli alberi e dei pennoni e lungo i cordami delle navi. È noto peraltro come questo fenomeno non apparisca soltanto sul mare.

11. Comparito. Più in uso è la forma comparso, che si legge nella redazione del codice laurenz., dove ricorre anche più oltre.

12. Il Signor Ottaviano Ubaldino. Di costui non poté far parola il suo discendente, Giovambattista di Lorenzo Ubaldini nel libro primo, ed unico pubblicato, della sua Istoria della famiglia degli Ubaldini, (Firenze, Sermartelli, 1588), opera di cui prometteva altri quattro libri, dove avrebbe trattato delle « innestature della famiglia da Montefeltro e della Rovere con quella degli Ubaldini » (p. 134). Ottaviano infatti era figlio di Bernardino, signore della Carda e di Laura, figlia naturale di Guidobaldo, e sorella di Federico; era quindi nipote di Federigo stesso, ma quasi eguale in età. Morto Bernardino, egli fu educato con Federico alla corte dell' avolo Guidantonio. Al valore personale, all' abilità negli affari pubblici accoppiava una grande ambizione e una non minore simulazione; coltivava con ardore le arti magiche, tanto che si attribuí a lui l'impotenza di Guidobaldo, del quale era stato nominato tutore da Federico, in punto di morte (Ugolini, Storia dei conti e duchi di Urbino, ed. cit. II. 43-4). Il famoso Luca Pacioli nella Epistola dedicatoria alla sua Summa de Arithmetica Geometria ecc. (Venezia, 1494) « allo Ill.mo

Principe Guidobaldo Duca de Urbino » notando l'importanza dell' opera sua anche per gli studiosi dell' astrologia, soggiungeva: « De la quale (strologia) el principe oggi fra mortali è il S. Octaviano vostro barba insiemi con il Rever. Vescovo forosemproniense misser Paulo de Midelborgo »> (c. 2r)

15. Antonello da Forlí. Era uno di quei mediocri capitani di ventura che pullularono nel sec. XV, ed è assai probabile che fosse suo figlio quel Brunoro, capitano di milizie, al quale sono indirizzati due brevi di Leone X, l'uno del 1513, l'altro del 1514 (Brunoro Antonelli de Forolivio armorum ductori; e Brunorio nato quondam Antonelli de Forolivio nei Regesta Leonis X, fascicolo III, n. 4662 e 84591). Lo stesso aneddoto è raccontato in modo piú argutamente efficace dal Pontano nella cit. operetta de Sermone (Lib. IV): « Nobis adulescentulis, cum Italiae res maxime florerent, vigeretque rei bellicae honos Italicos apud duces multique ob strenuitatem ac rei militaris disciplinam haberentur in pretio: in iisque Antonellus esset Foroliviensis, qui tamen mercenariam exerceret militiam, singulisque pene annis conductorem mutaret, atque ante finitum prius stipendium ad alium transiret conductorem: commendareturque in senatu Florentinorum, quod sagax admodum esset, impiger, manu promptus, perquam laboriosus: tum Cosmus [de' Medici]: et quod maximum in eo est, subdidit, etiam antelucanus ». E il Pontano soggiunge: «Hoc dictum ab arte totum profectum est, atque a transfugiorum illius observatione. Peperit autem risum, quia tanquam obliquo e loco atque ex insidiis repente proruperit». Alla quale narrazione corrisponde, ma con qualche variante, quella contenuta nelle Facezie del Domenichi (p. 263): « Per la guerra del Signor Gismondo [Malatesta ] un Antonello da Forli, buon condottiero, si fuggi colle paghe da detto Signore, onde essendo in casa di Cosmo de' Medici il S. Astore [Manfredi?, entrarono in ragionamento di detto Antoniello. Dove il Sig. Astore lo lodava molto, dicendo spesso che era uomo cosí

di Fiorenza. Rispose il signor Ottaviano: Io non lo conosco altrimenti, ma sempre l'ho sentito ricordare per un sollecito soldato; disse allor un altro Fiorentino: Vedete come egli è sollecito, che si parte prima che domandi licenzia.

LXXV. Arguti motti sono ancor quelli, quando del parlar proprio del compagno l'omo cava quello che esso non vorria; e di tal modo intendo che rispose il signor duca nostro a quel castellano che perdé San Leo, quando questo stato fu tolto da papa Alessan5 dro e dato al duca Valentino; e fu, che essendo il signor duca in Venezia in quel tempo ch' io ho detto, venivano di continuo molti de' suoi sudditi a dargli secretamente notizia come passavan le cose del stato, e fra gli altri vennevi ancor questo castellano; il quale dopo l'aversi escusato il meglio che seppe, dando la colpa alla sua 10 disgrazia, disse: Signor, non dubitate, ché ancor mi basta l'animo di far di modo, che si potrà recuperar San Leo. Allor rispose il signor Duca: Non ti affaticar piú in questo; chẻ già il perderlo è stato un far di modo, che 'l si possa recuperare. Son alcun' altri detti quando un omo, conosciuto per ingenioso, dice una cosa che par

sollecito; e ripetendo pure questa sua sollecitudine, disse Cosmo: Non dite piú Signore, circa questo, egli ha mostrato ora per isperienza esser sollecito, essendosi fuggito innanzi il tempo ».

LXXV. 1. Arguti motti ecc. E Cicerone (de orat. II, 67): « Acutum etiam illud est, quum ex alterius oratione aliud excipias atque ille vult ».

2. Di tal modo ecc. L' aneddoto, pur avendo fondamento storico, è foggiato, non a caso, su quello narrato in séguito al passo citato di Cicerone: « Ut Salinatori Maximus, quum, Tarento amisso, arce tamen Livius retinuisset multaque ex ea praelia praeclara fecisset, quum aliquot post annos Maximus id oppidum recepisset rogaretque eum Salinator, ut meminisset opera sua se Tarentum recepisse: Quidni, inquit, meminerim? Nunquam enim recepissem, nisi tu perdidisses ». Non a caso ho detto l'aneddoto foggiato su quello di Cicerone, tanto è vero che l'A. dapprima non aveva fatto altro che tradurlo alla lettera serbando i nomi dei personaggi antichi come apparisce dalla redazione di mano del copista nel cod. laurenziano. Si confronti il detto di Fabio Massimo in Tito Livio (Histor. XXVII, 25) ricordato anche dal Nifo (de re aulica nel cap. LXIII, dove tratta delle facezie ex verbis aliter exceptis vel a clausularum oppositione).

4. S. Leo, castello presso Urbino, posto sopra una roccia quasi inaccessibile, come parve anche all'Alighieri (Purg. Iv, 23). Era l'antico nido dell'Aquila di Montefeltro;

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ed è ricordato dallo stesso Machiavelli, nel principio del lib. vi dell'Arte della guerra, fra le terre e rocche « forti per natura ». Perciò quando nella primavera del 1502 il Valentino si scoperse nemico al duca Guidobaldo, questi, comprendendo di non poter difendersi in Urbino, si ritirò subito in S. Leo; donde poscia, non essendo sicuro, fuggi travestito da villano e solo più tardi il castello si arrendeva, ma lo stesso anno veniva riacquistato con un colpo di mano dai feltreschi. Nella primavera del 1503 il commissario del Borgia, Pier Remires, faceva uno sforzo disperato per riprendere S. Leo, dove era entrato Ottaviano Fregoso ed era castellano (il castellano cui certo allude l'A.) un ser Lattanzio da Bergamo, che, per quanto opponesse gagliarda resistenza, confidando nel ritorno di Guidobaldo da Venezia con gli aiuti sperati, dopo sei mesi di assedio era costretto a capitolare. Tuttavia di li a poco, nell'agosto del 1503, morto papa Alessandro, il duca Guidobaldo con gli aiuti dei Veneziani, ricuperava il forte castello (Cfr. Alvisi, Op. cit., pp. 283-8, 323, 378-81, 408).

13. Son alcun' altri ecc. Tratto da Cicerone (de orat. II, 68): « Genus hoc levius et, ut dixi, mimicum; sed habet nonnum. quam aliquid etiam apud nos loci, ut vel non stultus quasi stulte cum sale dicat aliquid ».

14. Ingenioso. Forma latineggiante sostituita dall'A. all'altra ingegnoso della redazione primitiva.

che proceda da sciocchezza. Come l'altro giorno disse messer Camillo 15 Palleotto d'uno: Questo pazzo, subito che ha cominciato ad arricchire, si è morto. È simile a questo modo una certa dissimulazion salsa ed acuta, quando un omo, come ho detto, prudente, mostra non intender quello che intende. Come disse il marchese Federico di Mantua, il quale, essendo stimolato da un fastidioso, che si lamentava che 20 alcuni suoi vicini con lacci gli pigliavano i colombi della sua colombara, e tuttavia in mano ne tenea uno impiccato per un piè insieme col laccio, che cosí morto trovato l'aveva, gli rispose che si provederia. Il fastidioso non solamente una volta ma molte replicando questo suo danno, col mostrar sempre il colombo cosí impiccato, dicea pur: 25 E che vi par, Signor, che far si debba di questa cosa? — Il marchese in ultimo, A me par, disse, che per niente quel colombo non sia sepelito in chiesa, perché essendosi impiccato da sé stesso, è da credere che fosse disperato. Quasi di tal modo fu quel di Scipione Nasica ad Ennio; che essendo andato Scipione a casa d'Ennio per 30 parlargli, e chiamandol giú dalla strada, una sua fante gli rispose che egli non era in casa: e Scipione udí manifestamente, che Ennio proprio avea detto alla fante che dicesse ch'egli non era in casa: cosí si partí. Non molto appresso venne Ennio a casa di Scipione, e pur medesimamente lo chiamava stando da basso; a cui Scipione ad 35 alta voce esso medesimo rispose, che non era in casa. Allora Ennio,

16. Palleotto. È il Paleotti del quale s'è detto nella nota al Cap. LXII, 26, di questo stesso libro. Curioso vedere nella redazione primitiva di mano del copista questo motto attribuito, invece che al Paleotti a « Vincentio Quirino », quel giovane patrizio veneziano, amico del Bembo e assai probabilmente anche del C., il quale qualche anno più tardi si fece frate dell'ordine dei Camaldolesi e alla corte di Leone X prese parte attiva ai maneggi politici di quel papa con la Repubblica di Venezia (V. Cicogna, Inscriz. venez., t. V, pp. 63 sgg. e il mio studio intorno ad Un' ambasceria di Pietro Bembo (1514) nell'Arch. Veneto, S. II, t. XXX. P. II, pp. 7 sgg. dell'Estr.).

17. È simile ecc. E Cicerone (de orat. II, 68): « Valde haec ridentur et hercule omnia, quae a prudentibus quasi per dissimulationem non intelligendi subabsurde saiseque dicuntur. Ex quo genere est etiam non videri intelligere quod intelligas ». Ma nella redazione primitiva si legge, prima di queste parole, un altro motto, omesso più tardi dall'A.: «Et essendo questo anno posto in pregione un famoso et acuto Advocato concistoriale a Roma, disse messer Antonio Agnello (v. nota al capitolo XLVIII, 12, di questo libro): lodato sia Dio che costui non parlerà sempre per altri: e potrà pur una volta dire il fatto suo ».

19. Come disse. Nella redazione primitiva del cod. laurenz. l'A. aveva continuato narrando un aneddoto molto grasso, che si finge sia stato riferito dal Bembo, ma che in fondo non è se non una trasformazione del ciceroniano (ibid.): « .... ut Pontidius: Qualem existimas, qui in adulterio deprehenditur? - Tardum! ». L'aneddoto fu da me pubblicato nel citato studio sulla edizione spurgata del Cortegiano, p. 49 dell' Estr.

21. Colombara. Per colombaia, è forma lombardeggiante simile a capigliara (cap. XXVII, 38 di questo libro).

29. Quel. Cioè motto, detto. L'esempio è tradotto da Cicerone (de orat. II, 68): «ut illud Nasicae, qui quum ad poetam Ennium venisset eique ab ostio quaerenti Ennium ancilla dixisset domi non esse, Nasica sensit illam domini iussu dixisse et illum intus esse. Paucis post diebus quum ad Nasicam venisset Ennius et eum a ianua quaereret, exclamat Nasica se domi non esse. Tum Ennius: Quid, ego non cognosco, inquit, vocem tuam? Hic Nasica: Homo es imprudens. Ego quum te quaererem, ancillae tuae credidi te domi non esse, tu mihi non credis ipsi?».

35. Ad alta ecc. Nella redazione primitiva del cod. laurenz. era stata omessa la ad, alla latina.

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