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nobil città d'Italia, fu ricevuto: di modo che, oltre al papa, tutti i signor cardinali ed altri cortegiani restarono sommamente satisfatti; e furono alcuni, i quali, tratti dalla dolcezza di questa compagnia, partendo il papa e la corte, restarono per molti giorni ad Urbino; nel qual tempo non solamente si continuava nell'usato stile delle 10 feste e piaceri ordinarii, ma ognuno si sforzava d'accrescere qualche cosa, e massimamente nei giochi, ai quali quasi ogni sera s'attendeva. E l'ordine d'essi era tale, che, subito giunti alla presenzia della signora Duchessa, ognuno si ponea a sedere a piacer suo, o come la sorte portava, in cerchio; ed erano sedendo divisi un omo ed una 15 donna, fin che donne v'erano, ché quasi sempre il numero degli omini era molto maggiore; poi, come alla signora Duchessa pareva, si governavano, la quale per lo più delle volte ne lasciava il carico alla signora Emilia. Cosí il giorno apresso la partita del papa, essendo all'ora usata ridutta la compagnia al solito loco, dopo molti piace- 20 voli ragionamenti la signora Duchessa volse pur che la signora Emilia cominciasse i giochi; ed essa, dopo l'aver alquanto rifiutato tal'impresa, cosí disse: Signora mia, poiché pur a voi piace ch'io sia quella che dia principio ai giochi di questa sera, non possendo ragionevolmente mancar d'obedirvi, delibero proporre un gioco, del qual penso 25 dover aver poco biasimo e men fatica: e questo sarà, che ognun proponga secondo il parer suo un gioco non più fatto; da poi si eleggerà quello che parerà esser più degno di celebrarsi in questa compagnia. E cosí dicendo, si rivolse al signor Gaspar Pallavicino, imponendogli che 'l suo dicesse; il qual subito rispose: A voi 30 tocca, signora, dir prima il vostro. Disse la signora Emilia: Eccovi ch'io l'ho detto, ma voi, signora Duchessa, comandategli ch'e' sia obediente. Allor la signora Duchessa ridendo, Acciò, disse, che ognuno v'abbia ad obedire, vi faccio mia locotenente, e vi do tutta la mia autorità.

VII. Gran cosa è pur, rispose il signor Gaspår, che sempre alle donne sia licito aver questa esenzione di fatiche, e certo ragion saria volerne in ogni modo intender la cagione; ma per non essere io

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11. Accrescere qualche cosa. Nel significato poco frequente di aggiungere. I vocabolarî citano un esempio tratto dalle rime del Menzini: «Io cedo ed esco Di questo arringo; e la tropp' alta inchiesta lascio, ed altre parole io non vi accresco ». Dove abbiamo quasi l'appulcrare dantesco con una sfumatura di significato che s' adatterebbe al passo del C.

13. E l'ordine d'essi era tale ecc. Cosí nella brigata del Decameron: «e quivi, sentendo un soave venticello venire, siccome volle la lor Reina, tutti sopra la verde erba si puosero in cerchio a sedere». Nel

citato volume di Studi e documenti si vedrà come il C., in una redazione primitiva, si tenesse più stretto al modello del Boccaccio, fingendo che ogni sera si creasse « un novo Re o regina, il quale nel dipartirsi renunziava il domino a chi più gli pia

ceva n.

18. Per lo più delle volte. Più comune « il più delle volte » o « per lo più » e, nel Boccaccio, più semplicemente ancora « le più volte ».

28. Celebrarsi. Essere fatto: insolito detto d'un gioco non pubblico, né solenne.

quello che dia principio a disubedire, lascierò questo ad un altro 5 tempo, e dirò quello che mi tocca; e cominciò: A me pare, che gli animi nostri, sí come nel resto, cosí ancor nell' amare siano di giudicio diversi: e perciò spesso interviene, che quello che all' und è gratissimo, all'altro sia odiosissimo; ma con tutto questo, sempre però si concordano in aver ciascuno carissima la cosa amata; tal10 mente che spesso la troppo affezion degli amanti di modo inganna il lor giudicio, che estiman quella persona che amano esser sola al mondo ornata d'ogni eccellente virtú, e senza diffetto alcuno; ma perché la natura umana non ammette queste cosí compite perfezioni, né si trova persona a cui qualche cosa non manchi, non si può dire 15 che questi tali non s'ingannino, e che lo amante non divenga cieco circa la cosa amata. Vorrei adunque che questa sera il gioco nostro fosse, che ciascuno dicesse, di che virtú precipuamente vorrebbe che fosse ornata quella persona ch'egli ama; e, poiché cosí è necessario che tutti abbiano qualche macchia, qual vizio ancor vorrebbe che in 20 essa fosse: per veder chi saprà ritrovar più lodevoli ed utili virtú, e più escusabili vizii, e meno a chi ama nocivi ed a chi è amato. Avendo cosí detto il signor Gaspar, fece segno la signora Emilia a madonna Costanza Fregosa, per esser in ordine vicina, che seguitasse, la qual già s' apparecchiava a dire; ma la signora Duchessa subito 25 disse: Poiché madonna Emilia non vuole affaticarsi in trovar gioco alcuno, sarebbe pur ragione che l'altre donne partecipassino di que sta commodità, ed esse ancor fossino esenti di tal fatica per questa sera, essendoci massimamente tanti omini, che non è pericolo che manchin giochi. Cosi faremo, rispose la signora Emilia; ed 30 imponendo silenzio a madonna Costanza, si volse a messer Cesare Gonzaga che le sedeva a canto, e gli comandò che parlasse: ed esso cosí cominciò:

VIII. Chi vuol con diligenzia considerar tutte le nostre azioni, trova sempre in esse varii difetti; e ciò procede perché la natura, cosí in questo come nell'altre cose varia, ad uno ha dato lume di ragione in una cosa, ad un altro in un'altra: però interviene, che sapendo 5 l'un quello che l'altro non sa, ed essendo ignorante di quello che l'altro intende, ciascun conosce facilmente l'error del compagno e

VII. 6. Siano di giudicio diversi, giudichino diversamente.

есс.

11. Che estiman quella persona Sentimento comunissimo appunto perché vero e che riscontrasi nei poeti di tutti i tempi e di tutti i paesi. Ma forse mai esso trovò un' espressione cosí perfetta e profonda come nel verso petrarchesco « Colei che sola a me par donna », verso che al Bartoli (Storia d. lett. ital. VII, 235-6) parve ben a ragione contenere « in sé tutto un poema d'amore ».

19. Macchia. In significato prossimo all'etimologico (macula), cioè di piccolo, lieve difetto. Orazio cosí esprimeva (Satir. I. III. 68-9) questo concetto volgare: «Nam vitiis nemo sine nascitur; optimus ille est, Qui minimis urgetur ».

23. In ordine ecc. Cioè, secondo l'ordine dei posti scelti o assegnati alla compagnia, Madonna Costanza sedeva fra il Pallavicino e il Gonzaga.

VII. 6. Ciascun conosco ecc. Vecchia sentenza che troviamo espressa in forme

non il suo, ed a tutti ci par esser molto savii, e forse più in quello in che più siamo pazzi; per la qual cosa abbiam veduto in questa casa esser occorso, che molti i quali al principio sono stati reputati savissimi, con processo di tempo si sono conosciuti pazzissimi: il che 10 d'altro non è proceduto, che dalla nostra diligenzia. Ché, come si dice che in Puglia circa gli atarantati s'adoprano molti instrumenti di musica, e con varii suoni si va investigando, fin che quello umore che fa la infirmità, per una certa convenienzia ch'egli ha con alcuno di quei suoni, sentendolo, subito si move, e tanto agita lo infermo, 15 che per quella agitazion si riduce a sanità: cosí noi, quando abbiamo sentito qualche nascosa virtú di pazzia, tanto sottilmente e con tante

svariatissime nei proverbi di tutti i popoli. Anche l'arguto Orazio, ben noto al nostro A., scriveva: « Stultus et improbus hic amor est dignusque notari, Cum tua pervideas oculis mala lippus inunctis, Cur in amicorum vitiis tam cernis acutum, Quam aut aquila aut serpens Epidaurius ? » (Satir. I, III, 24-7). E Petronio: « In alio pediculum, in te ricinum non vides » (Sat. 57).

7. Ed a tutti ci par esser molto savii ecc. Anzi la moderna frenologia ha sperimentato che negli stessi manicomî il pazzo, come la maggior parte degli uomini, si crede savio, ma ammette benissimo che gli altri rinchiusi sieno pazzi.

ragno

11. Come si dice che in Puglia ecc. Ma non in Puglia soltanto si credeva e si crede tuttora nella efficacia del ballo e della musica per curare gli atarantati o tarantolati, cioè i morsicati dalla tarantola della specie detta lycosa tarantula, o tarantula Apuliae, che derivò il suo nome da Taranto e lo diede al noto ballo detto tarantella. A questo fatto alludeva già Senofonte nei Detti memorabili di Socrate (lib. I, cap. III), dove Socrate rassomiglia gli effetti del bacio dato a una bella persona, a quelli delle tarantole (paλáɣria), le quali, solo che si appressino alla bocca, straziano gli uomini con dolori e li fanno uscire di senno e consiglia a Senofonte, per guarirne, di viaggiare per tutto un anno, « e forse appena in tanto tempo potrai di questo morso risanare ». Qui di musica non si fa parola, ma è noto quanto fosse diffusa nell' antichità la credenza nelle virtú miracolose della musica, come si legge anche nel Toscanello in musica di messer Pietro Aron fiorentino (In fine: In Vinegia per maestro Bernardino et maestro De Vitali venitiani al di v Juli mille CinquecentoXXIX), dove è detto: «Che sia giovevole (la musica) e salutifera a l'infermità corporali, queste memorie in fra le altre ne abbiamo: Xenocrate con l'organica modulazione liberava i spiritati,

Asclepiade col canto de le trombe a sordissimi l'audito, con altra symphonia a frenetichi la mente restituiva ecc. ». (Cfr. C. Colomb, La musique, Paris, 1878, capp. XX, XXII). Nel dialogo Antonius il Pontano riferisce, in latino, un curioso carmen, che si cantava nella Puglia « ad sanandum rabidae canis morsum »; e ci offre un accenno, più notevole anche perché piú preciso, agli atarantati: «Etenim caeteros quidem homines cum nulli non stulti essent, vix stultitiae suae ullam satis honestam afferre causam posse; Apulos vero solos, paratissimam habere insaniae excusandae rationem Araneum illum scilicet, quem Tarantulam nominant, cuius ammorsu insaniant homines, idque esse quam felicissimum; quod ubi quis vellet, insaniae quem suae fructum cuperet, etiam honeste caperet ». Quando il C. scriveva, l' imagine degli atarantati era passata già nella poesia cortigiana, e forse egli ricordava un sonetto di Serafino Aquilano, il quale, in una adunanza di vaghe giovinette s'era rassomigliato, indefesso nel ballare, all' uomo morso dalla tarantola, che trova ristoro soltanto nel girare vertiginoso (Cfr. D'Ancona, Del secentismo nella poesia cortigiana del sec. XV, ed. cit. p. 208). E dei trafitti dalla taranta parla anche lo Speroni nel Dialogo della Rettorica (Opere, t. I, p. 209).

L'uso, accennato dal C., che è l'effetto d'un pregiudizio, sopravvive ancor oggi nelle Puglie (V. Gregorovius, Nelle Puglie, vers. di R. Mariano, Firenze, Barbèra, 1882, p. 448) e in Terra d'Otranto, e nella Sardegna, dove esistono delle canzonette speciali pro s' arza (V. nell'Archivio p. le tradiz. popol. del Pitrè, vol. IV, p. 284, vol. VII, pp. 344-9 e La Marmora Voyage en Sardaigne, 2° ed. Torino, 1839, vol. I, pp. 178-9 e 189). Ma su questo punto interessante di folklore, che, come s'è visto, ha tante attinenze con la letteratura nostra, ha annunciato un lavoro l'illustre dott. Pitrè nel suo Archivio citato.

varie persuasioni l'abbiamo stimulata e con sí diversi modi, che pur al fin inteso abbiamo dove tendeva; poi, conosciuto lo umore, cosí 20 ben l'abbiam agitato, che sempre s'è ridotto a perfezion di publica pazzia: e chi è riuscito pazzo in versi, chi in musica, chi in amore, chi in danzare, chi in far moresche, chi in cavalcare, chi in giocar di spada, ciascun secondo la miniera del suo metallo; onde poi, come sapete, si sono avuti maravigliosi piaceri. Tengo io adunque per certo: 25 che in ciascun di noi sia qualche seme di pazzia, il qual risvegliato, possa multiplicar quasi in infinito. Però vorrei che questa sera il gioco nostro fosse il disputar questa materia, e che ciascun dicesse: Avendo io ad impazzir publicamente, di che sorte di pazzia si crede ch'io impazzissi, e sopra che cosa, giudicando questo esito per le

22. Moresche. Sorta di ballo, spesso assai complicato e grandioso, che s'usava frequente nelle feste delle corti nostre dalla seconda metà del secolo xv al principio del xvi, e di solito serviva come intromessa o intermezzo fra un atto e l'altro delle commedie. I carteggi del 500 abbondano di lunghe e talvolta curiose descrizioni di questo ballo, di cui diede forse per prima l'esempio la Corte Aragonese in Napoli. Ma per averne un' idea esatta basterà riferire un passo di quella celebre lettera a Lodovico da Canossa, in cui il nostro C. descrisse la prima rappresentazione della Calandria datasi in Urbino, il 6 febbraio 1513: «La prima (intromessa) fu una Moresca di Jason, il quale comparse nella scena da un capo ballando, armato all'antica, bello, con la spada e una targa bellissima; dall'altro furon visti in un tratto due tori tanto simili al vero, che alcuni pensarono fosser veri, che gittavano fuoco dalla bocca ecc. A questi si accostò il buon Jason, e feceli arare, posto loro il giogo e l'aratro e poi seminò i denti del dracone: e nacquero appoco del palco uomini armati all'antica, tanto bene, quanto credo io che si possa; e questi ballarono una fiera moresca, per ammazzar Jason, e poi quando furono all' entrare, s'ammazzarono ad uno ad uno, ma non si vedeano morire. Dietro ad essi n'entrò Jason, e subito usci col vello d'Oro alle spalle, ballando eccellentissimamente; e questo era il Moro...» (Lettere, ed. Serassi, vol. I, p. 158).

23. Secondo la miniera. Cioè secondo l'originaria e particolare qualità ed attitudine del proprio ingegno.

24. Tengo io adunque ecc. È noto che intorno ai varî nomi e ad alcune forme della umana e generale pazzia discorre argutamente Orazio nella Sat. 3 del Lib. I. L'idea qui accennata dal Gonzaga circa le universali e svariatissime manifestazioni della

pazzia innata in tutti gli uomini, oltre all'essere diffusa anche fra il popolo, è in fondo la tesi sostenuta con mirabile potenza di satira e di umorismo da Erasmo, in quell'Elogio della pazzia, che fu tanto letto anche in Italia sin dal principio del 500 e che il C. doveva certo conoscere. Anche il Bandello, nella lettera dedicatoria della Nov. 54. P. I, parla di questa vita umana, « che, come si dice, è una gabbia di pazzi Ed alcuni anni dopo la pubblicazione del Cortegiano quel bell' umore di Antonfrancesco Doni assegnava un posto nella sua Seconda libraria (ed. Venezia, 1558, c. 180) ad un certo Agostino Nolese scrivendo: « Costui mi diceva qualmente tutta la sua genia gli diceva tutto il giorno pazzo, pazzo, pazzo, e che non poteva far cosa che non lo tassassino (ancorché savio) per pazzo. Onde egli fece una Comedia, e la intitolò il Pazzo e facendola recitare dimostrò come un pazzo governava molte savie cose, e che ogni savio teneva più del pazzo che del savio. Et in verità (conclude il Doni che noi siamo una gabbiata di pazzi ». In sulla fine del sec. XVI ebbe grande diffusione quel bizzarro libro di Tommaso Gar zoni che è L'Hospidale de' pazzi incurabili.... con tre Capitoli infine sopra la pazzia (Piacenza, 1586); e in quel secolo e nel seguente correvano per le mani popolo opuscoletti come il Trionfo della Pazzia recitato in Siena nelle feste di Carnevale (s. a.), che sono stanze recitate da due villani; e come L'impazzita Pacesca Pazzia dell' Impazzito Pazzo Impazzito con altre canzonette ridiculose (In Milano, per Ioseppo Solaro, al segno del Giesú, s. a. ma del sec. XVII, di 4 carte).

del

29. Questo esito. Questo scoppio finale di pubblica pazzia », o questo incendio finale, per continuare l'imagine delle «scintille ».

scintille di pazzia che ogni dí si veggono di me uscire: il medesimo 20 si dica di tutti gli altri, servando l'ordine de' nostri giochi, ed ognuno cerchi di fondar la opinion sua sopra qualche vero segno ed argomento. E cosí di questo nostro gioco ritrarremo frutto ciascun di noi di conoscere i nostri difetti, onde meglio ce ne potrem guardare ; e se la vena di pazzia che scopriremo sarà tanto abbondante che ci 35 paja senza rimedio, l'ajuteremo, e, secondo la dottrina di fra Mariano, averemo guadagnato un' anima, che non fia poco guadagno. Di questo gioco si rise molto, né alcun era che si potesse tener di parlare; chi diceva, Io impazzirei nel pensare; chi, Nel guardare; chi diceva, Io già son impazzito in amare; e tali cose.

IX. Allor Fra Serafino, a modo suo ridendo: Questo, disse, sarebbe troppo lungo; ma se volete un bel gioco, fate che ognuno dica il parer suo, onde è che le donne quasi tutte hanno in odio i ratti, ed aman le serpi; e vederete che niuno s'apporrà, se non io, che so questo secreto per una strana via.

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E già cominciava a dir sue 5

36. L'aiuteremo. Invece di cercar di soffocarla e contenerla, le daremo libero sfogo; ei daremo, cioè, allegramente in braccio alla pazzia. Fra Mariano. Questo frate domenicano della famiglia Fetti, era nato in Firenze l'anno 1460 e sin da principio si mise, prima in qualità di barbiere, al servigio di Lorenzo il Magnifico, serbandosi poi sempre fedele ai Medici. Sotto il pontificato di Giulio II, in Roma, ebbe privilegi e cominciò ad acquistarsi quella riputazione di capo di matti », che si affermò meglio e s'allargò sotto Leone X. Questo pontefice, memore dell'affezione e delle cure che a lui bambinello aveva dimostrato fra Mariano, gli fu liberale di beneficî e favori; e nel 1514 gli assegnò l'ufficio lucroso di piombatore delle bolle pontificie, ma servendosi delle sue pazzie e dei suoi capricci per rallegrare i suoi ozî e le feste e le mense vaticane. Il Fetti, se in realtà era u buffone che frate, aveva amore e intelletto per l'arte e gli artisti e componeva anche dei versi che forse andarono perduti. Durante il pontificato d'un altro Medici, Clemente VII, pare continuasse a godere fama e favore; dovette morire nel 1531. In una curiosa lettera del 9 giugno 1515 indirizzata al Magnifico Lorenzo de' Medici, ipote di papa Leone, Fra Mariano faceva an' applicazione della sua dottrina sulla virtú della pazzia, scrivendo al Medici, creato allora capitano generale della Repubblica fiorentina: «Io quando vi tochai immediate nato cosi tenerello in quel tochare vi detti la gratia delle pazie, che senza me non le haresti mai havute et seaza quelle non haresti mai havuto né

capitaneati, né militia, né fiato». Per maggiori notizie intorno a questo prototipo dei buffoni del 500, si vedano Graf (in Attraverso il Cinquecento, Torino, 1888, pp. 36994), Cian (nella Cultura del 1891, n. 20), Rossi (Pasquinate di P. Aretino ecc. Palermo-Torino, 1891, pp. 85-94), e gli altri autori ivi citati.

IX. 1. Fra Serafino. Di quest' altro frate buffone si vedano alcune notizie nel Dizionarietto biografico. A modo suo. Cioè, in tal caso, sgangheratamente, buffonescamente, commentando con lazzi e smorfie le sue parole.

2. Un bel gioco. Certo, per fra Serafino la bellezza di questo gioco doveva consistere nel provocare maliziose interpretazioni di questo suo malizioso quesito. La paura, quasi istintiva, che le donne hanno dei topi, è divenuta come proverbiale fra il popolo; e in quella derivazione dell' invettiva boccaccesca che è il Corbaccino di ser Lodovico Bartoli, leggiamo anche questa accusa alla debolezza femminile:

E se veruna sentisse la sera,

Un topo andar per la casa danzando, O cader nulla per cotal maniera, O la finestra dal vento toccando, Et se vedesse alcuna cosa nera, Tutta si scuote, vêr l'uomo accostando. (Vedi Mazzoni nel Propugnatore, N. S. vol. I, P. II, 1888, p. 260). Quanto all'amore delle donne per le serpi, non come il nostro frate la pensava Prassinoe in quel dialogo cosí vivo delle Siracusane teocritee:

« ..... due cose | fin da piccina sempre m'han fatto di molta paura, | i cavalli e le serpi.. ..... (vers. di G. Mazzoni).

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