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sorelle di Mitridate mostrarono molto minor paura della morte, che Mitridate? e la moglie di Asdrubale, che Asdrubale? Non sapete che 35 Armonia, figliola di Jeron siracusano, volse morire nell' incendio

del Ponto nel 250 e morto verso il 190 a. Cr., la cui figura, tragicamente grandiosa, spicea di luce sinistra nella storia di Roma. Egli ebbe parecchie mogli e concubine, ma il C. accenna qui a Ipsicrate, che condivise eroicamente sino alla fine gli stenti e i pericoli del marito. Le sorelle di Mitridate sostennero la morte da parte del fratello, che, incalzato dai Romani, inviò da Comana, altima alle sue città, il fedele eunuco Bacchide con l'ordine di ucciderle insieme con le mogli, per sottrarle cosí agli oltraggi dei nemici. La piú larga narrazione del fatto, quella cui certo pensava l'A. quando scriveva queste parole, ci fu lasciata da Plutarco, nella vita di Lucullo: « Nyssa quoque (cosi traduce il noto umanista e poeta Leonardo Giustiniani) Mithridatis soror, tum capta fuit et meliori quippe sui fortuna. Nam reliquae regiae sorores ac mulieres, quarum saluti, quia in Pharnacia per otium observabantur, tutissime consultum esse apparebat, miserabiliter interiere, quibus Mithridates fugiens Bacchidem eunuchum tristem earum mortis nuntium misit. Erant inter caeteras duae ipsius regis sorores, Statira atque Roxana, quae annos fere quadraginta natae, vitae virginitatem decusque servarant. Duae praeterea eius uxores genere Ionicae, Verenica ex Chio, Monima vero Milesia. Huius celeberrimus erat in Graecia sermo, regi se in libidinem accersenti, spretis quindecim aureorum millibus, noluisse parere, donec uxorem sibi ascitam misso diademate eam reginam appellavit. Haec diuturnis lachrymis atque moeroribus tristem duxerat vitam, miseramque suam fortunam deluserat. Execrabatur moesta venustissimum pulchritudinis suae florem, qui superbum pro marito dominum, pro regia atque penatibus barbaram sibi custodiam ac prope carcerem comparasset, et relicta Graecia, ubi tot sibi splendidissima fortunae munera affluebant, pro speratis bonis inane quasi somnium suscepisset. Haec itaque Monima, cum adveniens in Pharnaciam Bacchides regiis mulieribus imperasset, ut quod cuique facillimum et gratum esset, id sibi genus mortis eligerent, avulsum a capite diadema cum collo circumligasset misera se suspendit. Et cum corporis gravitate laqueus ille confractus esset,

execrandum, inquit, diadema, neque in tam tristi mihi ministerio profuisti. Et cum super illud ab se deiectum inspuisset, Bacchidi continuo iugulandam sese commisit. Verenica vero veneni sibi paratum calicem

cum eius matre, quae veneni partem supplex orabat, partita est. Et cum ex illo utraque bibisset, debiliori profecto corpori, et mala aetate confecto, veneni virtus abunde suffecit: Verenica autem, quia minus quam ad extinguendum satis fuerat, hausisset, et viventem contorquebat virus incendio saeviens, a Bacchide celere suffocata interiit. Ferunt etiam virgines illas Mithridatis sorores hausisse venenum: Roxanam quidem iratam extremas fratri miserias fuisse imprecatam: Statiram vero nil crudele, nil ignobile loquutam, fratem summopere laudasse, quod ille in tanto suae vitae discrimine, haud sororum dignitate neglecta, liberas eas atque inviolatas occumbere maluisset. His rebus apud Romanos nuntiatis, Lucullus ingenti misericordia est affectus ». E qual cuore gentile, ancor oggi, a tanta distanza di tempi, non prova un senso di profonda pietà ?

35. La moglie di Asdrubale. Nel 146 a. Cr., cioè durante la terza guerra punica, avendo Scipione espugnato Cartagine, Asdrubale, generale cartaginese (di famiglia diversa da quella di Asdrubale-Barca), si ritirò coi disertori romani, con la moglie e i figli nel tempio di Esculapio, e poi andò a gettarsi ai piedi del vincitore. Questi lo mostrò ai disertori in quell'attitudine umiliante, ma quelli più coraggiosi di lui, appiccarono fuoco al tempio. La moglie sua, ornatasi di magnifiche vesti, imprecando contro il marito, uccise i due figliuoletti e si precipitò con essi e coi disertori romani tra le fiamme - o, « se flagrantis in medium urbis incendium duobus cum liberis ex arce praecipitavit », come si legge nell' Epitome Liviana del LI libro.

36. Armonía. Figlia di Gelone (non di Gerone) e nipote di Gerone II, re di Siracusa, sposò un Siracusano, Temistio, che, dopo la morte di Geronimo, nel 215, divenne uno dei generali della Repubblica. Ma ben tosto fu sbalzato coi suoi compagni da una rivoluzione popolare, nella quale egli lasciò la vita. I vincitori decretarono la morte di tutti i membri superstiti della famiglia di Gerone. « Sic tum extemplo praetores rogationem promulgarunt (acceptaque paene prius, quam promulgata est) ut omnes regiae stirpis interficerentur, missique a praetoribus Damara tam Hieronis, et Harmoniam Gelonis filias, conjuges Andronodori et Themistij, interfecerunt ». Cosi Tito Livio (lib. XXIV, cap. 24, 25), al quale il fatto suggeriva quest' aurea sen

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della patria sua? Allor il Frigio, Dove vada ostinazione, certo i disse, che talor si trovano alcune donne che mai non mutariano pr posito; come quella che non potendo più dir al marito forbeci, con l 10 mani glie ne facea segno.

XXIII. Rise il Magnifico Juliano, e disse: La ostinazione che tend a fine virtuoso si dee chiamar costanzia; come fu di quella Epicar libertina romana, che essendo consapevole d'una gran congiura contr di Nerone, fu di tanta costanzia, che, straziata con tutti i piú asper 5 tormenti che imaginar si possano, mai non palesò alcuno dei complic e nel medesimo periculo molti nobili cavalieri e senatori timidament accusarono fratelli, amici, e le più care ed intime persone che ave

tenza: «Haec natura multitudinis est: aut servit humiliter, aut superbe dominatur; libertatem, quae media est, nec spernere modice, nec habere sciunt ». Di Armonia, come pure della moglie di Asdrubale, parla Valerio Massimo, che le pone fra gli esempi di fortezza d'animo (Factorum dictorumque memorabilium, lib. III, cap. II, 8, 9).

37. Dove vada ecc.: dove sia, si trovi ; o meglio: ove si tratti di, quanto a ecc. Mi pare un idiotismo lombardo-veneto.

39. Come quella ecc. Si allude ad una novella, che doveva essere assai diffusa ai tempi del C., al quale difficilmente era ignota la variante che ce ne conservò Poggio fiorentino, nella LVIII delle sue Facezie intitolata di una donna ostinata a chiamar pidocchioso il marito. La riferisco per intero tradotta, perché è la migliore illustrazione al passo dal nostro A. « Si parlava un giorno della ostinazione delle donne, che è tanto grande, da far loro preferire la morte piuttosto che cedere: « Una donna dei nostri luoghi, disse uno, che era sempre contro al marito, e respingeva rimproverandolo ogni sua parola, ostinandosi in ciò che avea preso a dire, per essergli sempre al di sopra, ebbe un giorno con lui un grave alterco e lo chiamò pidocchioso; ed egli, perché ritrattasse la parola, la prese a legnate, a calci ed a pugni. E più gliene dava, più essa chiamavalo pidocchioso. Stancatosi finalmente l'uomo di bastonarla, per vincere l'ostinazione, la calò per una fune nel pozzo, minacciandola d' annegarla se non avesse cessato di dire quelle parole; e la femmina continuava, e anche coll'acqua alla gola, quella parola ripeteva. E l'uomo allora, perché non parlasse piú, la lasciò andar giú nel pozzo, tentando se il pericolo della morte l'avesse guarita dall'ostinazione. Ma essa che non potea più parlare, anche quando stava per soffocare, non potendo più con la voce, si esprimeva con le dita e alzate le mani al di sopra del capo, e congiungendo le unghie dei pollici, finché

poté, col gesto schiacciò i pidocchi all'uomo perché le donne sogliono colle unghie quelle dita schiacciare quegli animali (Facezie di Poggio fiorentino, 2a ed. Rom 1885, pp. 56-7). Pico Luri di Vassano (Li dovico Passarini) nei suoi Modi di dire pr verbiali, motti popolari italiani (Rom: 1875, pp. 520-1) scrive che la maniera pr verbiale forbici per dire di persona ostinat è presa « da una novella divulgatissima f le donne di Toscana, in cui si conta cl una moglie ostinata chiedeva un paio forbici al marito e seguitò a chiederle, be ché da lui aspramente battuta e gettata un pozzo. Da cui, non potendo parlare, valse delle mani, cavandole fuor dell' a qua, con le dita maggiori allargate a gui di forbici ». Che poi questa di forbici p accennare all'ostinazione invincibile d'u persona, fosse espressione viva nell'uso p polare toscano del sec. XVI, come fors'ane d'oggidí, è provato da un documento c trascelgo fra i molti, pel suo valore stori Nel dicembre del 1511, fra Francesco Gone scrivendo da Roma a Giulio de' Medici, narrava d' un battibecco avvenuto fra I renzo de' Medici e Madonna Alfonsina s madre, e aggiungeva che inutilmente e aveva tentato di conciliare i due e di durre Lorenzo a mostrare amore e re renza alla madre: « Predicai senza fruc perché mai si piegò et sempre forbici (V. Giorgetti, Lorenzo de' Medici ecc. Arch. stor. ital. S. IV, 1883, t. XI, p. 31 Questa volta però l'ostinato era un uor

XXIII. 2. Epicari, era propriamente libertina greca, e la congiura contro rone è quella del 65 d. C., ordita da Pis e nella quale fu implicato anche Sene d'un cui fratello, secondo Polieno, Epic sarebbe stata l'amante. E prima e d scoperta la congiura, essa si mostrò forte di tutti. Denunziata dal chiliarco lusio Proculo, e presa, essa riusci a fondere l'accusatore che non aveva app gio di prove, ma fu trattenuta in prigi

sero al mondo. Che direte voi di quell' altra che si chiamava Leona? in onor della quale gli Ateniesi dedicarono inanzi alla porta della rocca una leona di bronzo senza lingua, per dimostrar in lei la co- 10 stante virtú della taciturnità; perché essendo essa medesimamente consapevole d'una congiura contra i tiranni, non si spaventò per la morte di dui grandi omini suoi amici, e benché con infiniti e crudelissimi tormenti fosse lacerata, mai non palesò alcuno dei congiurati. - Disse allor madonna Margherita Gonzaga: Parmi che voi narriate 15 troppo brevemente queste opere virtuose fatte da donne; ché se ben questi nostri nemici l'hanno udite e lette, mostrano non saperle, e vorriano che se ne perdesse la memoria: ma se fate che noi altre le intendiamo, almen ce ne faremo onore.

Svelati i nomi dei congiurati, Nerone pensò di poterle strappar facilmente con la tortura preziose confessioni. E cosí narra Tacito: (Annalium, lib. XV, 57): « Atque interim Nero recordatus Volusii Proculi iudicio Epicharim adtineri, ratusque muliebre corpus impar dolori, tormentis dilacerari jubet. At illam non verbera, non ignes, non ira eo acrius torquentium, ne a femina spernerentur, pervicere, quin obiecta denegaret. Sic primus quaestionis dies contemptas. Postero, cum ad eosdem cruciatus retraheretur gestamine sellae, (nam dissolutis membris insistere nequibat) vinclo fasciae, quam pectori detraxerat, in modum laquei ad arcum sellae restricto, indidit cervicem et, corporis pondere connisa, tenuem jam spiritum expressit clariore exemplo libertina mulier, in tanta necessitate, alienos ac prope ignotos protegendo, cum ingenui et viri et equites romani senatoresque, intacti tormentis, carissima suorum quisque pignorum proderent». E appanto da questo passo di Tacito attinse il Boccaccio pel suo de Epicari libertina Capitulum, inserito nel De claris mulieribus. (Cfr. De Nolhac, Boccace et Tacite, Roma, 1892, extr. des Mélanges d'Archéol. et d'hist. publ. par l'Ecole franç. de Rome, t. XII, pp. 15-17).

8. Leona. Pausania, la cui E220s sphynots (Graeciae descriptio) vide la luce per la prima volta nel 1516 in Venezia, coi tipi aldini e a cura di Marco Musuro, parlando (lib. I, cap. xxIII, 1-2) di Ippia, figlia di Pisistrato, dice che si mostrò saggio ed umano, prima che, ucciso Ipparco da Armodio ed Aristogitone, egli sfogasse con tanta crudeltà la sua ira contro i con

giurati e contro una cortigiana di nome Leona (ἐς γυναῖκα ὄνομα Λέαιναν). « Infatti egli (secondo la tradizione degna di fede che corre sulla bocca degli Ateniesi, sebbene non raccolta ancora da alcuno scrittore), ucciso Ipparco, sottopose costei a

tormenti cosi crudeli, che ne mori, solo perché egli sospettava che, essendo amica di Aristogitone, essa non fosse ignara della congiura». Da Pausania questa narrazione dovette poi trasmettersi ai tardi compilatori della decadenza greca e latina, ai quali certo attinse il Boccaccio. Egli pone nel suo De claris mulieribus, anche Lena, della quale dice che dopo aver resistito a lungo nel suo silenzio, « crescendo i tormenti e mancando la forza del corpo, temendo quella virile femmina che, indebolendo la corporal virtú, s'indebolisse lo mortale proposito, mutossi in maggior fortezza; e fece che la sua potenza di dire mancasse similmente con la forza con aspro morso si tagliò la lingua e sputolla fuori; e cosi con un atto famoso tolse tutta la speranza di saper da lei quello che domandavano i tormentatori... (vers. di Donato Albanzani. Per le fonti del Boccaccio, vedasi J. Schück nei Neue Jahrbücher für Philologie u. Pädagogik, 1874, fasc. 10-11, pp. 467-88 e A. Hortis, Le donne famose descritte da G. Boccacci, Trieste, 1877, pp. 17-18). Ma né Pausania, né Ateneo nel libro XIII, cap. LXX del suo Deipnosophistarum (edito la prima volta in Venezia nel 1514 da Aldo il Vecchio e dal Musuro), né il Boccaccio fanno menzione, della Leonessa di bronzo, che invece è ricordata da Lattanzio (Opera, ed. curata dal Brandt e Laubmam nel Corpus scriptor. ecclesiasticor. latinor. dell' Accademia di Vienna, Milano, Hoepli, 1890, P. I, lib. I, cap. 19, p. 72). Lo scrittore cristiano cosi parla di certi culti particolari di Roma: « Exemplum scilicet Atheniensium in ea figuranda Romani secuti sunt, apud quos meretrix quaedam nomine Leaena cum tirannum occidisset, quia nefas erat simulacrum constitui meretricis in templo, animalis effigiem posuerunt cuius nomen gerebat». Tuttavia è più probabile che la fonte di questo passo del Cortegiano sia il seguente di Plutarco, il quale nell' opuscolo Della

XXIV. Allor il Magnifico Juliano, Piacemi, rispose. Or io voglio dirvi d'una, la qual fece quello che io credo che 'l signor Gasparo medesimo confesserà che fanno pochissimi omini; e cominciò: In Massilia fu già una consuetudine, la quale s'estima che di Grecia 5 fosse trasportata, la quale era, che publicamente si servava veneno temperato con cicuta, e concedevasi il pigliarlo a chi approvava al senato doversi levar la vita, per qualche incommodo che in essa sentisse, ovver per altra giusta causa, acciò che chi troppo avversa fortuna patito avea o troppo prospera gustato, in quella non perseve10 rasse o questa non mutasse. Ritrovandosi adunque Sesto Pompeo... Quivi il Frigio, non aspettando che 'l Magnifico Juliano passasse piú avanti, Questo mi par, disse, il principio d'una qualche lunga fabula. Allora il Magnifico Juliano, voltatosi ridendo a madonna Margherita, Eccovi, disse, che 'l Frigio non mi lascia parlare. Io vo15 leva or contarvi d'una donna, la quale avendo dimostrato al senato

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loquacità (Opusc. XXXIX, t. III, pp. 432-3 della cit. ediz. secondo il volgarizzamento dell'Adriani) cosí narra il fatto: « E Leena ancora riporta onorato pregio di continenza, la quale, amica d' Armodio e Aristogitone, fu con le speranze, quanto potea una donna, fatta partecipe della congiura contro i tiranni di Atene, perché avea beuto alla bella tazza d'amore, е con essa fatto solenne voto a questo Dio di tacere i segreti. Fallito l'avviso de' due amanti, essi furono uccisi; ed ella co' tormenti disaminata per farle palesare i congiurati non ancora scoperti, non ne nominò pur uno, ma con gran sofferenza pati tanto travaglio, avendo dimostrato quegli uomini non aver commessa indegnità per averla amata, e gli Ateniesi appresso fecer rizzare alle porte della fortezza una lionessa di bronzo senza lingua ecc. ».

XXIV. 3. In Massilia ecc. Questa narrazione è tratta da Valerio Massimo (lib. II, cap. vi, 7-8), dove si parla delle costumanze dei Marsigliesi : « Venenum cicuta temperatum in ea civitate publice (non pubblicamente, ma a spese pubbliche) custoditur, quod datur ei, qui causas sexcentis (id enim senatus ejus nomen est) exhibuit, propter quas mors sit illi expetenda: cognitione virili benevolentia temperata, quae nec egredi vita temere patitur, et sapienter excedere cupienti celerem fati viam praebet; ut vel adversa, vel prospera nimis usus fortuna (utraque enim finiendi spiritus, illa, ne perseveret, haec, ne destituat, rationem praebuerit) comprobato exitu terminetur. Quam consuetudinem Massiliensium non in Gallia ortam, sed e Graecia translatam inde existimo, quod illam etiam in insula Cea servari animadverti, quo tempore Asiam cum

Sexto Pompeio petens (Cfr. lib. IV, vi, 2, dove Valerio Massimo ricorda la sua amicizia per Sesto Pompeo), Iulida oppidum intravi. Forte enim evenit, ut tunc summae dignitatis ibi femina, sed ultimae jam senectutis, reddita ratione civibus, cur excedere vita deberet, veneno consumere se destinarit, mortemque suam Pompeii praesentia clariorem fieri magni aestimarit. Nec preces ejus vir ille, ut omnibus virtutibus, ita humanitatis quoque laudibus instructissimus adspernari sustinuit. Venit itaque ad eam, facundissimoque sermone, qui ore ejus quasi a beato quodam eloquentiae fonte ma. nabat, ab incepto consilio diu nequidquam revocare conatus, ad ultimum propositum exequi passus est: quae nonagesimum annum transgressa, cum summa et animi et corporis sinceritate, lectulo, quantum dignoscere erat, quotidiana consuetudine cultius strato recubans, et innixa cubito « Tibi quidem, inquit, Sex. Pompei, dii magis, quos relinquo quam quos peto, gratias referant: quia nec hortator vitae meae nec mortis spectator esse fastidisti. Caeterum ipsa hilarem fortunae vultum semper experta, ne aviditate lucis tristem intueri cogar, reli quias spiritus mei prospero fine, duas filias et septem nepotum gregem superstitem relictura. Cohortata deinde ad concordiam suos, distributo eis patrimonio et cultu suo sacrisque domesticis majori filiae traditis, poculum, in quo venenum temperatum erat, constanti dextra arripuit. Tum defusis Mercurio delibamentis, et invocato numine eius, ut se placido itinere in meliorem sedis infernae deduceret parten, cupido haustu mortiferam traxit potionem. Ac sermone significans, quasnam subinde partes corporis sui rigor occuparet, quum iam visceribus

che ragionevolmente dovea morire, allegra e senza timor alcuno tolse in presenzia di Sesto Pompeo il veneno, con tanta costanzia d'animo, e cosí prudenti ed amorevoli ricordi, ai suoi, che Pompeo e tutti gli altri che videro in una donna tanto sapere e sicurezza nel tremendo passo della morte, restarono non senza lacrime confusi di molta ma- 20 raviglia.

XXV. Allora il signor Gasparo, ridendo, Io ancora mi ricordo, disse, aver letto una orazione, nella quale un infelice marito domanda licenzia al senato di morire, ed approva averne giusta cagione, per non poter tolerare il continuo fastidio del cianciare di sua moglie, e più presto vol bere quel veneno, che voi dite che si servava publi- 5 camente per tali effetti, che le parole della moglie. Rispose il Magnifico Juliano: Quante meschine donne ariano giusta causa di domandar licenzia di morir, per non poter tolerare, non dirò le male parole, ma i malissimi fatti dei mariti! ch'io alcune ne conosco, che in questo mondo patiscono le pene che si dicono esser nell'inferno. 10 Non credete voi, rispose il signor Gasparo, che molti mariti ancor siano che dalle mogli hanno tal tormento, che ogni ora desiderino la morte? E che dispiacere, disse il Magnifico, possono far le mogli ai mariti, che sia cosí senza rimedio come son quelli che fanno i mariti alle mogli? le quali, se non per amore, almen per timor 15 sono ossequenti ai mariti. Certo è, disse il signor Gaspar, che quel poco che talor fanno di bene procede da timore, poiché poche ne sono al mondo che nel secreto dell'animo suo non abbiano in odio il marito. --- Anzi in contrario, rispose il Magnifico; e se ben vi ricorda quanto avete letto, in tutte le istorie si conosce che quasi sempre le 20 mogli amano i mariti più che essi le mogli. Quando vedeste voi o leggeste mai che un marito facesse verso la moglie un tal segno d'amore, quale fece quella Camma verso suo marito? Io non so, rispose il signor Gaspar, chi si fosse costei, né che segno la si facesse. Né io, disse il Frigio. Rispose il Magnifico: Uditilo; e 25 voi, madonna Margherita, mettete cura di tenerlo a memoria. XXVI. Questa Camma fu una bellissima giovane, ornata di tanta modestia e gentil costumi, che non men per questo che per la bel

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eum et cordi imminere esset eloquuta, filiarum manus ad supremum opprimendorum oculorum officium advocavit. Nostros autem, tametsi novo spectaculo obstupefacti erant, suffusos tamen lacrimis dimisit ».

XXV. 2. Una orazione ecc. Non sono riuscito a rintracciare l'orazione alla quale qui allude l'A.; se pure non si tratta d'arguta invenzione del Pallavicino.

XXVI. 1. Questa Camma ecc. L'esempio qui narrato di eroica virtú femminile è senza dubbio tratto dall' opuscolo di Plutarco Intorno alla virtú delle donne. La

narrazione dello scrittore greco merita di esser qui riferita, giusta il volgarizzamento di Marcello Adriani, e perché ci fa vedere una volta di più il modo onde il C. attingeva alle fonti classiche, e perché la pagina del biografo di Cheronea aveva servito di modello ad altri, come a Francesco Barbaro, autore del De re uxoria, stampato la prima volta nel 1513, ma composto circa un secolo innanzi (la storia di Camma, o Cania, secondo il Barbaro, Kappia, secondo Plutarco, è nel cap. I del lib. 11), e avea servito all'anonimo autore d' un libretto già citato, La de

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