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loro ne recuperasse; e, consultate insieme, essendo absenti gli omini, abruciarono le navi; e la prima che tal opera cominciò, si chiamava 10 Roma. Pur temendo la iracundia degli omini i quali ritornavano, andarono contra essi; ed alcune i mariti, alcune i suoi congiunti di sangue abbracciando e basciando con segno di benivolenzia, mitigarono quel primo impeto; poi manifestarono loro quietamente la causa del lor prudente pensiero. Onde i Troiani, si per la necessità, si per esser 15 benignamente accettati dai paesani, furono contentissimi di ciò che le donne avean fatto, e quivi abitarono coi Latini, nel loco dove poi fu Roma; e da questo processe il costume antico appresso i Romani, che le donne incontrando basciavano i parenti. Or vedete quanto queste donne giovassero a dar principio a Roma.

XXX. Né meno giovarono allo augumento di quella le donne sabine, che si facessero le troiane al principio: ché avendosi Romolo

cercando di chi dicesse loro, ove fussero arrivati. Nel qual tempo le donne avvisaro esser ben fatto annidarsi in qualunque luogo dopo tanti vagamenti ed errori, ancorché i lor mariti fussero i piú avventurati del mondo; e farlo e nominarlo sua patria, non potendo ripigliar la perduta. E cosi convenute sotto la guida d'una di esse (come si narra) nominata Roma, miser fuoco nelle navi. Il che fatto andarono incontro ai mariti e parenti, corsero ad abbracciarli e baciarli con grande affetto, talché con tante carezze li addolcirono. E quindi ebbe origine, e ancor dura il costume delle donne romane, che salutano i loro congiunti abbracciando e baciando. Perché riconoscendo i Troiani la necessità, e la benigna ed umana accoglienza degli abitanti, approvarono il fatto delle donne, e quivi ricevettero a comune l'abitazione dei Latini ». A questo fatto allude lo stesso Plutarco, parlando del detto costume invalso presso le donne romane, nell' opuscolo XX, cap. VI, intitolato Cagioni di usanze e costumi romani.

18. Processe. Più comune, in prosa, procedette, derivỏ.

19. Basciavano. Come piú innanzi (cap. XXXII) camiscia. Vezzo assai diffuso nel Cinquecento, presso gli scrittori toscani e non toscani, il Bembo compreso, i quali si compiacevano di questa grafia, che in realtà non rappresenta altro che una falsa e affettata pronuncia toscana. Intorno al quale argomento merita d'essere qui riferita, almeno nella parte sua più notevole, una lettera che, in data del 22 gennaio 1540, scriveva al Varchi, da Firenze, Giovanni Norchiato, un modesto canonico di S. Lorenzo, che attendeva con zelo intelligente ed operoso a compilare un vocabolario dell'uso vivo fiorentino e insieme dell'uso dei migliori scrit

CASTIGLIONE, Il Cortegiano.

tori. « Questi stampatori (egli osservava all' amico), ed anco cotesti scrittori scrivono alquante parole altrimenti che noi non le pronunziamo, e non so il perché. Ne vorrei da voi un po' di parere, se ellino errano, o se pur ci hanno dentro ragione alcuna. Le parole sono queste: Noi diciamo naturalmente ed ordinariamente camicia, cuce, abbrucia ed altri nomi simili a questi senza la lettera s; e cotesti stampatori e scrittori contro il modo della nostra pronunzia vera e sana, scrivono e stampano camiscia, cusce, abbruscia, il che per essere ignorante (che volentieri lo confesso) mi dà noia, e non so a che fine lo facciano, ed anco qualunque dei nostri Toscani, come il Bruciolo ed altri. L'ho sopportato nel Boccaccio che egli ha corretto, il che anche mi dà più noia. E della pronunzia non vi dico, che so la sapete quanto me, e meglio, che noi non diciamo camiscia. Ma vi dico in verità, che abbiamo riscontro libri antichissimi del Boccaccio, e di Dante, nei quali vi sono scritte le dette parole sempre, come noi oggi le pronunziamo, senza s, che pure si vede, che anco in quelli tempi di Dante e del Boccaccio le dovevano pronunziare, come noi oggi facciamo. Di ruscello non dico altro, perché nella pronunzia di tale parola alcuni vi pronunziano la s espressamente, alcuni no, come rucello.... » (in Raccolta di Prose fiorentine, Venezia, Remondini, 1571, P. IV, vol. I, lett. 53, p. 52).

XXX. 1. Le donne sabine ecc. Anche questa narrazione deriva, con alcune amplificazioni, da quella di T. Livio (Hist. lib. I, cap. XII-XIII), il quale, dopo accennato al rinnovarsi della battaglia fra i Romani e i Sabini Romani Sabinique in media convalle duorum montium redintegrant praelium, sed res romana erat superior cosi continua: «Tum Sabinae mulieres, quarum

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concitato generale inimicizia di tutti i suoi vicini per la rapina che fece delle lor donne, fu travagliato di guerre da ogni banda; delle 5 quali, per esser omo valoroso, tosto s'espedí con vittoria, eccetto di quella de' Sabini, che fu grandissima, perché Tito Tazio re de' Sabini era valentissimo e savio: onde essendo stato fatto uno acerbo fatto d'arme tra Romani e Sabini, con gravissimo danno dell' una e dell'altra parte, ed apparecchiandosi nova e crudel battaglia, le 10 donne sabine, vestite di nero, co' capelli sparsi e lacerati, piangendo, meste, senza timore dell'arme che già erano per ferir mosse, vennero nel mezzo tra i padri e i mariti, pregandogli che non volessero macchiarsi le mani del sangue de' soceri e dei generi; e se pur erano mal contenti di tal parentato, voltassero l'arme contra esse, ché 15 molto meglio loro era il morire che vivere vedove, o senza padri e fratelli, e ricordarsi che i suoi figlioli fossero nati di chi loro avesse morti i lor padri, o che esse fossero nate di chi lor avesse morti i lor mariti. Con questi gemiti piangendo, molte di loro nelle braccia portavano i suoi piccoli figliolini, dei quali già alcuni cominciavano 20 a snodar la lingua, e parea che chiamar volessero e far festa agli avoli loro; ai quali le donne mostrando i nepoti, e piangendo, Ecco, diceano, il sangue vostro, il quale voi con tanto impeto e furor cercate di sparger con le vostre mani. Tanta forza ebbe in questo caso la pietà e la prudenzia delle donne, che non solamente tra li 25 dui re nemici fu fatta indissolubile amicizia e confederazione, ma, che più maravigliosa cosa fu, vennero i Sabini ad abitare in Roma, e dei dui popoli fu fatto un solo; e cosí molto accrebbe questa concordia le forze di Roma, mercé delle saggie e magnanime donne; le quali in tanto da Romulo furono remunerate, che, dividendo il 30 popolo in trenta curie, a quelle pose i nomi delle donne sabine.

XXXI. Quivi essendosi un po' il Magnifico Juliano fermato, e ve dendo che 'l signor Gasparo non parlava, Non vi par, disse, che queste donne fossero causa di bene agli loro omini, e giovassero alla grandezza di Roma?.- Rispose il signor Gasparo: In vero queste furono 5 degne di molta laude; ma se voi cosí voleste dir gli errori delle donne come le bone opere, non areste taciuto che in questa guerra

ex injuria bellum ortum erat, crinibus passis scissaque veste, victo malis muliebri pavore, ausae se iuter tela volantia inferre, ex transverso impetu facto, dirimere infestas acies, dirimere iras: hinc patres, hinc viros orantes, « ne se sanguine nefando soceri generique respergerent; ne parricidio macularent partus suos, nepotum illi, liberum hi progeniem. Si affinitatis inter vos, si connubii piget, in nos vertite iras: nos causa belli, nos vulnerum ac caedium viris ac parentibus sumus; melius peribimus, quam sine alteris vestrum viduae aut orbae

vivemus». Movet res tum multitudinem, tum duces; silentium et repentina fit quies. Inde ad foedus faciendum duces prodeunt; nec pacem modo, sed et civitatem unam ex duabus faciunt: regnum consociant, imperium omne conferunt Romam. Ita geminata urbe, ut Sabinis tamen aliquid daretur, Quirites a Curibus appellati »).

18. Molte di loro ecc. Questo particolare dei bambini portati in braccio dalle donne Sabine è un' aggiunta del C., giacché non trova riscontro né in Livio, né in altri autori a me noti.

di Tito Tazio una donna tradí Roma, ed insegnò la strada ai nemici d' 'occupar il Capitolio, onde poco mancò che i Romani tutti non fussero distrutti.· Rispose il Magnifico Juliano: Voi mi fate menzion d'una sola donna mala, ed io a voi d'infinite bone; ed, oltre le già 10 dette, io potrei addurvi al mio proposito mille altri esempii delle utilità fatte a Roma dalle donne, e dirvi perché già fusse edificato un tempio a Venere Armata, ed un altro a Venere Calva, e come ordinata la festa delle Ancille a Junone, perché le ancille già libe

XXXI. 7. Una donna tradí ecc. In questo accenno il C. riassume un noto racconto di Tito Livio (Hist. Lib. I, cap. xI): « Novissimum ab Sabinis bellum ortum, multoque id maximum fuit: nihil enim per iram aut cupiditatem actum est: nec ostenderunt bellum prius, quam intulerunt. Consilio etiam additus dolus. Sp. Tarpeius romanae praeerat arci; huius filiam virginem auro corrumpit Tatius, ut armatos in arcem accipiat; aquam forte ea tum sacris extra moenia petitum ierat, accepti obrutam armis necavere; seu ut vi capta potius arx videretur, seu prodendi exempli causa, ne quid usquam fidum proditori esset ». Secondo alcuni la rocca del Monte Capitolino, sarebbe stata detta Tarpeia dal nome della figlia di S. Tarpeio. E questo nome apparisce anche in Plutarco, il quale nei suoi Paralleli, certo non ignoti al C., cosí riferisce brevemente l'episodio: « Romanis bellum contra Albanos gerentibus, Tarpeia virgo nobilis, Capitolii custos, sese in Tarpeium collem aditum tradituram esse promisit, si quae ornatus gratia ferebant monilia mercedis loco sibi tradidissent. Id ubi decreverunt, viventem obruerunt ». (vers. di Guarino veronese).

13. Un tempio a Venere Armata e un altro a Venere Calva. Servio, nel Commento al v. 720 del 1° libro dell' Eneide (secondo la redazione più ampia pseudo-serviana, riferita dal Burmann, Vergilii Opera, Amstelodami, 1746, t. II, p. 176, distinta dalla genuina primitiva) cosí scrive: « Sane Veneri multa nomina, pro locis vel causis, dicuntur imposita ». E fra le diverse appellazioni ricorda anche quella di Venere Calva: «Et est Venus Calva, ob hanc causam; quod cum Galli Capitolium obsiderent, et deessent funes Romanis ad tormenta facenda, prima Domitia crinem suum, post caeterae matronae imitatae eam, exsecuerant: unde facta tormenta: et post bellum statua Veneri hoc nomine conlocata est; licet alii Calvam Venerem, quasi puram tralant; alii Calvam, quod corda amantum calviat, id est, fallat, atque eludat. Quidam diunt porrigine olim capillos cecidisse foemiis, et Ancum Regem suae uxori statuam

calvam posuisse, quod constitit piaculo; nam mox omnibus foeminis capilli renati sunt; unde institutum, ut Calva Venus coleretur... ». Questa notizia di Servio apparisce, ma con maggiore larghezza e in modo da comprendere anche la Venere armata, in Lattanzio (Firmiani Lactantii Opera omnia cit. ed. curata dal Brandt e Laubmann nel Corpus Scriptor. ecclesiasticor. latinor. dell'Accademia di Vienna, P. I, cap. 20, p. 76): « Urbe a Gallis cccupata obsessi in Capitolio Romani cum ex mulierum capillis tormenta fecissent, aedem Veneri Calvae consecrarunt... Lacedaemoniis fortasse didicerant deos sibi ex eventis fingere. Qui cum Messenios obsiderent et illi furtim deceptis obsessoribus egressi ad diripiendam Lacedaemonem cucurrissent, a Spartanis mulieribus fusi fugatique sunt. Cognitis autem dolis hostium, Lacedaemonii sequebantur. His armatae mulieres obviam longius exierunt, quae cum viros suos cernerent parare se ad pugnam, quod putarent Messenios esse, corpora sua nudaverunt. At illi uxoribus cognitis et aspectu in libidinem concitati, sicuti erant armati permixti sunt, utique promisce - nec enim vacabat discernere sicut iuvenes ab isdem antea missi cum virginibus, ex quibus sunt Partheniae nati. Propter huius facti memoriam aedem Veneri Armatae simulacrumque posuerunt ». Ora, giacché nessun' altra fonte storica ci ha conservato (ch' io sappia) ricordo del fatto, conviene ammettere che il C., nell'accennare all'occasione per la quale sarebbesi eretto il tempio a Venere Armata, confondesse i Romani con gli Spartani. Certo, gli illustratori delle antichità romane non fanno parola di questi due tempî, edificati probabilmente solo dalla leggenda popolare. Secondo altri il tempio a Venere Calva sarebbe stato eretto dal Senato romano a perpetuare il ricordo d'un altro femminile sacrifizio, fatto dalle donne di Aquileia, le quali non esitarono a tagliarsi le chiome per fornire le corde agli archi a difesa della loro città, assediata da Massimino, pretendente all' Impero.

14. La festa delle Ancille ecc. Il fatto pel quale fu istituita questa festa a Giunone

15 rarono Roma dalle insidie de' nemici. Ma, lassando tutte queste cose, quel magnanimo fatto d'aver scoperto la congiurazion di Catilina, di che tanto si lauda Cicerone, non ebbe egli principalmente origine da una vil femina? la quale per questo si poria dir che fusse stata causa di tutto 'l bene che si vanta Cicerone aver fatto alla 20 republica romana. E se 'l tempo mi bastasse, vi mostrarei forse ancor le donne spesso aver corretto di molti errori degli omini; ma temo che questo mio ragionamento ormai sia troppo lungo e fastidioso: perché avendo, secondo il poter mio, satisfatto al carico datomi da queste signore, penso di dar loco a chi dica cose più degne d'esser 25 udite, che non posso dir io.

XXXII. Allor la signora Emilia, Non defraudate, disse, le donne di quelle vere laudi che loro sono debite; e ricordatevi che se 'l signor Gasparo, ed ancor forse il signor Ottaviano, vi odono con fastidio, noi, e tutti quest' altri signori, vi udiamo con piacere. Il Magni5 fico pur volea por fine, ma tutte le donne cominciarono a pregarlo che dicesse: onde egli ridendo, Per non mi provocar, disse, per nemico il signor Gaspar più di quello che egli si sia, dirò brevemente d'alcune che mi occorrono alla memoria, lassandone molte ch'io

è accennato da Plutarco nella vita di Romolo (cap. XXIX) e narrato da lui stesso nella Vita di Camillo (cap. XXXII), dove delle due versioni del fatto ci porge prima quella che egli dice leggendaria o favolosa (δίειμι δὲ τὸν μυθώδη πρότερον). Ε con ampiezza ancor maggiore Macrobio nei suoi Saturnali (lib. I, cap. x1, 35-40 del testo curato dall' Eyssenhardt) cosi narra l'episodio che sa veramente di leggenda: «Ac ne in solo virili sexu aestimes inter servos extitisse virtutes, accipe ancillarum factum non minus memorabile nec quo utilius rei publicae in ulla nobilitate repperias. Nonis Julii diem festum esse ancillarum tam vulgo notum est ut nec origo nec causa celebritatis ignota sit. Junoni enim Caprotinae die illo liberae pariter ancillaeque sacrificant sub arbore caprifico in memoriam benignae virtutis quae in ancillarum animis pro conservatione publicae dignitatis apparuit. Nam post urbem captam cum sedatus esset Gallicus motus, res publica vero esset ad tenue deducta, finitimi oportunitatem invadendi Romani nominis aucupati praefecerunt sibi Postumium Livium Fidenatium dictatorem, qui mandatis ad senatum missis postulavit ut, si vellent reliquias suae civitatis manere, matresfamilias sibi et virgines dederentur cumque patres essent in ancipiti deliberatione suspensi, ancilla nomine Tutela seu Philotis pollicita est se cum ceteris ancillis sub nomine dominarum ad hostes ituram habituque matrumfamilias

et virginum sumpto hostibus cum prose. quentium lacrimis ad fidem doloris ingestae sunt. Quae cum a Livio in castris distributae fuissent, viros plurimo vino provocaverunt diem festum apud se esse simulantes: quibus soporatis ex arbore caprifico quae castris erat proxima signum Romanis dederunt. Qui cum repentina incursione superassent, memor beneficii senatus omnes ancillas manu iussit emitti dotemque eis ex publico fecit et ornatum quo tunc erant usae gestare concessit diemque ipsum Nonas Caprotinas nuncupavit ab illa caprifico ex qua signum victoriae ceperunt, sacrificiumque statuit annua sollemnitate celebrandum, cui lac quod ex caprifico manat propter memoriam facti praecedentis adhibetur ».

17. Si lauda Cicerone ecc. Qui il si lauda ha valore riflessivo. Infatti basterebbe ricordare che nel già citato opuscolo di Plutarco intorno al lodarsi da sé senza invidia (opusc. XLIV, vers. dell' Adriani) si legge: I Romani rimasero forte annoiati al sentir replicarsi spesso a Cicerone le lodi della sua azione contro Catilina... perché Cicerone senza occasione e senza bisogno replicava spesso le sue lodi ». La vil femina alla quale allude il C. fu una certa Fulvia, donna di malaffare, ma incapace di aiutare col silenzio la rovina della sua patria. Di lei cosí lasciò scritto Anneo Floro (Catilinar. lib. IV, c. 1): «Tanti sceleris indicium per Fulviam emersit, vilissimum scortum, sed parricidii innocens ».

potrei dire;

poi soggiunse: Essendo Filippo di Demetrio intorno alla città di Chio, ed avendola assediata, mandò un bando, che a 10 tutti i servi che della città fuggivano, ed a sé venissero, prometteva la libertà, e le mogli dei lor patroni. Fu tanto lo sdegno delle donne per cosí ignominioso bando, che con l'arme vennero alle mura, e tanto ferocemente combatterono, che in poco tempo scacciarono Filippo con vergogna e danno; il che non aveano potuto far gli omini. 15 Queste medesime donne essendo coi lor mariti, padri e fratelli, che andavano in esilio, pervenute in Leuconia, fecero un atto non men glorioso di questo: che gli Eritrei, che ivi erano co' suoi confederati, mossero guerra a questi Chii; li quali non potendo contrastare, tolsero patto col giuppon solo e la camiscia uscir della città. Intendendo 20 le donne cosí vituperoso accordo, si dolsero, rimproverandogli che, lassando l'arme, uscissero come ignudi tra nemici; e rispondendo essi, già aver stabilito il patto, dissero che portassero lo scudo e la lanza e lassassero i panni, e rispondessero ai nemici, questo essere il loro abito. E cosí facendo essi per consiglio delle lor donne rico- 25 persero in gran parte la vergogna, che in tutto fuggir non poteano. Avendo ancor Ciro in un fatto d'arme rotto un esercito di Persiani,

XXXII. 9. Essendo Filippo di Demetrio ecc. Questo Filippo fu il quindicesimo re della Macedonia dopo Alessandro Magno, e cominciò contro i Romani quella guerra, che fini sotto Perseo, suo figlio, con la distruzione della monarchia macedone. Anche questo racconto è tratto dal cit. opuscolo di Plutarco intorno alla virtú delle donne, dove, secondo la vers. dell'Adriani, si legge cosi: « Quando Filippo figliuolo di Demetrio, assediava la lor (dei Chii) città, mandò un bando barbaro e superbo, che i servi della città che lasciati i padroni venivano a lui, arebbero per guiderdone libertà e la padrona per moglie. Le donne assediate tanto si sdegnarono, e si furon concitate, che in compagnia de' servi parimente sdegnati, ch' aiutavano, corsero alle mura, e porgendo sassi e frecce, e inanimando e pregando i combattenti e finalmente combattendo e saettando i nemici, rispinsero Filippo, senza che alcun servo si fuggisse a lui ».

16. Queste medesime donne ecc. Il C. attinse anche questa narrazione al cit. opuscolo di Plutarco, del quale però inverte l'ordine, anche cronologico, giacché lo scrittore greco, dopo narrato questo racconto della guerra contro gli Eritrei, accingendosi ad esporre quello dell' assedio patito dai Chii da parte di Filippo, nota che questa lodevolissima azione delle donne di Chio, fu compiuta molti anni dopo » la precedente. Ecco le parole di Plutarco seguito fedelmente dal nostro A.: « Fu poi mossa

la guerra dagli Eritrei, popoli più possenti di tutta l'Ionia, che misero l'assedio a Leuconia; e non potendo tenersi fecer patto d' uscirne con casacca e mantello solamente. Le donne, inteso l'accordo, cominciaro a dir lor parole ingiuriose, che posate l'armi volessero nudi traversar l'esercito de' nemici: e dicendo i mariti d'essere legati con giuramento, li forzarono a non lasciar l'armi, e dire a' nemici che la lancia è casacca, o lo scudo è mantello dell' uomo valoroso. Cosi parlando i Chii, e arditamente parlando gli Eritrei, e vibrando l'armi, fecer sí che gli Eritrei cominciaro ad aver temenza di loro ardire, e niuno s'accostò per impedirli, e si contentarono che cosi n'andassero. E cosí avendo appreso dalle donne ad aver cuore ed ardimento si salvarono l'onore ecc. ».

27. Avendo ancor Ciro ecc. Narrazione presa, al solito, da Plutarco, che cosi scrive: « Ciro, dopo aver fatto ribellare i Persiani dal re Astiage e da' Medi, fu vinto in una giornata, e poco mancò che i suoi nimici non intrassero nella città in frotta co' fuggenti Persiani. Le donne ciò veggendo, vengono loro incontro fuor della città, e alzati i panni dinanzi dissero: Ove andate, o pessima generazione fra quanti ne sono nel mondo; già per fuggire non potrete qua rientrare, onde usciste. Alla qual voce ed aspetto, vergognandosi i Persiani, e biasimando lor medesimi, voltaron la fronte a' nemici, e ricombattendo li misero in fuga. Per la qual cagione fu da

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