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nella man sinistra edificargli una amplissima città, e nella destra una gran coppa, nella quale si raccogliessero tutti i fiumi che da quello derivano, e di quindi traboccassero nel mare: pensier veramente grande, e degno d'Alessandro Magno. Queste cose estimo io, signor 50 Ottaviano, che si convengano ad un nobile e vero principe, e lo facciano nella pace e nella guerra gloriosissimo; e non lo avertire a tante minuzie, e lo aver rispetto di combattere solamente per dominare o vincer quei che meritano esser dominati, o per utilità ai subditi, o per levare il governo a quelli che governan male: ché se i 55 Romani, Alessandro, Annibale e gli altri avessero avuto questi risguardi, non sarebbon stati nel colmo di quella gloria che furono.

XXXVII. Rispose allor il signor Ottaviano ridendo: Quelli che non ebbero questi risguardi, arebbono fatto meglio avendogli; benché, se considerate, trovarete che molti gli ebbero, e massimamente quei primi antichi, come Teseo ed Ercole: né crediate che altri fossero Procuste e Scirone, Cacco, Diomede, Anteo, Gerione, che tirannı cru- 5

crate (come afferma Vitruvio nella prefazione del lib. III), ovvero Stasicrate (al dir di Plutarco nella Vita d'Alessandro, e nel libro che scrisse Della virtú e fortuna d'Alessandro) diede per consiglio ad Alessandro di ridurre il detto monte in figura d'uomo, e di edificargli nella sinistra un'amplissima città capace di diecimila abitatori, e nella destra una gran coppa, nella quale si raccogliessero tutti i fiumi che da quello derivano, donde poi sboccassero in mare. Si compiacque Alessandro di si bella e magnifica idea; ma quando intese che una tal città sarebbe senza territorio, e che dovrebbe alimentarsi colle sole provisioni d' oltre mare, ne abbandonò affatto il pensiero, comparando una tal città a un fanciullo che non può crescere per iscarsezza di latte nella sua balia».

52. Avertire a ecc. Invece di badare a, por mente, è forma scorretta, invece di avvertire, che risulterebbe dalla forma latina advertire per un'assimilazione normale, mentre l'avertire, arcaico, risalendo al latino avertere, significa l'opposto, cioè volgere da, distogliere e simili.

56. Risguardi. Più comune riguardi, come si legge nella redazione primitiva di mano del copista nel cod. laurenz.

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corto, e poi tagliava via quella parte del loro corpo che ne sporgeva fuori. Teseo lo condannò al supplizio stesso cui egli aveva assoggettato tante vittime. Cosi pure Teseo uccise Scirone, che in Megaride arrestava i viandanti, e dopo averli spogliati li precipitava dall' alto d' una roccia nel mare. Cacco, Diomede, Anteo, Gerione. Questi nomi assai noti fanno parte del mito di Ercole, ma solo il secondo ed il quarto son compresi nelle maggiori imprese dell'eroe, dette le Dodici fatiche; le altre due rientrano nel novero di quelle accessorie o secondarie (άpepra). Cacco è il famoso ladrone, figlio di Vulcano, che gli antichi poeti rappresentano come uomo bestiale, Virgilio come mezzo uomo e mezzo bestia (En. vIII, 194, 207) e Dante (Inf. xxv, 17 seg.) come centauro; sorpreso da Ercole nella sua grotta o spelonca sull' Aventino, dove aveva trascinato a ritroso i buoi e le giovenche da Ercole condotti di Spagna e tolti a Gerione, fu dall'eroe strozzato (En. VIII, 205 segg.) Diomede è il figlio di Ares (Marte) e re dei Bistoni, in Tracia, a cui Ercole, per ordine di Euristeo, tolse le cavalle furiose e indomabili, alle quali l'eroe diede in pasto il corpo dell'ucciso padrone. Anteo, re potente e gigantesco della Libia, figlio di Poseidone e di Gea (la Terra) fu da Ercole soffocato fra le sue braccia, privo in tal modo del mirabile soccorso che gli veniva dal contatto con la madre terra. Gorione, re d'Epiro, mostro con tre corpi, possedeva un armento di bellissimi buoi rossi, affidati alla guardia del gigante Euritione e del cano Ortro, il cane dalle tre teste, come Cerbero. Ercole, per ordine di Euristeo, uccise Gerione, il gigante e il

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deli ed empii, contra i quali aveano perpetua e mortal guerra questi magnanimi Eroi; e però per aver liberato il mondo da cosí intollerabili mostri (che altramente non si debbon nominare i tiranni), ad Ercole furon fatti i tempii e i sagrificii e dati gli onori divini; per10 ché il beneficio di estirpare i tiranni è tanto giovevcle al mondo, che chi lo fa merita molto maggior premio, che tutto quello che si conviene ad un mortale. E di coloro che voi avete nominati, non vi par che Alessandro giovasse con le sue vittorie ai vinti, avendo instituite

cane e condusse il prezioso armento a Micene, dove Euristeo io offerse in sacrificio ad Era.

9. Perché il beneficio di estirpare i tiranni ecc. Il Rigutini giudicò « molto nonotabile sentenza » questa « in uno scrittore di quei tempi ». Ma chi abbia presenti le condizioni morali e intellettuali del nostro Rinascimento, trova naturale e comune questa esecrazione della tirannia, esecrazione che, apparsa dapprima come una risurrezione puramente teorica e direi anche retorica d' un sentimento e d'un pensiero antico, si esplicò non di raro nella pratica, con tirannicidî e congiure contro tiranní o pretesi tiranni. E si noti che i principi tirannici del Rinascimento nostro disarmarono la maggior parte dei letterati, maliandoli col fascino e lo splendore di quel mecenatismo, che era divenuto uno strumento essenziale della loro politica. « La tirannide, già sino dall'antichità (scriveva il compianto amico Macri-Leone, in uno studio su La politica di G. Boccaccio nel Giorn. stor. d. lett. ital. xv, 83) aveva richiamato sopra di sé le invettive degli scrittori e nel medio evo specialmente, col rifiorire dello studio del diritto romano, si faceva strada sempre più, come dimostra il Bezold, la dottrina della sovranità popolare. Gli esempi di Bruto e di Collatino insegnavano il tirannicidio, giustificato anche da Giovanni di Salisbury. Anche in Italix l'invettiva contro il tiranno prosperò. Dante nella Commedia e nel De vulgari eloquentia bolla con parole di fuoco la cupidigia e la superbia de' nuovi principi. Il Petrarca con tono rettorico parla contro gli usurpatori di libertà, ripetendo le accuse dell'antichità e del medio-evo, pronto tuttavia ad accettarne i benefici e l'ospitalità. Anche il Boccaccio, specialmente nel libro De casibus virorum illustrium, si sfoga più o meno rettoricamente contro i principi, accusandoli di avarizia, d'ambizione e di libidine ed affermando che contro essi « far congiure, pigliar l'arme, tender lacci, e stender le sue forze, è cosa da magnanimo, è cosa santissima e al tutto necessaria, non essendo a Iddio nessun altro sacrificio più

accetto che il sangue del tiranno ». Son concetti tradizionali che ripeterà ancora, dopo due secoli il Machiavelli, osserva il Macri-Leone; ma temperandoli, io soggiungo con uno spirito pratico che lo indurrà a biasimare come inutili e dannose le congiure. Cosi il nostro C. porge la mano al Boccaccio, a quella guisa che i versi con cui Pietro Crinito (Riccio) esaltava il Lampugnani, uno degli uccisori di Galeazzo Maria Sforza, fanno riscontro a quelli coi quali la gioventú ateniese celebrò Armodio ed Aristogitone. Del resto non mancavano anche gli avversarî del tirannicidio, come, per es.. Erasmo da Rotterdam, il quale alla sua versione dell' opuscolo di Luciano Tyran nicida seu pro Tyrannicida, faceva seguire una Declamatio Erasmi contra tyrannicidam (ediz. Venezia, Aldo, 1516). Si leggano su questo argomento le belle osservazioni del Burckhardt, Op. cit. vol. I, P. I, cap. VI.

12. Non vi par che Alessandro ecc. Tutto questo passo è tratto dal citato opuscolo di Plutarco Della fortuna o virtú di Alessandro (vers. dell' Adriani, ed. cit. P. I, p. 448), dove si narra che «i popoli conquistati da Alessandro in Asia dovettero a lui la vita civile »>, e si dà lode al re Macedone a perché non segui il consiglio di Aristotele di portarsi coi Greci come padre e coi barbari come Signore, e stimar quei come amici e domestici, e di questi servirsi come animali e piante... Ma credendosi esser quasi disceso dal cielo per arbitro comune e rifor matore dell' universo, quei che non poté persuadere con la ragione, forzò con l'armi, e d'ogni intorno assembrando insieme le vite, i costumi, e i maritaggi, comandò a tutti i viventi che avessero per patria la terra abitata, per fortezze e castella il suo esercito, e per parenti i buoni, e i malvagi soli tenessero per istranieri e per l'avve nire non fusse distinto il greco o il barbaro dal manto, dalla targa, dalla scimitarra o dalla veste barbaresca, ma con la virtú si contrassegnasse il greco, e col vizio si macchiasse il barbaro, accomunando i vestimenti, le mense le nozze e le maniere del vivere con l' unione del sangue e dei figliuoli.

di tanti boni costumi quelle barbare genti che superò, che di fiere gli fece omini? edificò tante belle città in paesi mal abitati, intro- 15 ducendovi il viver morale; e quasi congiungendo l'Asia e l'Europa col vinculo dell'amicizia e delle sante leggi, di modo che piú felici furono i vinti da lui, che gli altri; perché ad alcuni mostrò i matrimonii, ad altri l'agricoltura, ad altri la religione, ad altri il non uccidere ma il nutrir i padri già vecchi, ad altri lo astenersi dal con- 20 giungersi con le madri, e mille altre cose che si porian dir in testimonio del giovamento che fecero al mondo le sue vittorie.

XXXVIII. Ma, lassando gli antichi, qual piú nobile e gloriosa impresa e più giovevole potrebbe essere, che se i Cristiani voltassero le forze loro a subjugar gl' infedeli? non vi parrebbe che questa guerra, succedendo prosperamente, ed essendo causa di ridurre dalla falsa setta di Maumet al lume della verità cristiana tante migliaia 5 d'omini, fosse per giovare cosí ai vinti come ai vincitori? E veramente, come già Temistocle, essendo discacciato dalla patria sua e raccolto dal re di Persia e da lui accarezzato ed onorato con infiniti e ricchissimi doni, ai suoi disse: Amici, ruinati eravamo noi, se non ruinavamo; cosí ben poriano allor con ragion dire il medesimo 19 ancora i Turchi e i Mori, perché nella perdita loro saria la lor salute. Questa felicità adunque spero che ancora vedremo, se da Dio ne fia conceduto il viver tanto, che alla corona di Francia pervenga Mon

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XXXVIII. 2. Se i Cristiani ecc. Questa esortazione ed augurio di una prossima Crociata era da un pezzo un luogo comune nelle prose e nei versi dei letterati e nelle allocuzioni e nelle lettere dei Papi e dei Principi e serviva spesso agli uni e agli altri a gettarsi la polvere negli occhi e a riuscire nei tortuosi avvolgimenti di quella bieca politica.

7. Come già Temistocle ecc. Questo aneddoto l'A. attinse probabilmente da Plutarco, che lo riferisce, con lievi varianti, in quattro passi delle sue opere. Negli Apophthegmata Temistocle rivolge quelle parole ai servi, nell' opuscolo Dell' esilio quelle parole si riferiscono come spesso ripetute da Temistocle alla moglie e ai figliuoli; e parimenti ai figliuoli sono indirizzate nella Vita di Temistocle e nell' opuscolo Della fortuna o virtú d'Alessandro. In quest'ultimo (ed. cit. p. 448) si dice che Temistocle sbandeggiato d' Atene, ricevette dal Re dei Persi grandissimi doni, e tre città che gli somministrassero il vitto, una a conto del pane, l'altra del vino, e la terza pei camangiari ».

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sentenza: Mors tua, vita mea, e avrebbero accolto con un sorriso quella variante che il C. proponeva: Mors mea... vita mea!

13. Monsignor d' Angolem. Una speranza consimile e quasi con le stesse parole aveva espresso il C. nel lib. I, cap. XLII, 9, alla cui nota rimando il lettore. Qui giova ricordare come in quel Proemio del Cortegiano indirizzato ad Alfonso Ariosto e ri. fiutato poi dall'A., che il Serassi diede alla luce (in Appendice alle Leitere, ed.cit. vol. I, pp. 181-186), il C., celebrando le lodi di Re Francesco I, che lo aveva insistentemente esortato per mezzo dell' amico a scrivere il Cortegiano, si diffonda con fervor di retorica e a volte con magniloquenza poetica su questo téma della Crociata. «E piaccia a Dio (egli esclama), che questo eccelso e glorioso rivolga gli alti suoi pensieri a' danni de' perfidi avversarii di Cristo, che in vero un tanto Principe ragionevolmente sdegnar si deve di vincere minor nemico che un Re di Asia, e tutto l'Oriente, e far minor effetto che rimover dal mondo una cosí inveterata e potente setta, com'è la Maumettana. Né ad altro più si conviene Vendicare le ingiurie fatte alla Fede di Cristo che al Re Cristianissimo». E dopo rievocati i ricordi delle imprese compiute contro gli Infedeli dai suoi gloriosi ante

signor d'Angolem, il quale tanta speranza mostra di sé, quanta, mo 15 quarta sera, disse il signor Magnifico; ed a quella d'Inghilterra il signor don Enrico, principe di Waglia, che or cresce sotto il magno padre in ogni sorte di virtú, come tenero rampollo sotto l'ombra d'arbore eccellente e carico di frutti, per rinovarlo molto più bello e

nati e dagli illustri guerrieri di Francia e dai Principi moderni, per eccitare il giovane Re alla guerra Santa, il C. prosegue: « E certamente già parmi vedere quel tanto desiderato giorno, che 'l Cristianessimo, dopo l'aver traversato tanti paesi, tanti mari, e vinto tante barbare e strane nazioni, e dilatato lo imperio e il nome suo per tutto il mondo, giungerà agli confini di Jerusalem: qual felicità sarà, che si possa agguagliare a quella, che Sua Maestà nell'animo trà sé dentro sentirà? Dopoi, quando cominciaranno da lontano ad apparire le alte torri della Santa Città, che pensieri, che voglie, che devoti affetti saranno quelli, che fioriranno nel suo magnanimo cuore! Che allegrezza in tutto lo esercito, il quale già inginocchiato parmi vedere con alta voce e pietose lagrime salutare ed adorare le benedette mura, e la Santa Terra, nella quale con tanti divini misteri fu il principio della salute nostra !... ». In queste e nelle altre parole, che per brevità tralascio, par quasi di sentire un annunzio della Gerusalemme, e del verso trepidante del poeta: Ecco apparir Gerusalem si vede ecc. (Ger. lib. III, 3) e il sentimento e l'entusiasmo dello scrittore giungono al punto da desiderare ardentissimamente di adoperar la sua spada e la sua penna per l'impresa gloriosa: « E certo niun altro desiderio mai sarammi tanto stabilito nel cuore, né con maggior istanzia dimanderò grazia a Dio, che di potere a tale impresa servire il Cristianissimo, vedendo con gli occhi proprii, e forse scrivendo una parte di cosí gloriosi fatti, e accompagnando con l'arme l'alta persona, per servizio della quale molta gloria e grazia mi serà spendere questa vita, che più nobil fiore aver non potría ».

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zione d'Inghilterra del 1531 ci lasciò questo ritratto del giovane Re: « In questo ottavo Enrico Iddio insieme congiunse la bellezza del corpo con quella dell'animo, che rende stupore non che meraviglia ad ognuno. Chi non piglierebbe ammirazione a vedere in cosí glorioso Principe la grandezza della persona al corpo proporzionata, che dà segno manifesto di quella intrinseca maggioranza d'animo, che in lui continuamente soggiorna? Egli è di faccia angelica non che bella, ha la testa cesarina e calma, usa la barba contro il costume Inglese. Chi non stupirebbe contemplando la singolar bellezza del corpo accompagnata da una gagliarda destrezza a qualunque esercizio atta? Sta a cavallo bene, lo maneggia me glio, giostra e porta la lancia benissimo, tira il ferro e l'arco maravigliosamente, giuoca alla palla destrissimamente, E se la natura in gioventú l'aveva dotato di tanti doni singolari, non fu punto egli freddo in adornarli, conservarli e augumentarli con ogni industria e fatica, parendogli essere cosa monstruosa in un principe par suo non reggere il corpo alle virtú morali ed intellettuali; però da piccolo dette opera alle buone lettere di umanità, e poi alla filosofia e Sacra Scrittura, colle quali acquistò nome di principe letterato e ottimo; imparò, oltre la latina e la materna, la lingua spagnuola, la francese e l'italians; è affabile, grazioso, pien di umanità e cortesia, liberale, e particolarmente alli virtuosi, alli quali mai si sazia di compiacere. Benché però sia sempre stato intelligente e giudizioso, nientemeno si lasciò traboccare nelle cose amorose talmente, che avvezzo all' ozio permise l'amministrazione dello Stato a' suoi più fedeli per molti anni quasi sino alla persecuzione dell' Eboracense, dove prese tanta affezione al proprio na neggio, che di liberale divenne avaro.... Mostra di essere religioso, ode ordinariamente due messe picciole, e nelle feste ancora la grande; fa molte elemosine, sollevando poveri, pupilli, vedove, donzelle e stroppiati, a sovvenimento de' quali isborsa per l'elemosinario ducati diecimila all'anno, ed è amato universalmente da tutti... (Le relazioni degli Ambasciatori Veneti, ed. E. Albèri, S. I, vol. III, 1853, pp. 10-11). Ma più tardi né il Falier, né il C. avrebbero osato ripetere quelle lodi per un re, il quale, se da principio destò tante liete speranze

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più fecundo quando fia tempo; ché, come di là scrive il nostro Castiglione, e piú largamente promette di dire al suo ritorno, pare che 20 la natura in questo signore abbia voluto far prova di sé stessa, collocando in un corpo solo tante eccellenzie, quante bastariano per adornarne infiniti. Disse allora messer Bernardo Bibiena: Grandissima speranza ancor di sé promette don Carlo, principe di Spagna, il quale non essendo ancor giunto al decimo anno della sua età, di- 25 mostra già tanto ingegno e cosí certi indizii di bontà, di prudenzia, di modestia, di magnanimità e d'ogni virtú, che se l'imperio di cristianità sarà, come s'estima, nelle sue mani, creder si pò che 'l debba oscurare il nome di molti imperatori antichi, ed aguagliarsi di fama ai famosi che mai siano stati al mondo.

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XXXIX. Suggiunse il signor Ottaviano: Credo adunque che tali e cosí divini principi siano da Dio mandati in terra, e da lui fatti simili della età giovenile, della potenzia dell'arme, del stato, della bellezza e disposizion del corpo, a fin che siano ancor a questo bon voler concordi; e se invidia o emulazione alcuna esser deve mai tra 5

di sé, andò diventando un tiranno sempre piú sanguinario e dispotico; per un re che ebbe sulla coscienza l'uccisione, fra le altre, d'un Tommaso More e d' un' Anna Boleyn, e di cui lo stesso Hume scrisse che la sua tirannide e barbarie lo escludono da ogni diritto alla reputazione di buono.

19. Come di là scrive ecc. L'A. finge che all'epoca in cui sarebbero stati tenuti questi ragionamenti del Cortegiano, cioè nel principio di marzo del 1507, il suo soggiorno in Inghilterra continuasse, mentre sappiamo che in realtà egli era di ritorno in Italia sin dai primi di febbraio, reduce dall'onorevole ambasceria ad Enrico VII, in nome del Duca Guidobaldo. Si avverta però che in una redazione anteriore a quelle del Cod. laurenz. l' A. aveva scritto: « Come referisce el nostro Castiglione che pur hor de Inghilterra è ritornato ».

24. Don Carlo, principe di Spagna ecc. L'immortale figliolo dell'Arciduca Filippo d' Austria e di Giovanna la Pazza, nel marzo 1507 aveva appena compiuti sette anni; ma quando il C. scriveva questo passo, doveva essere già re di Spagna (1516) ed erano apparse ormai « faville della sua virtute». Allora però non poteva prevedere che egli, il C., avrebbe avuto la fortuna e insieme la disgrazia di essere inviato piú tardi Nunzio pontificio alla Corte di Carlo V, del quale avrebbe saputo cattivarsi tanto l'affetto e la stima, da meritare, morto, la celebre lode: «Io vos digo que es muerto uno de los mejores caballeros del mundo ». Come si vede, la profezia e l'augurio dell'A. si avverarono mirabilmente. Nella redazione primitiva del Cod. laurenz. questo passo si

legge cosi: «Disse allora messer Bernardo Bibiena io non credo ch' alcun di quelli che sono qui piú, for ch' io, habbia veduto il Principe Don Carlo, il quale a questi dí essendo restato senza tal [padre ?] qual era il Re Don Philippo, ha mostrato in cosí gran perdita tanto animo e sapere, che si pò se non estimare, che benché ancor non sia giunto al decimo anno della sua età; sia però bastante al governo di tutti li Regni suoi hereditarii: ancor che sino grandissimi, e che l' Imperio di Cristianità (come si estima) serà nelle sue mani, debba crescer non poco di forza e di dignità ». Qui si allude alla morte di Filippo il Bello, padre di Carlo V, avvenuta nel settembre del 1506; e in questa redazione troviamo la ragione perché le lodi di Carlo V, di molto accresciute nella seconda e più tarda redazione, sieno poste in bocca al Bibbiena. Si avverta però che in una redazione anteriore a quella primitiva del cod. laurenz. si parla solo di « Monsignor d' Angolem »> e del « principe di Waglia »; di don Carlo non compare ancora il nome.

XXXIX. 5. E se invidia o emulazione ecc.

È un'ipotesi che il C. fece probabilmente quando s'erano avuti ormai indizî piú che certi delle future lotte, che dovevano scoppiare fra questi re, specialmente tra Francesco I e Carlo V. Infatti se Francesco I, appena eletto (1515), rinnovò la lega con Venezia e confermò la pace con Enrico VIII e indusse l' arciduca Carlo a stipulare un trattato, contro di lui, impaziente e cupido di guerra e di conquiste e di gloria militare, non tardò a formarsi, per segreto impulso di Leone X, la lega dell' Imperatore e di

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