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cose. Dicesi ancor esser stato proverbio presso ad alcuni eccellentissimi pittori antichi, troppo diligenzia esser nociva, ed esser stato biasmato Protogene da Apelle, che non sapea levar le mani dalla tavola. Disse allor messer Cesare: Questo medesimo diffetto parmi 15 che abbia il nostro fra Serafino, di non saper levar le mani dalla tavola, almen fin che in tutto non ne sono levate ancora le vivande. Rise il Conte, e suggiunse: Voleva dire Apelle, che Protogene nella pittura non conoscea quel che bastava; il che non era altro, che riprenderlo d'essere affettato nelle opere sue. Questa virtú adunque 20 contraria alla affettazione, la qual noi per ora chiamiamo sprezzatura, oltra che ella sia il vero fonte donde deriva la grazia, porta ancor seco un altro ornamento, il quale accompagnando qualsivoglia azione umana per minima che ella sia, non solamente subito scopre il saper di chi la fa, ma spesso lo fa estimar molto maggior di quello che 25 è in effetto; perché nelli animi delli circustanti imprime opinione, che chi cosí facilmente fa bene sappia molto più di quello che fa, e se in quello che fa ponesse studio e fatica, potesse farlo molto meglio. E, per replicare i medesimi esempii, eccovi che un uom che maneggi l'arme, se per lanciar un dardo, ovver tenendo la spada in 30 mano o altr'arma, si pon senza pensar scioltamente in una attitudine pronta, con tal facilità che paja che il corpo e tutte le membra stiano in quella disposizione naturalmente e senza fatica alcuna, ancora che

12. Esser stato proverbio ecc. Il fatto eni allude l' A. e che avrebbe dato origine al proverbio, è cosí esposto da Carlo Dati nelle celebri Vite de' pittori antichi (Napoli, 1730, p. 79) attingendo da Plinio (Hist. nat. XXXV, 10): « Quando (Apelle) vide il Gialiso, nel fare il quale Protogene aveva consumati sett' anni, perdé la parola e rimase sbalordito in contemplare quell'accuratezza eccessiva; poi, voltandosi addietro, esclamo: Gran lavoro! Opera mirabile! Artefice egregio! Ma non c'è grazia pari a tanta fatica! Se non mancasse questa, sarebbe cosa divina. Protogene in tutte le cose m'agguaglia e facilmente mi supera, na non sa levar le mani di sul lavoro; e con quest'ultime parole insegnò, che spesso nuoce la diligenza soverchia »>.

16. Il nostro fra Serafino ecc. Cesare Gonzaga scherza qui sul doppio significato di tavola. Una delle qualità più frequenti e piú vantate in questo, come negli altri buffoni di quel secolo, era una voracità insaziabile, gargantuesca addirittura; e perciò appunto il teatro prediletto delle loro gesta era la tavola. Per averne un'idea si veda ciò che fra Mariano, degno compagnone di fra Serafino, e delle sue prodezze stupefacenti, scrive il Graf (Op. cit. pp. 383-4).

18. Voleva dire Apelle ecc. Che, cioè, a

Protogene mancava il senso della misura. Il germe di questo passo troviamo nell' Orator (Cap. XXI, 73) di Cicerone: « In omnibus rebus vitandum est quatenus; etsi enim suus cuique modus est, tamen magis offendit nimium quam parum. In quo Apelles pictores quoque eos peccare dicebat, qui non sentirent quid esset satis».

33. Disposizione. Qui equivale perfettamente a posizione, attitudine più acconcia. Naturalmente e senza fatica alcuna ecc. Per questo, come per gli altri esempî che seguono, il C. insiste su quello che per lui è il concetto fondamentale della grazia e a cui aveva accennato anche più sopra; cioè ogni atto, per essere veramente grazioso, dev'essere naturale e « non sforzato ». E a tale riguardo è singolare l'analogia che vediamo fra questo concetto della grazia nel C. e nello Spencer, come fu egregiamente rilevato dal Torraca (La Grazia secondo il Castiglione e secondo lo Spencer, articolo pubbl. prima nella Rassegna settimanale del 6 febbr. 1881 e poi riprodotto nella Antologia della nostra critica letter. del Morandi, 4a ediz. 1890, pp. 478-82). Anche L. B. Alberti nel suo trattato della Pittura (lib. II, cap. xxIII) avvertiva il pittore che « le attitudini non siano forzate, ma debbano avere grazia e dolcezza».

non faccia altro, ad ognuno si dimostra esser perfettissimo i 35 esercizio. Medesimamente nel danzare, un passo solo, un so

mento della persona grazioso e non sforzato, subito manifesta di chi danza. Un musico, se nel cantar pronuncia una sola v minata con soave accento in un groppetto dupplicato con tal che paja che cosí gli venga fatto a caso, con quel punto so 40 noscere che sa molto più di quello che fa. Spesso ancor nella una linea sola non stentata, un sol colpo di pennello tirato fac di modo che paja che la mano, senza esser guidata da studi alcuna, vada per sé stessa al suo termine secondo la inten pittore, scopre chiaramente la eccellenzia dell'artefice, circa la della quale ognuno poi si estende secondo il suo giudicio: desimo interviene quasi d'ogni altra cosa. Sarà adunque Cortegiano estimato eccellente, ed in ogni cosa averà graz simamente nel parlare, se fuggirà l'affettazione: nel qual en corrono molti, e talor piú che gli altri, alcuni nostri Lon 50 quali se sono stati un anno fuor di casa, ritornati subito co

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35. Nel danzare ecc. Questo stesso esempio il C. aveva recato poco prima (cap. XXVI), e ai nostri giorni se ne servi anche lo Spencer, ignaro forse del Cortegiano: dico forse, perché questo libro fu ben presto tradotto e gustato anche dagli Inglesi. Lo Spencer scrive, fra altro, che nella danza « la grande difficoltà è di ben tenere e mani e braccia. Quelli che non sanno cavarsela con onore, hanno l'aria, agli occhi degli astanti, di non sapere che fare delle loro braccia, lo tengono dure, distese in atteggiamento insignificante e a costo di uno sforzo evidente. Un buon danzatore, al contrario, ci dà l'idea che le sue braccia, invece di incomodarlo, gli servono davvero. (Cfr. l'articolo cit. del Torraca).

38. Un groppetto dupplicato. Il groppetto non è che un complesso di tre o quattro note, le quali servono di abbellimento, di fioritura al discorso musicale. Forse nel sec. XVI chiamavano groppetto anche il complesso di due note, che oggidí vien detto mordente: in ogni modo è chiaro che quello di quattro note è il duplicato.

41. Un sol colpo di pennello ecc. Pensi il lettore che il nostro C. ebbe a vedere spesso i colpi magici del piú meraviglioso pennello del suo tempo, quello del Sanzio, suo amico dilettissimo, come s'è già detto in addietro.

44. Circa la opinion della quale ecc. L'eccellenza del pittore, evidente ed innegabile, e riconosciuta da ognuno, non sarà da tutti egualmente apprezzata, ma da chi più, da chi meno, a seconda del proprio giudizio, che risulta dal gusto particolare, dalla col

tura, dalla educazione estetica minore ecc.

46. Sarà adunque ecc. L' ecc cortigiano si fonda adunque i parte sulla grazia, la cui essenz consiste nel fuggire l'affettazio

48. Nel parlare ecc. Accingen tare la questione della lingua essere adoperata dal cortigiano. mincia ad affermare come prin rale e costante, che esso deve an gire l'affettazione o nel parlare non propria, come per un lomb mana, la spagnola, la frances pure nell' usare voci antiche tos scomparse dalla parlata degli stes

50. Cominciano a parlare ron notevole che qui il Canossa nor toscano fra le parlate nella cui i Lombardi cadevano più spesso tato, anche prescindendo dagli ar pure è certo che nelle varie re penisola, accanto ad una tendenz giante negli usi letterarî e nell esistette, dove piú, dove meno tendenza al parlare toscano. Q vediamo messo in ridicolo nelle tigiane (Vedi nelle cit. Galanter del sec. XVI, Torino, 1888, p. Prose del Bembo il Magnific de' Medici accenna a taluni, « i ciocché non sanno essi ragiona mente, si fanno a credere, ch sia quelli biasimare, che cosi r (Lib. I, ed. class. p. 59). Nel Pierio (Valeriano) sopra le lin (ristampato dal Ticozzi in app

a parlare romano, talor spagnolo o franzese, e Dio sa come; e tutto questo procede da troppo desiderio di mostrar di saper assai: ed in tal modo l'omo mette studio e diligenzia in acquistar un vizio odiosissimo. E certo, a me sarebbe non piccola fatica, se in questi nostri ragionamenti io volessi usar quelle parole antiche toscane, che già 55 sono dalla consuetudine dei Toscani d'oggidi rifiutate; e con tutto questo credo che ognun di me ridería.

XXIX. Allor messer Federico, Veramente, disse, ragionando tra noi, come or facciamo, forse saria male usar quelle parole antiche toscane; perché, come voi dite, dariano fatica a chi le dicesse ed a chi le udisse, e non senza difficoltà sarebbono da molti intese. Ma chi scrivesse, crederei ben io che facesse errore non usandole, per- 5

Storia dei Letterati e degli Artisti del dipartimento della Piave (Belluno, Tissi, 1813, p. 189), M. Antonio Marostica, sostenitore, insieme col Trissino, della lingua cortigiana, dice che a lui non pareva « la più sciocca cosa che affettare di parlar Toscano uno che non sia Toscano ».

XXIX. 1. Allor messer Federico. Al Canossa, che si è dichiarato assolutamente e incondizionatamente contrario all'uso di parole toscane antiche, il Fregoso oppone l'opportunità di usarle in certi casi nelle scritture, per accrescere loro grazia ed autorità e dare una certa solennità grave e maestosa, che manca alle locuzioni moderne. Benché si capisca che il C. propende pel Canossa, sta il fatto che nel Cortegiano non sono infrequenti gli arcaismi toscani, ma più di fonologia e di morfologia che di lessico. Notisi che nel principio del primo libro delle Prose bembesche, M. Carlo Bembo, che rappresenta le idee del fratello Pietro, si dichiara favorevole all'imitazione degli antichi scrittori fiorentini, disdegnando l'uso popolaresco » ed affermando taluni concetti che sono in opposizione con quelli che abbiamo veduto espressi dal nostro Autore nella Dedica e qui vediamo ripetuti dal Canossa. Nelle stesse Prose il Magnifico Giuliano de' Medici esprime un' opinione assai 40migliante a quella sostenuta qui del Canossa, cioè dal C. stesso, circa la necessità, per lo scrittore, di seguire la naturale trasformazione dell' uso toscano scritto e parlato.

5. Crederei ben io che facesse ecc. Lo stesso Cicerone (de Oratore, lib. III, XXXVIII, 152-3) fra i mezzi coi quali l'oratore può accrescere ornamento al suo dicorso, registra anche l'uso di arcaismi inusitata verba), ma notando: « Inusitata ant prisca ac vetustate ab usu cotidiani sermonis iam diu intermissa, quae sunt poëtarum licentiae liberiora quam nostrae, *ed tamen raro habet etiam in oratione

poëticum aliquod verbum dignitatem ». Egli registra parecchie parole antiquate che userebbe volentieri, e oltre a quelle ne esistono, dic' egli, « alia multa, quibus loco positis grandior atque antiquior oratio saepe videri solet ». Anche Quintiliano (Inst. orat. lib. VIII, II) afferma e dimostra con esempî che propriis (verbis) dignitatem dat antiquitas ». Ma il C. doveva aver presente un altro passo di Quintiliano (Op. cit. lib. I, vi), dove si legge: « Verba a vetustate repetita non solum magnos assertores habent sed etiam afferunt orationi maiestatem aliquam non sine delectatione; nam et auctoritatem antiquitatis habent et, quia intermissa sunt, gratiam novitati similem parant. Sed opus est modo, ut neque crebra sint haec neque manifesta, quia nihil est odiosius affectatione, nec utique ab ultimis et iam oblitteratis repetita temporibus... Oratie vero cuius summa virtus est perspicuitas, quam sit vitiosa, si egeat interprete ».

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Si legga questo medesimo passo secondo la redazione primitiva che, di mano del copista, ci è conservata nel cod. laurenz.: «... crederei ben io che facesse errore non scrivendo in quella lingua che pur è più bella de l'altre. Alhor il Conte, se a voi, disse, occorresse fare una (sic) ordine di cose de importantia nel Senato proprio de Firenze ch'è il capo di Toscana, son certo che vi guardereste di usar quelle parole antiche toscane: et usandole penso che seria cosa odiosa a tutti quelli che ascoltassero: non essendo adunque conveniente questo modo di parlare nelle cose gravi, né meno nelle piacevoli e dimestiche come hora ragioniam tra noi: il che voi confessate pareriami pur gran sciocchezza usar nel scrivere per bone quelle parole, che se fuggissero per viciose in ogni sorte di parlare e penso che quello che mai non si conviene nel parlare, non possa convenirsi né anco nel scrivere: perché la scrit tura, secondo me, non è altro ecc. ».

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ché danno molta grazia ed autorità alle scritture, e da esse risulta una lingua piú grave e piena di maestà che dalle moderne. Non so, rispose il Conte, che grazia o autorità posson dar alle scritture quelle parole che si deono fuggire, non solamente nel modo del par19 lare, come or noi facciamo (il che voi stesso confessate), ma ancor in ogni altro che imaginar si possa. Ché se a qualsivoglia omo di bon giudicio occorresse far una orazione di cose gravi nel senato proprio di Fiorenza, che è il capo di Toscana, overo parlar privatamente con persona di grado in quella città di negozii importanti, o 15 ancor con chi fosse dimestichissimo di cose piacevoli, con donne o cavalieri d'amore, o burlando o scherzando in feste, giochi, e dove si sia, o in qualsivoglia tempo, loco o proposito, son certo che si guarderebbe d'usar quelle parole antiche toscane; ed usandole, oltre al far beffe di sé, darebbe non poco fastidio a ciascun che lo ascol20 tasse. Parmi adunque molto strana cosa usare nello scrivere per bone quelle parole, che si fuggono per viziose in ogni sorte di parlare; e voler che quello che mai non si conviene nel parlare, sia il più conveniente modo che usar si possa nello scrivere. Ché pur, secondo me, la scrittura non è altro che una forma di parlare, che resta ancor poi 25 che l'omo ha parlato, e quasi una imagine o più presto vita delle parole: e però nel parlare, il qual, subito uscita che è la voce, si disperde, son forse tollerabili alcune cose che non sono nello scrivere; perché la scrittura conserva le parole, e le sottopone al giudicio di chi legge, e dà tempo di considerarle maturamente. E perciò è raso gionevole che in questa si metta maggior diligenza, per farla più culta e castigata; non però di modo, che le parole scritte siano dissimili dalle dette, ma che nello scrivere si eleggano delle più belle che s'usano nel parlare. E se nello scrivere fosse licito quello che non è licito nel parlare, ne nascerebbe un inconveniente al parer mio 35 grandissimo: che è, che più licenza usar si poria in quella cosa nella qual si dee usar più studio; e la industria che si mette nello scrivere, in loco di giovar, nocerebbe. Però certo è, che quello che si conviene nello scrivere, si convien ancor nel parlare; e quel parlar

14. Con persona di grado. Con personaggio autorevole per dignità, per ufficio e anche per ingegno.

18. Quelle parole antiche toscane. Il Magnifico Giuliano nelle Prose del Bembo (lib. I, cap. XIII), trattando del « parlare » toscano negli antichi tempi, rozzo e gros. so e materiale dà "}, per saggio delle « materiali e grosse voci »> di cui era pieno: blasmo, placere, meo, Deo, bellore, fallore ecc. ».

24. La scrittura non è altro ecc. E il Castelvetro nella Giunta X al primo libro delle Prose bembesche: «Ma della scrittura non avvien quale, poiché è figu

rata, mai non si tramuta, né varia per cosa alcuna, né fugge, o trapassa tosto; ma sempre risuona ad una guisa, e può a bel. l'agio più volte esser e letta e riletta dal leggitore». Inutile dire quanta giustezza sia in questi concetti che il C. esprime per bocca del Canossa e coi quali tende ad af fermare le intime relazioni che esistono fra la parola scritta e la parlata: concetti tanto notevoli in un tempo nel quale, specie fra i non toscani, (e lo stesso C. non seppe, né poté sempre tenersene lontano) s' era manifestato in teoria ed in pratica, più profondo che mai, il dissidio fra la lingua viva, parlata e la scritta.

è bellissimo, che è simile ai scritti belli. Estimo ancora, che molto piú sia necessario l'esser inteso nello scrivere, che nel parlare; per- 40 ché quelli che scrivono non son sempre presenti a quelli che leggono, come quelli che parlano a quelli che parlano. Però io lauderei che l'omo, oltre al fuggir molte parole antiche toscane, s'assicurasse ancor d'usare, e scrivendo e parlando, quelle che oggidí sono in consuetudine in Toscana e negli altri lochi della Italia, che hanno qual: 45 che grazia nella pronuncia. E parmi che chi s'impone altra legge, non sia ben sicuro di non incorrere in quella affettazione tanto biasimata, della qual dianzi dicevamo.

XXX. Allora messer Federico, Signor Conte, disse, io non posso negarvi che la scrittura non sia un modo di parlare. Dico ben, che se le parole che si dicono hanno in sé qualche oscurità, quel ragionamento non penetra nell'animo di chi ode, e passando senza essere inteso, diventa vano: il che non interviene nello scrivere; ché se le 5 parole che usa il scrittore portan seco un poco, non dirò di difficultà, ma d'acutezza recondita, e non cosí nota come quelle che si dicono parlando ordinariamente, dànno una certa maggior autorità alla scrittura, e fanno che 'l lettore va più ritenuto e sopra di sé, e meglio considera, e si diletta dello ingegno e dottrina di chi scrive; e col 10 bon giudicio affaticandosi un poco, gusta quel piacere che s'ha nel conseguir le cose difficili. E se la ignoranzia di chi legge è tanta, che non possa superar quelle difficultà, non è la colpa dello scrittore, né per questo si dee stimar che quella lingua non sia bella. Però, nello scrivere credo io che si convenga usar le parole toscane, so- 15 lamente usate dagli antichi Toscani; perché quello è gran testimonio ed approvato dal tempo che sian bone, e significative di quello perché si dicono; ed oltra questo, hanno quella grazia e venerazion che l'antiquità presta non solamente alle parole, ma agli edificii, alle

42. Però io lauderei ecc. Qui l'A. ripete più esplicitamente l'idea che abbiamo già veduto espressa da lui nella Dedica, d'evitare, cioè, nello scrivere l' esagerazione di coloro che, o limitavano la scelta della lingua agli scrittori toscani, specialmente al Boccaccio, deliziandosi di arcaismi, oppare, nell' attingere all' uso parlato, non Osavano varcare i confini della Toscana. E questo eclettismo indipendente, che era in fondo una continuazione della dottrina dantesca, si andò facendo abbastanza comune fra gli scrittori non toscani del 500. Fra i quali ricorderò Monsignor Paolo Giovio, che nel principio del suo Dialogo dell'imprese scriveva: ...Non intendo obbligarmi alla severità delle leggi di questo scelto toscano; perché io voglio in tutti i modi esser libero di parlare alla cortigiana ».

43. S'assicurasse d'usare ecc. Acquistare la sicurezza necessaria nell' uso ecc.

XXX. 9. Va più ritenuto ecc. Siccome qui si tratta d'un verbo dipendente da una proposizione consecutiva, andrebbe più correttamente usato il congiuntivo. Cosi pure si dica degli altri verbi considera, si diletta, gusta.

14. Però, nello scrivere ecc. Qui il Fregoso afferma in tutta la sua crudezza la teoria che il Bembo aveva sostenuto nel primo libro delle sue Prose e della quale lo stesso m. Federigo s'era mostrato fautore. (Prose, ed. class. lib. I, cap. xi, p. 74).

17. E significative di quello perché si dicono. Efficaci ad esprimere i concetti poi quali sono adoperate.

19. Presta. Qui, come il praestat latino, significa porge, conferisce.

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