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sono Toscani, e forse di non minor dottrina e giudicio che s il Petrarca e 'l Boccaccio. E veramente gran miseria saria fine e non passar piú avanti di quello che s'abbia fatto quasi il che ha scritto, e disperarsi che tanti e cosí nobili ingegni p 80 mai trovar più che una forma bella di dire in quella lingua, essi è propria e naturale. Ma oggidí son certi scrupolosi, i quasi con una religion e misterii ineffabili di questa lor ling scana, spaventano di modo chi gli ascolta, che inducono anco uomini nobili e litterati in tanta timidità, che non osano a 85 bocca, e confessano di non saper parlar quella lingua, che imparata dalle nutrici insino nelle fasce. Ma di questo par abbiam detto pur troppo; però seguitiamo ormai il ragioname Cortegiano.

XXXVIII. Allora messer Federico rispose: Io voglio pur dir questo poco, che è, ch'io già non niego che le opinioni e gegni degli omini non siano diversi tra sé; né credo che ber che uno, da natura veemente e concitato, si mettesse a scriv 5 placide; né meno un altro severo e grave, a scriver piacev perché in questo parmi ragionevole che ognuno s'accommodi stinto suo proprio. E di ciò, credo, parlava Cicerone quando che i maestri avessero riguardo alla natura dei discipuli, p far come i mali agricultori, che talor nel terreno che solam 10 fruttifero per le vigne vogliono seminar grano. Ma a me

lio, e sostenne in Firenze i principali officî pubblici. Mori il 10 aprile del 1522 e fu sepolto in S. Croce. Il Varchi dà un lungo elenco delle sue opere, tutte di carattere filosofico e scritte in latino, tranne alcune (come i Tre libri d'Amore e il Panegirico d'Amore) da lui stesso tradotte in italiano. Al quale riguardo avverte i Varchi che egli scrisse in istile leggiadro e corretto, e, non curante delle beffe che altri si faceva di chi scriveva volgare, tradusse alcune delle sue opere in volgare. Sappiamo anche (Villari, Machiavelli, III, 46-7) che il Diacceto fu uno dei più assidui frequentatori degli Orti Oricellari quando vi era anche il Machiavelli. Non dobbiamo pertanto stupire troppo di vedere qui il Cattani in cosí illustre compagnia, anzi noteremo che il C., che nelle redazioni primitive del Cortegiano, aveva omesso il nome dello scrittore fiorentino, mostra, specialmente nel lib. IV, di averne letto e studiato i Tre libri d'Amore.

77. Metter fine ecc. Finire e arrestarsi al punto al quale è arrivato il primo scrittore e disperare che, come in tutte le arti e in tutte le manifestazioni dello spirito, tanti e cosi eccellenti ingegni non abbiano a trovare forme nuove e vive nella lingua lor propria.

81. Ma oggidí son certi ecc. F gutamente efficace è il modo con si ribella a quei fastidiosi minist nuova e pedantesca religione in lingua, i quali con minacce e sco e atteggiamenti solenni e lenocin? cercano di attirare i fedeli. E in q role, poste in bocca al Canossa, di sentire un'allegra vendetta de tro taluni,che forse avevano bias lingua del suo Cortegiano quand girava ancor manoscritto. La bo dava a colpire, probabilmente co tenzione dell'A.. anche il Bembo. piú tenaci e intolleranti osservator stoli dell' antica lingua fiorentina. che, quando scriveva dei mister bili della lingua, l'A. aveva forse « illa dicendi mysteria » di Cicer orat., lib. I, XLVII, 206). Anche qu gione è probabilmente reminiscenz niana (Cfr. Brutus, cap. LXXXII, 28 tor. cap. XI, 36).

86. Parmi che abbiam detto pu E veramente in questa parte che la lingua, il C., cedendo all' and tempo, si lasciò trascinare ad un sione eccessiva e non proporzion sto del dialogo.

capir nella testa, che d'una lingua particolare, la quale non è a tutti gli omini cosí propria come i discorsi ed i pensieri e molte altre operazioni, ma una invenzione contenuta sotto certi termini, non sia più ragionevole imitar quelli che parlan meglio, che parlare a caso è che, cosí come nel latino l'omo si dee sforzar di assimigliarsi alla 15 lingua di Virgilio e di Cicerone, piú tosto che a quella di Silio o di Cornelio Tacito, cosí nel vulgar non sia meglio imitar quella del Petrarca e del Boccaccio, che d'alcun altro; ma ben in essa esprimere i suoi proprii concetti, ed in questo attendere, come insegna Cicerone, allo instinto suo naturale: e cosí si troverà, che quella dif- 20 ferenzia che voi dite essere tra i boni oratori, consiste nei sensi e non nella lingua. Allor il Conte, Dubito, disse, che noi entraremo in un gran pelago, e lasseremo il nostro primo proposito del Cortegiano. Pur domando a voi: in che consiste la bontà di questa lingua? - Rispose messer Federico: Nel servar ben le proprietà di essa, e 25 tòrla in quella significazione, usando quello stile e que' numeri, che hanno fatto tutti quei che hanno scritto bene. Vorrei, disse il Conte, sapere se questo stile e questi numeri di che voi parlate, nascono dalle sentenzie o dalle parole. Dalle parole, rispose messer FedeAdunque, disse il Conte, a voi non par che le parole di Silio 30 e di Cornelio Tacito siano quelle medesime che usa Virgilio e Cicerone? né tolte nella medesima significazione? Rispose messer Federico: Le medesime son sí, ma alcune mal osservate e tolte diversamente. Rispose il Conte: E se d'un libro di Cornelio e d'un di Silio si levassero tutte quelle parole che son poste in altra signifi- 35 cazion di quello che fa Virgilio e Cicerone, che seriano pochissime: non direste voi poi, che Cornelio nella lingua fosse pare a Cicerone, e Silio a Virgilio? e che ben fosse imitar quella maniera del dire? XXXIX. Allor la signora Emilia, A me par, disse, che questa vostra disputa sia mo troppo lunga e fastidiosa; però fia bene a dif

rico.

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XXXVIII. 13. Ma una invenzione ecc. Certo che, dato questo concetto meschino ed essenzialmente sbagliato d' una lingua, al Fregoso non poteva « capir nella testa >> cioè egli non poteva capacitarsi) che si avesse a scrivere senza tenere sotto gli occhi un modello di lingua e di stile da imitare.

15. Cosí come nel latino ecc. E cosi ferero la maggior parte dei nostri scrittori del Rinascimento, durante il quale l'adorazione e l'imitazione servile della forma.. virgiliana e ciceroniana raggiunsero un grado pari soltanto a quello che nella letratura volgare ebbero a raggiungere l'imitazione e l'adorazione del Petrarca e del Boccaccio. Come nella decadenza delle lettere latine, cosi anche allora si arrivò alla forma più cruda dell'imitazione, cioè ai cen

toni (p. es. quelli di Lelio Capilupi mantovano) e il Ciceronianismo fa perfetto riscontro al petrarchismo e alle esagerazioni dei boccaccevoli.

16. Silio Italico, l'imitatore di Virgilio, l'autore delle Puniche, che furono scoperte soltanto nel sec. xv e che furono pubblicate la prima volta nel 1471.

26. Que' numeri ecc. Dei numeri, in senso di ritmo e armonia anche della prosa (esse ergo in oratione numerum quemdam non est difficile cognoscere), tratta Cicerone nell'Orator (capp. LV sgg.).

33. Mal osservate ecc. Mal conservate, cioè alterate ed usate in un significato diverso. Fra breve si troverà osservazione.

XXXIX. 2. Disputa... lunga e fastidiosa. Il giudizio della Signora Emilia è certo meritato e noi non sapremo darle torto: ma

ferirla ad un altro tempo. Messer Federico pur incominciava a rispondere; ma sempre la signora Emilia lo interrompeva. In ultimo 5 disse il Conte: Molti vogliono giudicare i stili e parlar de' numeri e della imitazione; ma a me non sanno già essi dare ad intendere che cosa sia stile né numero, né in che consista la imitazione, né perché le cose tolte da Omero o da qualche altro stiano tanto bene in Virgilio, che più presto paiono illustrate che imitate: e ciò forse procede ch'io 10 non son capace d'intendergli. Ma perché grande argumento che l'uom sappia una cosa è il saperla insegnare, dubito che essi ancora poco la intendano; e che e Virgilio e Cicerone laudino perché sentono che da molti son laudati, non perché conoscano la differenzia che è tra essi e gli altri: ché in vero non consiste in avere una osservazione 15 di due, di tre o di dieci parole usate a modo diverso dagli altri. In Salustio, in Cesare, in Varrone e negli altri boni si trovano usati alcuni termini diversamente da quello che usa Cicerone; e pur l'uno e l'altro sta bene, perché in cosí frivola cosa non è posta la bontà e forza d'una lingua: come ben disse Demostene ad Eschine, che lo 20 mordeva, domandandogli d'alcune parole le quali egli aveva usate. e pur non erano attiche, se erano mostri o portenti; e Demostene se ne rise, e risposegli, che in questo non consistevano le fortune di Grecia. Cosí io ancora poco mi curarei se da un Toscano fossi ri

dobbiamo anche pensare che l'insistenza dei due interlocutori in queste vuote ed oziose e fastidiose logomachie sulla lingua e lo stile, che hanno tutta una letteratura nel 500, ci mostra come quelle questioni interessassero vivamente anche i non letterati e dessero materia alle conversazioni della società elegante del tempo. Di che abbondano del resto le testimonianze.

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mento

6. Non sanno già essi dare ad intendere, cioè spiegare, definire. Eppure ciascuno credeva di avere un giusto concetto dello stile e del numero e della imitazione basti ricordare alcuna delle più note polemiche dei sec. XV e XVI su tale argoe non riusciva a persuadere l'avversario o a lasciarsene persuadere, perché le idee che essi riprendevano da Cicerone (De orat. lib. II, XXII sgg. e altrove) e da Quintiliano (Inst. orat. lib. X, 11), anche per la materia di sua natura elastica e indeterminata, si prestavano a interpretazioni e stiracchiature diverse e infinite nelle mani di scrittori appassionati e battaglieri e spesso pedanti.

14. Avere una osservazione ecc. cioè mantenere, conservare, quasi per una certa deferenza o preferenza. Nello stesso significato il Firenzuola nei Ragionamenti (ed. Milano, 1876, p. 285) scriveva che l'innovamento in fatto di lingua e di metrica è riprovevole dove si fa confusione, dove gli

antichi e moderni scrittori greci, latini e toscani hanno avuta una comune osservazione, han posto i termini, e comandato ch' egli non si passi più oltre ».

19. Come ben disse Demostene ecc. È tolto da Cicerone (Orator, cap. v, 26-7): « Ac tamen in hoc ipso (Demosthene) diligenter examinante verborum omnium pondera reprehendit Aeschines quaedam et exagitat illudensque dura, odiosa, intolerabilia esse dicit. Quin etiam quaerit ab ipso, quum quidem eum beluam appellet, utrum illa verba an portenta sint: ut Aeschini ne Demosthenes quidem videatur Attice dicere. Facile est enim verbum aliquod ardens, ut ita dicam, notare idque restinctis iam animorum incendiis irridere. Itaque se purgans iocatur Demosthenes: negat in eo positas esse fortunas Graeciae, hocine an illo verbo usus sit, huc an illuc manum porrexerit ».

23. Poco mi curarei ecc. Eppure in due casi dei quattro qui citati il toscano avrebbe avuto ragione di riprendere il Canossa, cioè il C. stesso, giacché satisfatto e populo sono forme latineggianti che non si possono ragionevolmente preferire alle due corrispondenti sodisfatto e popolo. L'orrevole, prodotto d' un' assimilazione normale nel toscano, fu soppiantato nell' uso da onorevole, e causa coesiste accanto a cagione (occasione).

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preso d'aver detto più tosto satisfatto che sodisfatto, ed onorevole che orrevole, e causa che cagione, e populo che popolo, ed altre tai cose. 25 Allor messer Federico si levò in piè, e disse: Ascoltatemi, prego, queste parole. Rispose, ridendo, la signora Emilia: Pena la disgrazia mia a qual di voi per ora parla più di questa materia, perché voglio che la rimettiamo ad un'altra sera. Ma voi, Conte, seguitate il ragionamento del Cortegiano; e mostrateci come avete bona me- 30 moria, che, credo, se saprete ritaccarlo ove lo lassaste, non farete poco.

XL. Signora, rispose il Conte, il filo mi par tronco: pur, s'io non m'inganno, credo che dicevamo, che somma disgrazia a tutte le cose dà sempre la pestifera affettazione, e per contrario grazia estrema la semplicità e la sprezzatura: a laude della quale, e biasmo della affettazione, molte altre cose ragionar si potrebbono; ma io una sola 5 ancor dir ne voglio, e non piú. Gran desiderio universalmente tengon tutte le donne di essere, e, quando esser non ponno, almen di parer belle: però, dove la natura in qualche parte in questo è mancata, esse si sforzano di supplir con l'artificio. Quindi nasce l'acconciarsi la faccia con tanto studio e talor pena, pelarsi le ciglia e la fronte, 10 ed usar tutti que' modi e patire que' fastidii, che voi altre donne credete che agli uomini siano molto secreti, e pur tutti si sanno. Rise quivi Madonna Costanza Fregosa, e disse: Voi fareste assai più cortesemente seguitar il ragionamento vostro, e dir onde nasca la bona grazia, e parlar della Cortegianía, che voler scoprir i di- 15 fetti delle donne senza proposito. Anzi molto a proposito, rispose il Conte; perché questi vostri difetti di che io parlo vi levano la grazia, perché d'altro non nascono che da affettazione, per la qual fate conoscere ad ognuno scopertamente il troppo desiderio vostro d'esser belle. Non v'accorgete voi, quanto più di grazia tenga una 20 donna, la qual, se pur si acconcia, lo fa cosí parcamente e cosí poco,

31. Ritaccarlo. Più comune, anzi adottato esclusivamente dall'uso, attaccare.

XL. 1. Il filo. Cioè il filo del ragionamento è rimasto interrotto.

3. La pestifera affettazione. Abbiamo visto or ora in Quintiliano che << nihil est odiosius affectatione ».

9. Quindi nasce l'acconciarsi ecc. Vecchia storia che, quando più, quando meno, s'è venuta ripetendo presso tutti i popoli e con forme sostanzialmente poco diverse. Nel Rinascimento anche il lusso e gli artifizi femminili risentirono l'influsso domi- . nante dell'arte, ma non per questo rifug girono dalle esagerazioni e dalle stranezze, come provano abbastanza i molti accenni contenuti nella letteratura di quel tempo e, meglio ancora, i ricettari galanti, uno dei quali fu ristampato recentemente dal

Guerrini (Bologna, 1883, Disp. 195 della Scelta di curios. letter.). Per citare una stampa contemporanea al nostro Cortegiano, ricorderemo l'Opera nova intitolata dificio de recette nella quale si contengono tre utilissimi recettarii. (In fine) Stampato in Vinegia per Francesco Bindoni, et Mapheo Pasini Compagni, nell'anno MDXXX.

13. Voi fareste... seguitar ecc. Più correttamente a seguitar.

21. Si acconcia. Si adorna, si fa bella. E concia, aggettivo dal verbo conciare, significa anche in modo speciale imbellettata, come concio, sostantivo, vale ornamento, belletto.

Cosí parcamente. Questo appunto usava fare la Duchessa Elisabetta, se, come sembra probabilissimo, deve riferirsi a lei quella ricetta semplicissima: Acquade viso

che chi la vede sta in dubbio s'ena e concia o пo; che un ait piastrata tanto, che paia aversi posto alla faccia una masc non osi a ridere per non farsela crepare, né si muti mai di co 25 non quando la mattina si veste; e poi tutto il remanente del stia come statua di legno immobile, comparendo solamente di torze, come mostrano i cauti mercatanti i lor panni in loco o Quanto più poi di tutte piace una, dico non brutta, che si c chiaramente non aver cosa alcuna in su la faccia, benché n 30 cosí bianca né cosí rossa, ma col suo color nativo pallidetta, per vergogna o per altro accidente tinta d'un ingenuo rosso capelli a caso inornati e mal composti, e coi gesti semplici e

usata per la Signora Duchessa d' Urbino et probatissima, che si trova nel citato Ricettario galante edito dal Guerrini (p. 21).

22. Empiastrata ecc. Curiosi particolari da porre a riscontro con questi accenni del C., troviamo in quel libretto singolare che è La Raffaella ovvero della bella creanza delle donne, di Alessandro Piccolomini, amico dell'Aretino e fiorito pochi anni più tardi del nostro A. In questo dialogo, che cosi vivamente e talora crudamente ritrae lo spirito della società italiana del Cinquecento, la Raffaella, ammaestrando con tanta raffinatezza sapiente la Margherita, dice (p. 25 della ristampa di Milano, Daelli, 1862) che una giovane, per quanto abbia « le carni... chiare, bianche e delicate », non deve trascurarle. «E per questo io concederei che una gentildonna usasse continuamente acque preziose e eccellenti, ma senza corpo o pochissimo, delle quali io li saprei dar ricette perfettissime e rare ». Perciò essa biasima tutti quei « solimati, e biacche e molte altre sorti di lisci che si usano », " perché, che potiam veder peggio, che una giovene, che si abbia incalcinato e coperto il viso di si grossa màscara, che appena è conosciuta per chi la sia? E tanto più quando ella è ignorante di tal esercizio, e si impiastra a caso, senza sapere che ella si faccia ». E la Margherita s'affretta a citare l'esempio d'una sua vicina, che cosi sgarbatamente si aveva coperto il viso, ch' io vi prometto che gli occhi parean di un'altra persona; e il freddo gli avea fatte livide le carni, e risecco l'empiastro, tal che gli era forza alla poveretta stare intirizzita, e non voltar la testa, se non con tutta la persona insieme, acciò che la màscara non si fendesse ».

28. Quanto più poi di tutte piace ecc. Qui abbiamo, non priva di efficacia e di colorito, una pagina di estetica femminile, un riflesso di quell' ideale di bellezza femminile che occupò tanto il nostro Rinascimento, cosi assetato del bello e dell'arte,

e che in quell' età cominciò ad a maggiori elementi soggettivi e con per lo innanzi non avesse. Due 1 cialmente notevoli a questo riguar lasciato il Cinquecento, due tratta ma di dialogo, il Dialogo della delle donne di Agnolo Firenzuola ( ckhardt, La civiltà del secolo del mento in Italia, vers. ital., vol. II 100) e Il Libro della bella donna rigo Luigini (V. ristampa di Milano 1863) sui quali e su qualche altro osservazioni il Renier nel Tipo della donna nel Medio Evo, Anco relli, 1885, cap. VIII.

29-30. La faccia... pallidetta. Il 1 lore della faccia si conciliava col d'una bellezza femminile sana e for troviamo, ad esempio, nel Firenz cit. ed. Milano, 1876), pel quale chezza delle guance « dalle estremi neve, deve andare, insieme col gon della carne, crescendo sempre i nato». Pel Luigini (Op. ed. cit. p. guance di questa donna saranno morbide, assomigliando la loro ter bianchezza con quella del latte, s quanto alle volte contendono con rita freschezza delle mattutine ro

32. Capelli. Il C. non ci parl lore dei capelli, ma è probabile c siderasse di color biondo, il colo: rito generalmente dai poeti è dag « attraverso tutti i periodi e tutte situdini della nostra razza » (Re cit. cap. vII). Il Firenzuola (Op. cit che dà la preferenza al biondo, «i capegli... sottili, assettati, cr piosi, lunghi, risplendenti e be gliati »; e il Luigini (Op. cit. pp. mentre anch' egli vuole «i capell crespi, lunghi e folti, in bionde ti volti, e non già celati in rete niu. o di seta », non rifugge dal dare alla donna « capelli fuori di legge andare con essi sopra il collo scic

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